spazioLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. RandolphLynn M. Randolph
fotomappe1

inrilievo /
di Linda De Feo
I misteri di Lynn M. Randolph tra ossessive metafore e promettenti mostruosità

Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente
Fernando Pessoa

 

Il realismo visionario e metaforico dei dipinti di Lynn Randolph reinterpreta simboli, icone, miti, rappresentando i processi materiali, percependo le spinte di un’ineludibile mutazione antropologica, decifrando le inedite realtà affiorate nel mondo natural-culturale e preconizzando il modello dell’umanità futura. Quest’artista outsider, come lei stessa ama definirsi, ispirandosi a suggestioni letterarie e a riflessioni filosofiche, a vette della teoria estetica e ad espressioni della cultura popolare, delinea le relazioni di scambio intercorrenti tra le esperienze del politico e la rappresentazione sociomorfica del cosmo, per sottolineare l’estrema difettività dell’uomo, costitutivamente estraneo a un mondo privo di senso oggettivo.
La Randolph coniuga splendidamente, nella magia del quotidiano tratteggiato, del sogno raffigurato, degli oggetti rappresentati, l’influenza della pittura del tardo Medioevo e del primo Rinascimento all’influsso di artisti come Man Ray, Frida Kahlo, Remedios Varo. Fonde, inoltre, il richiamo perturbante della scrittura spettacolarizzata di autori come Edgar Allan Poe all’eco di romanzieri come Philip K. Dick, James G. Ballard, Thomas Pynchon e di registi come George Romero e Ridley Scott, adombrando, sulla falsariga dell’eterogeneo punk cibernetico, i tratti che definiscono l’ipercontemporaneo media landscape. 
Ricalcando i percorsi di una tecnica che rilancia ossessivamente il proprio limite, la pittrice coglie il pericolo che le dinamiche di decentralizzazione emancipatoria dei processi di comunicazione non trovino adeguato rispecchiamento nella pervicace affermazione di arcaici e imperialistici modelli di potere gerarchico. Dando forma a significati, strumenti e tropi della tecnoscienza, la Randolph delinea sul piano artistico quell’universo culturale, analizzato sul piano filosofico da Donna J. Haraway, trasformatosi in un circuito integrato dove individuo, tecnologia, liberismo e politica si intrecciano in una complessa matrice discorsiva. 
L’accesa protesta politica contro la repressione militare vibra attraverso la rappresentazione di creature come il Merciful Angel, dipinto nel 1984, dalle ali imponenti e variopinte, caduto tra pezzi di cadaveri e teschi disseminati sui campi di battaglia, o della donna alata, colpita a morte, imbrattata di sangue, di U. S. Peace Plan, del 1990. Le entità edeniche si trasformano, in Annunciation of the Second Coming, del 1996, nel messaggero dalle ali trasparenti -comparso sulla copertina del testo harawayano Modest_Witness@FemaleMale_Meets_OncoMouse™-, morbida figura femminile, annunciante la venuta del Redentore, un’arcana immagine anorganica, fantasmatica, composta di silicio, chip e dati, dalla superficie corporea digitalizzata, che rischiara la notte, ma non schiva i rischi legati al sogno-incubo di una trascendenza tecnologica del corpo. La Randolph mostra come quest’ultimo, per integrarsi perfettamente con le macchine intelligenti, riconfiguri se stesso, sortendo la trasformazione della forma-uomo, la realizzazione di organismi di sintesi, l’integrazione dunque delle capacità sintetiche delle funzioni mentali tradizionalmente umane con quelle analitiche delle intelligenze artificiali e dissolvendo la dipendenza del pensiero da una specifica struttura fisica (cfr. Caronia, 1996, p. 55). 
La pittrice registra le fantasie di immortalità disincarnata, vagheggiate dalla cibernetica biologica, che, celebrando un mondo in cui le strutture mentali siano preservate come modelli di informazione potenzialmente eterni (cfr. Moravec, 1998, p. 17), negano il radicamento dell’uomo in un universo materiale di estrema complessità (cfr. Hayles, 1999, p. 5) e disconoscono il corpo come sede dell’essere, auspicandone la sostituzione con un custode dei bit che ne descrivono la struttura, un simbionte del codice, precipitato ultimo dell’assimilazione realizzata dall’homo technologicus (cfr. Longo, 2003, p. 84), nell’estrema restrizione della materia, divenuta indifferente. Ed è dalla comunicazione tra corpo, mente e semiosi della macchina che nasce la raffigurazione degli esseri surreali accostata all’immagine tecnico-medica della sezione frontale del cranio nell’autoritratto Immeasurable Results, del 1994, ispirato alla pubblicità di un’apparecchiatura per le risonanze magnetiche della Hitachi, società produttrice di strumenti di visualizzazione medica computerizzata, in cui la Randolph coglie se stessa giacente sotto lo schermo che proietta le immagini diagnostiche e i livelli psichici, consapevoli e inconsapevoli, l’esperienza vissuta che continua a vivere, il flusso che eccede le sue rappresentazioni e ne fa conflagrare la sintassi, l’erlebnis, non scomponibile in elementi semplici, non misurabile attraverso il calcolo informatico della macchina. Il dipinto sembra voler sottolineare che l’intelligenza, se concepita come mera entità astratta e logico-formale, non rimanda allo storico essere nel mondo, e che l’intelligibilità, con il suo humus di credenze inoggettivabili, non è mai completamente matematizzabile, così come la conoscenza e le azioni significanti non sono totalmente formalizzabili, inseribili in teorie ed esprimibili tramite sistemi di regole. 
Sovvertendo la convenzionale polarizzazione di intelletto e carne, conoscenza e materia, la Randolph palesa l’invisibile, il substrato inaggirabile della vita, la sfera del pre-riflessivo, e radicalizza il proprio simbolismo nella frequente comparsa di immagini-archetipo dell’inconscio, presenti nell’umanità fin dai tempi remoti, destinate a rappresentare la realtà sia fenomenica sia psichica, immagini che nel e per il loro essere al di fuori del pensiero lo alimentano abbondantemente con produttiva alterità.
La ricerca figurativa randolphiana delinea, con lirica tragicità, orizzonti onirici su cui si stagliano paradossalmente oggetti estraniati dal loro contesto originario, universi ibridi sortiti da contaminazioni tra il mondo organico e il mondo macchinico, preludi di putrefazione, con corpi attraversati da bestioline adulterate o squarciati da costruzioni elettroniche, rappresentazioni emblematiche di una natura prodigiosamente potenziata e drammaticamente martoriata, che suggerisce fughe verso mondi alieni e firmamenti non familiari: si tratta di sogni che, più che custodire il sonno, vogliono svegliare i dormienti, data la quantità sorprendente di svelamenti riservati dalla cosiddetta realtà autentica, mai ultima, ma sempre penultima, in perenne divenire, attualmente configurata, secondo la pittrice, in un’intricatissima rete di connessioni, in grado di intrecciare ideologie, segni e bisogni della collettività.

Le tele randolphiane raccolgono, con vigore espressivo, le potenti vibrazioni materiche e le vivide sfumature cromatiche, trattenendole in ariose vedute, mentre atmosfere silenti e luoghi incantati penetrano ciò che avvolgono, realizzando un’istintiva sintesi tra messa in scena naturalistica e rappresentazione metaforica. Travolta dal fascino del pianeta, colto nel suo incanto originario e restituito in scenografiche visioni d’insieme o magiche descrizioni minimali, l’artista ne rende l’intensità dell’impressione subita attraverso l’incisività selvaggia della luminescente oscurità, dei neri vellutati o dei blu iridescenti, da cui affiorano manifestazioni della vita primordiale, della fecondità della natura, come in Life within, del 1984, fenomeni che diventano simboli universali di rivelazione e trasformazione, di potere e spiritualità. L’azzardato trascolorare dei verdi negli azzurri, attraversato da intense fiamme di colori solari, ospita il tema dell’immersione dell’uomo nella sacralità naturale, dell’eterna ciclicità dell’ordine cosmico, mentre, nelle raffigurazioni scomposte, vengono disegnate prospettive arbitrarie e, nei luoghi improbabili, diventa consueto l’assurdo. Tra i riflessi infuocati lo spettacolo si fa vibrante, generando meraviglia e stupore, e, tra le risonanze emotive, lo sguardo si perde in un universo trasgressivo ed eslege. La luce evanescente che rischiara le opere randolphiane o l’ombra trasparente che le vela si insinuano nel pathos palpitante delle scene, al punto da offrire spunti di fervida immaginazione metafisica, memore del passato, radicata nell’hic et nunc e protesa verso un avvenire esperito attraverso il desiderio, la scoperta, l’angoscia riservati dal gioco del render presente e dall’avventura espressiva. 
Il tema della natura si compenetra con quello della morte, laddove non è solo il caso che tende a connaturare l’essere col non essere, lasciando filtrare, nel declino del sole, un raggio di insana consapevolezza. Tra selve lussurreggianti e nuvole passeggere, tra sfavillanti costellazioni e lande desolate, la Randolph giunge a mostrare il cammino dell’umano pellegrino ai margini della strada dell’esistenza, attanagliato dalla morsa entropica, rapendo lo sguardo dell’anima con tele come Memento mori, del 2000, o Lamentation, del 2001, ed evocando drammi che impediscono di sottrarsi alle mostruosità, già adombrate in dipinti come Presiding, del 1991, della tragedia  del tempo, destinato a non dipanare più i propri fili, a non scorrere più, a non spianare le proprie pieghe,  a non illuminare giorni nuovi, il tempo dell’ombra funesta, dell’oblio totale, del mistero ultimo in cui si smarrisce la speranza e si illanguidisce la conoscenza. La pittrice cattura i riverberi luminosi, cogliendone, con sentimento poetico, l’infinita vitalità, e li fissa in un dilagare di tonalità capaci di rendere l’effetto fuggevole di un brillare mai accecante nel mondo mitico delle eroine mortali, che percorrono la semidivinità della terra, dell’aria, dell’acqua, del fuoco, non come mere rappresentazioni ideali, ma come specifiche caratterizzazioni di donne reali, fluttuanti tra nebulose organiche, simili a uteri, nell’inquieto avanzare di Skywalker Biding Through, del 1994, o vaganti sul dissoluto caos urbano nell’orrifico gioco finale di Somnambulist Mall-walking, del 1995, mentre inedite, complesse e proteiformi identità forgiano se stesse. Tramare con il sé esige un intreccio di entità ontologicamente difformi, una complicata matrice di cervello, corpo e tecnologia, che costituisce ciò che si dovrebbe propriamente identificare come “noi stessi” (Clark, 2003, p. 27): l’elica di DNA della donna e del suo clone androide, il quale ostenta la propria artificialità bioelettronica, ritratti in Self-Consortium, del 1993, è anche la serpentina spiraleggiante di una galassia, che marca la soglia tra spazio interno e spazio esterno, intorno a cui si muove il meticciato, non più tanto avveniristico, autoconsorzio. La dimensione fantascientifica si contamina con l’intrusione della tradizionale iconografia cristiana, nel ritratto di divinità come la Mestiza Cosmica, del 1992, un’indigena di una terra di confine, versione contemporanea della Vergine di Guadalupe, che veglia sul mondo, collocandosi sulla frontiera tra Messico e Texas, cavalcando i limiti ridisegnati dagli accordi sul libero commercio del nuovo ordine globale e difendendo le politiche contro l’immigrazione sostenute dai paesi centrali dell’economia mondiale. La sacra meticcia ricapitola i persistenti dualismi della tradizione occidentale, funzionali alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, sulla gente di colore, sui lavoratori, sulla natura, vale a dire del potere su chiunque sia stato costruito come altro con il compito di rispecchiare il sé (cfr. Haraway, 1999, p. 78). Dal XVIII secolo, le grandi costruzioni storiche di genere, razza e classe sono state recintate nei corpi delle donne, dei colonizzati, degli operai, marcati dal punto di vista organico, simbolicamente altri rispetto al sé fittizio e razionale della specie-uomo, universale e quindi non marcato. La madre cosmica con una mano tiene a bada un crotalo adamantino e con l’altra maneggia il telescopio di Hubbell, mediando tra il naturale e il tecnologico e stagliandosi su quell’orizzonte organico-cibernetico che ha trovato, già nel 1989, anno delle violenze perpetrate a Tian’anmen, compiuta espressione nel ritratto di una studentessa cinese, l’entità animal-umano-macchinica di Cyborg, colta nella suggestiva, e forse promettente, solitudine di un paesaggio lunare, tra le scintillanti galassie e le formule matematiche della teoria della relatività einsteiniana e della teoria del caos. Quest’immagine totemica, probabile foriera di nuove realtà tecno-politiche, è, in un certo senso, una figura simile a quella dipinta in A Diffraction, del 1992, una diffrazione narrativa, grafica, psicologica e politica, una trasmutazione, che, metaforizzando l’incarnazione di sé multipli in un solo corpo, con due teste, più dita, ondeggiante nello spazio metafisico, a differenza della riflessione, non sposta il medesimo altrove, ma racconta una storia eterogenea, non riguardante più gli originali, una trasformazione che si ingenera di fronte alla voragine dello sconosciuto, nella zona liminale tra il presente e il futuro, e che non oppone più il falso al vero, ma sostanzia la produzione di nuove realtà e di nuove identità con apparenze né vere né false (cfr. Frasca, 1996, p. 23). 
La Randolph comprende che il binomio organico-inorganico, concepito in termini meramente dicotomici, non restituisce una cornice esplicativa della pluralità fenomenica che anima l’antroposfera: la cultura umana rappresenta infatti il più grandioso progetto partecipativo che la natura abbia saputo mettere in atto. L’uomo appartiene a una specie che oltrepassa “lo specchio dell’innato” grazie all’aiuto e alla mediazione di svariate alterità, prima tra tutte quella animale” (cfr. Marchesini, 2002, p. 69). Il processo culturale, interpretato come assoluto evento ibridativo, si realizza secondo varie modalità: “l’uso di uno strumento, la partnership con un’altra specie, il conferimento di un significato, la proposizione di una teoria – in breve tutto ciò che attiva una coniugazione con la realtà esterna o referenza” (ibidem, p. 25).
I dipinti randolphiani, ostili all’euforia tecnofila, esplorano gli effetti aberranti sortiti dal vertiginoso e incontrollato progresso scientifico, dalla pertinace stoltezza della sperimentazione medica nella brutalità terapeutica di Managed Care, del 1996, esercitata sullo sfondo del dominio delle priorità economiche, che regala oscene felicità e offre impressionanti spettacoli di morte, in un regime di spazio-temporalità in cui sembra essersi spezzato il compimento dell’evoluzione naturale, lasciando comunque l’individuo ingabbiato in una fisicità votata all’estinzione. Ridotti a inestricabili grovigli di circuiti, batterie, valvole e bobine, sorretti dall’attività di ticchettanti macchinari, gli esseri umani, dolenti, nel loro sbigottito tormento e nella loro caparbia coazione, aspettano il tempo della morte. Inane è la sfida contro l’implacabile trionfo della debolezza umana, lanciata attraverso l’avvicendamento di trasformazioni organiche, frutto della ricerca di un’artificialità che sconfigga l’ineluttabile destino di dissoluzione, l’ineludibile, per quanto allontanata, tappa finale del cammino individuale. Dotati di microchip, pace-maker ed elettrocateteri, o addirittura forniti di cuori e sangue artificiali, patetici “manufatti bastardi” (Haraway, 2000, p. 34), che ingurgitano la vita o l’affidano a un congegno, fatti di scienza e morte, ridotti a merce fin nel DNA, mentre le aziende biotech si affrettano a registrare brevetti, gli uomini percorrono il loro destino di cyborg, stampigliato sui loro circuiti, cogliendo inedite opportunità, instaurando nuove dipendenze, prolungando l’esistenza, combattendo l’insensato. La passione degli ibridi chimerici è raccontata, in tutta la sua atrocità, nel ritratto della donna-topo di The Laboratory, or The Passion of OncoMouse, del 1994, la cavia transgenica presunta salvatrice della specie umana, diventata oggetto della sorveglianza tecnoscientifica transnazionale, nonché strumento che riconfigura sapere biologico, prassi di laboratorio, fortune economiche, speranze e paure sia individuali sia collettive. Sito per il trapianto di un gene tumorale umano che produce cancro al seno, primo animale brevettato al mondo, l’OncoTopo™, modello di ricerca transpecifico, è condannato a compiere un percorso di contraffazione del ciclo vitale, rimodulato dalle istituzioni normative che regolano il mercato mondiale. “Le controversie che hanno circondato la brevettazione e la commercializzazione del ‘topo di Harvard’ sono state al centro dell’attenzione della stampa scientifica e popolare in Europa e negli Stati Uniti . [...] Il 12 aprile 1988 l’ufficio federale dei marchi e brevetti concesse un brevetto a due ricercatori genetici, Philip Leder della Scuola di medicina di Harvard e Timothy Stewart di San Francisco, che lo intestarono al presidente e agli amministratori dell’Harvard College. L’ulteriore concessione del brevetto alla E. I. Du Pont de Nemours & Co. per lo sviluppo commerciale è diventata il marchio della simbiosi tra industria e accademia nel campo della biotecnologia dalla fine degli anni settanta in poi. Con una concessione illimitata a Philip Leder per lo studio della genetica e del cancro, la Du Pont è stata uno dei maggiori sponsor della ricerca. La Du Pont fece successivamente degli accordi con i laboratori Charles River di Wilmington nel Massachussets, per commercializzare OncoTopo™. Nel suo Listino Prezzi del 1994, Charles River pubblicava cinque versioni di questi topi portatori di differenti oncogeni dei quali tre si traducevano in tumori del seno. Questi roditori possono contrarre molti tipi di cancro, ma quello del seno è stato quello semioticamente più potente nella stampa come nel brevetto originale” (ibidem, p. 120).
Nuova alterità, perturbante e irriconoscibile, indefinita e indefinibile, OncoMouse sembra oltrepassare l’avvenire prima ancora che si attualizzi, collocandosi in un flusso temporale ritoccato, non più disteso sulle sue volute, non più adagiato sulla naturale sequenza passato-presente-futuro. Ridefinito come invenzione dallo status di brevetto, merce circolante nei circuiti di scambio del capitale transnazionale, scheggia di potere innervata nella carne, coagulo di scienza, denaro e natura, l’animale da laboratorio biotecnico e biomedico è una creatura appartenente al regno dei morti viventi (cfr. ibidem, p. 119), una metafora della mortalità e una promessa di esistenza. Trapiantando nel ratto progettato l’oncogene e promettendogli la morte, se ne tradisce la biochimica spontanea, se ne adultera l’identità e se ne condiziona il telos. I bisogni impiantati, la proficua agonia, che inocula la morte per ricercare più vita, i palpitanti squittii del topo umano esprimono la sofferenza di una vittima sacrificale, icona del dolore ritratta come un’immagine cristologica, con le mammelle rigonfie e una corona di spine sul capo, mentre vive il mistero della carne, introiettando la tecnica, investendone i progressi, patendone gli sviluppi, pagandone i fallimenti, in una crudele forma di esistenza altra, che giustifica l’efferatezza e sublima il sadismo. 

Il mistero, che attraversa, nelle sue molteplici declinazioni, tutta l’opera della Randolph, viene svelato da quest’ultima con vigore espressivo attraverso le fantasiose articolazioni di un periodare estetico in cui le illusioni e le delusioni dipinte si dispiegano in una fertile logica immaginativa. L’energia che pulsa nei corpi chimerici dei cyborg o nelle figure vampiresche rappresentate nell’orrore di camere tecnoscientifiche, come quella, infestata da pipistrelli e dal loro portato metaforico, di Transfusions, del 1995, non è poi così lontana dalla forza che scuote i corpi disobbedienti, perduti al di là dei confini in orgiastiche estasi, ispirati alle esperienze mistiche delle Ilusas, donne messicane, vissute nel XVII secolo, vedove, orfane, prostitute, raffigurate in un’evocativa serie di piccoli ritratti e riproposte mentre travalicano i contorni del proprio corpo, come nella divina ribellione di Venus, del 1992, o si adagiano sul corrusco candore del solipsistico pulsare dell’eros, come nell’impudico abbandono di Alone in the Wetlands of Desire, del 1993.
La pittura randolphiana si colora con tocchi naïf e si intride di surrealismo, situandosi nella zona sfumata in cui lo sguardo si spinge fino al confine tra conscio e inconscio, superficie manifesta e profondità latente, mondo naturale e universo metafisico, passato, presente e futuro, vita e morte, e alle loro reciproche relazioni salde e illogiche. Il narrare solidamente ancorato ai luoghi e attaccato agli oggetti si stempera, durante la fase più recente della sua produzione, nella stesura rarefatta di una pittura spesso ispirata agli scorci magrittiani, nel mare da sfondo che sfuma in memorabili cieli, illuminati da tramonti vermigli o notti argentate, penetrati da ombre caliginose o raggi violacei, e nel richiamo degli assenti attraverso il turbinio dei drappeggi da cui un tempo essi erano avvolti, come in Shrouds of Light, del 2002, Spirit Cradle, del 2003, e ancora Soul Sail, del 2006, o mediante la delicatezza di armoniose silhouettes che accennano alla forma umana, come in Sacred Wedding in the Night, del 2002, e che, disobbedendo alle leggi fisiche, levitano, fuggono verso l’alto, aleggiano su panorami celestiali e cristallini, mentre lo stesso sguardo dell’osservatore, soffermandosi sulle eteree trasparenze, si svincola dalla forza di gravità. L’essere è qui designato non come afferrabile presenza dell’ente nel suo dispiegato apparire, ma come evocazione, diafana promessa della vita, che lievemente, ma caparbiamente riafferma se stessa, enfatizzando la sua mancanza e ricostituendo la permanenza dell’umano nella sua fragile origine, persistenza già del resto evocata dai piccoli angeli che sembrano voler proteggere il tenero abbraccio delle innocenti fanciulle di Millennium Children, del 1992, braccate da una muta di iene, schernite da un demone clownesco con lo stomaco a forma di efferata maschera della morte, inginocchiate sulle rive di una palude inquinata, dominata da avvoltoi appollaiati su un albero inaridito, da ciminiere fumanti di una centrale nucleare e da una Houston infiammata e senza futuro.
Il discorso randolphiano ha per oggetto una politica che non si traduca solo nella protezione di specifiche forme di vita associata, ma anche nella difesa della vita stessa, che decostruisca dunque il dominio che il potere esercita attraverso il principio di sovranità. Il vivente diventa fonte di ispirazione per una biopolitica che parta da un’idea di vita non meramente intesa come semplice falda biologica, filo verticale tra la nascita e la morte, ma interpretata nella sua complessità, come fenomeno pluridimensionale, discontinuo, stratificato, meticciato, contaminato con l’artificialità. L’incarnazione del cyborg, generato da “uteri tecnoscientifici” (ibidem , p. 41), creatura implosa allo stato embrionale, aggira il consueto ciclo della parabola fisiologica, disincaglia il processo di replicazione dal piano riproduttivo biologico, si realizza in un mondo “senza genesi”, che potrebbe diventare un mondo “senza fine” (Ead., 1999, p. 41), negando l’origine dal magma originario e l’annichilimento nella polvere finale. Dimorando nel regime spazio-temporale del tecnobiopotere, il cyborg percorre meno i territori della “‘vita’, con i suoi ritmi evolutivi e organici, che la ‘vita stessa’, i cui tempi sono intrinseci al potenziamento della comunicazione e alla riconfigurazione del sistema” (Ead., 2000, p. 40).
Lynn M. RandolphUna pratica politica in grado di custodire la vita senza sopprimerla va presumibilmente cercata in un territorio liminale, laddove l’identità possa inglobare l’alterità, in particolare quella di tipo tecnologico, in una relazione molto complessa, non riconducibile a un rapporto di pura opposizione, bensì a un nesso di reciproca implicazione, che, data la sua problematicità e pericolosità, richiede di essere affrontato con selettiva consapevolezza. Rifuggendo sterili dicotomie, che oppongono la teoria sociale all’immaginario, la materia al pensiero o la verità all’arte, la pittrice lascia esplodere la propria energia immaginativa e la converte in una poetica del corpo grazie a espressioni visuali di rinascita da un mondo di ottundimento, evocando la forza plastica dell’uomo, che, nell’inesauribile conflittualità e nell’infinita teoria di contraddizioni riservatigli dall’esistenza, è chiamato a riconfermare la propria libertà e la propria responsabilità, ad attribuire senso all’accadere molto spesso insensato e ad operare scelte coscienti di fronte all’ardito processo di avanzamento tecnologico. La Randolph concentra l’interesse etico, proiettato su un terreno di relazioni pragmatiche, nel nodo indissolubile tra individualità e universalità, nell’indefinito slittamento di senso, proprio della metafora, quasi ossessivamente ricorrente nelle sue opere, nel rifiuto del continuismo di ogni filosofia della storia, attraverso il contrasto tra l’autonoma potenza del soggetto e la sua estrema perifericità, la violenza apocalittica delle pulsioni macabre, gli stati stranianti al di là del tempo e dello spazio, cogliendo gli ineludibili legami tra la vita e le sue rappresentazioni, e celebrando l’arte, indipendentemente dalle forme da essa assunte, alte o basse, elitarie o di massa, colte o triviali che siano, come uno dei luoghi privilegiati della comunicazione con il vero, come  una tra le più nobili delle menzogne che consentono di riconoscere la verità.

 


 

:: letture ::

— Caronia A., Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, Padova, Muzzio, 1996.

— Clark A., Natural-Born Cyborg. Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence, Oxford University Press, Oxford, 2003.

— Frasca G., La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale, Genova, Costa & Nolan, 1996.

— Gould S. J., Wonderful Life: The Burgess Shale and the Nature of History, W.W. Norton, New York, 1989.

— Haraway D. J.,Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature, New York, Routledge, 1991, trad. it. parziale di Borghi L., Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1999.

— Haraway D. J., Modest_Witness@FemaleMan©_Meets_OncoMouse™, New York, Routledge, 1997, trad. it. di Morganti M., rev. di Borghi L., Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™, Milano, Feltrinelli, 2000.

— Hayles K., How We Become Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1999.

— Haynes D. J., The Vocation of the Artist, Cambridge University Press, Cambridge, 1997.

— Longo G. O., Il simbionte. Prove di umanità suturava, Roma, Meltemi, 2003.

— Marchesini R., Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.

— Moravec H., Robot. Mere Machine to Trascendent Mind, Oxford-New York, Oxford University Press, 1998.