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MAV, l’illusione dell’essenza tra mosaici e algoritmi
di 
Linda De Feo

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Non sembra più nemmeno mortale

l’uomo che vive fra beni immortali

Epicuro


La tecnologia digitale disloca i musei, li diffonde, rendendoli ubiqui, attraverso l’estensione on-line di gallerie, mostre, eventi e la creazione di circuiti artistici itineranti, transitanti sull’orizzonte ucronico e utopico del web. D’altro canto, la virtualità, consentendo di allestire e riallestire esposizioni inedite, ricolloca e assembla opere sparse, oggetti dispersi, manufatti sepolti, mosaici imbrattati di fango e affreschi oltraggiati dal tempo, che riacquistano bellezza e splendore, anche se solo illusori. Se la fruizione on-line dell’opera d’arte indebolisce il potenziale delle emozioni estetiche, l’immersione in installazioni virtuali invece eleva a potenza le sensazioni dei visitatori, attraverso riproduzioni di contesti spazio-temporali altrimenti inesperibili, che producono un’esaltazione percettiva mediata dalla tecnologia e sollecitata dal rapporto con la rappresentazione dell’oggetto, con l’illusione della sua essenza. Si costruiscono spazi esplorabili, universi molteplici, suggestivi e magici, fedelmente riprodotti e perfettamente credibili, grazie a software che riproducono percorsi temporali e ridelineano corridoi spaziali, restituiscono mondi dimenticati e forme originarie, adombrando realtà possibili e configurazioni probabili.
L’immobilità delle strategie espositive e la fissità delle specializzazioni collezionistiche, tipiche dei musei tradizionali, vengono sostituite dal duttile orientamento offerto dall’ipermedialità, che, tra riproduzione archeologica e proiezione avveniristica, fa rivivere opere d’arte rese dalla Storia frammentarie e frammentate, restituendo a esse una nuova aura, non più legata alla nobiltà dell’espressione, ma alla fisicità della comunicazione.
Un’ardita ipotesi ricostruttiva, che segna un fantastico percorso dal passato al futuro, dall’antichità alla fantascienza, dalle forme storiche del patrimonio archeologico alle forme espressive dell’immaginario tecnologico, è costituita dal MAV, il Museo Archeologico Virtuale di Ercolano, realizzato dal team creativo della Capeware - società specializzata nella computer graphic e nella realizzazione di motori grafici per le riproduzioni virtuali - e inaugurato nel luglio del 2008. Ubicato a pochi passi dal sito archeologico reale, contrastando la stabilità dell’esposizione materiale dei reperti, questo museo, perturbante viaggio compiuto nelle città dell’impero romano dell’area vesuviana, offre la possibilità di una sperimentazione continua, grazie a scenografie instabili che avviano palinsesti narrativi sempre nuovi, secondo una modalità versatile e immateriale di comunicazione della cultura, aperta alla progettualità collettiva. Dal gioco di rimandi tra precisione filologica e realtà delle finzioni, tra immagini e modelli, tra autentico e apparente, emerge il virtuale non come irrealtà, ma come potenzialità attualizzabile, promossa dall’attività manipolativa dei fruitori e dalle loro pratiche emotive, che li trasmutano in coautori del testo: nell’assenza materiale dei reperti, nell’invisibilità delle macchine interattive, nell’impalpabilità dei pannelli, le installazioni multimediali, al passaggio dei visitatori, si riconfigurano, di volta in volta, cambiando la lingua delle didascalie e mutando gli scenari.
Un ambiente fantasmatico, completamente artificiale, declinando il passato al futuro, o meglio, il futuro al passato, lascia ammirare gli antichi fasti, attraverso la riproduzione dei cunicoli sotterranei realizzati a partire dal 1709, data della prima fortuita scoperta di Ercolano, quando, in occasione dello scavo di un pozzo, ordinato dal principe d’Elbeuf, ci si imbatté nel muro della scena del teatro. “La meraviglia è il principio della conoscenza” dice il messaggio, scritto su un nastro di luce, che accoglie all’ingresso i visitatori, accompagnati, durante il percorso, come accade ai bambini nella lettura delle favole, da illuminanti tracce, resti disseminati, vibranti suoni, rimbalzi tattili, affioranti dal pulviscolo fantasmagorico. I volti luminescenti degli antichi abitanti di Ercolano, ricavati da statue, affreschi, incisioni, e trattati con la computer graphic, raccontano ognuno la propria storia. Vetri offuscati, che se sfiorati diventano trasparenti, lasciano apparire oggetti al contempo veri e falsi, in cui poter riconoscere la memoria del passato, ma anche il sentimento del futuro, mentre l’assenza libera risorse per la rappresentazione di ciò che è esistito e che non è più, e le impiega in fluttuanti e policrome messe in scena. Si assiste alla magica ricomposizione del peristilio della Casa del Fauno di Pompei e alla sommersione del Ninfeo di Baia, al racconto della sua decadenza, grazie all’applicazione del virtuale all’archeologia subacquea. Si possono ascoltare i filosofi epicurei nel giardino della Villa dei Papiri, il brulichio che anima l’antico Foro e gli orci parlanti che recitano Plauto, ammirando i geometrici mosaici riemersi dalla polvere e gli scintillanti e preziosi monili ricreati in forma di ologrammi. Mentre, terminata la visita, le luci virtuali del Museo si spengono e riappare la quotidianità più consueta, travolti dalla vertigine del possibile, ancora inebriati dal profumo degli unguenti, dei balsami e degli oli termali, dopo aver attraversato bluastre pareti liquide nebulizzate e cascate di lava incandescente ed esser stati sfiorati da brezze avvolgenti e onde spumeggianti, si è indotti a riflettere su come le visioni più intense si collochino, a volte, oltre i confini del visibile, per accendere una sensorialità sempre più raffinata, stimolata in maniera sempre più completa. 
La modalità immersiva sortisce una continua ridefinizione del processo comunicativo, rispecchiato dalla dialettica tra il sollecitato coinvolgimento dei sensi dei visitatori e la loro partecipazione attiva, tra il fabbricare universi e l’abitarli, mentre la tecnologia smarrisce la sua funzione primigenia di strumento per farsi mondo riscrivendo il reale e l’immaginario, e riorganizzando l’ordinarietà delle facoltà percettive e cognitive in un contesto ineludibilmente ludico. Nell’interazione che caratterizza i “non-luoghi” (Augé, 1993, passim) della digitalità, zone liminali tra sensorialità e intelletto, inestricabili intrecci di riproduzioni artistiche e previsioni scientifiche, il gioco, che è un dispositivo escogitato per permettere la partecipazione simultanea di più soggetti a schemi significanti delle loro vite collettive, assume infatti un particolare rilievo (cfr. McLuhan, p. 268). Vivendo narrazioni, che sono solo alcune delle molteplici attualizzazioni possibili dell’esperienza di un universo finzionale come il MAV, si scherza con l’immaginario collettivo, scomponendolo liberamente, combinandolo e ricombinandolo, assecondando parametri spiazzanti, e attribuendo una collocazione inusuale alle concezioni del reale. Poiché i media ridelineano l’idea della realtà, e, nel modo in cui alterano l’equilibrio tra i sensi, riplasmano anche gli utenti, il gioco, come qualunque medium d’informazione, prolungamento dell’individuo o del gruppo, attribuisce una nuova configurazione a quelle parti non delimitate dai confini “topologici” della pelle (Longo, p. 58), ancora inestese (cfr. McLuhan, p. 266), di quel corpo che è “nel mondo come il cuore nell’organismo [e che] mantiene continuativamente in vita lo spettacolo visibile [ma anche invisibile], lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema” (Merleau-Ponty, p. 277).
Gli orizzonti artistico, tecnologico e ludico, nel trasformare i musei in spazi performativi, rendono attuabili esperienze concrete su piani immaginari e traducono la fantasia in dimensione esplorabile, sottolineando la consapevolezza, da parte della scienza, della presenza del gioco negli esperimenti su modelli di situazioni per il resto inosservabili (cfr. McLuhan, p. 266). Si ribadisce, inoltre, che un’opera d’arte, o qualsiasi forma di produzione culturale, comunque la si voglia definire, in grado di esprimere meccaniche e pulsioni dei desideri individuali e collettivi, non ha esistenza né funzione se non nei suoi effetti sugli uomini che la contemplano, o che la consumano, e che lo spazio non è “l’ambito (reale o logico) in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. […] E questo perché lo spazio è un certo possesso del mondo da parte del […] corpo, una certa presa del […] corpo sul mondo” (Merleau-Ponty, pp. 326, 334).
La fantasmagoria spettacolare della virtualità digitale, con la sua inclinazione a trasformare ogni informazione in piacere, produce, nel MAV, un disvelamento del passato, che, nelle sue sembianze fascinose e nostalgiche, è finalizzato alla conservazione della memoria e alla traduzione della tradizione, alla trasformazione, cioè, di un tempo trascorso de-formato, ricostituito tra videoproiezioni, ricostruzioni ambientali ed elaborazioni fantastiche degli spettatori. Questa volta la simulazione indefinita, o meglio, l’apparenza né vera né falsa che sostanzia la riproduzione digitale ha recuperato quanto vi era di più prezioso nelle rovine imperiali, residui di forma antica come non se ne producono più, utopie, immagini del tempo perduto “alla ricerca del quale l’arte [in questo caso insieme alla tecnologia] non rinuncia” (Augé, 2004, p. 99). I resti archeologici, quintessenza del paesaggio come un cielo stellato, offrono allo sguardo lo spettacolo del tempo nelle sue diverse profondità, che aggiunge all’immemorabile tempo geologico i tempi molteplici dell’esperienza umana (cfr. ibidem, p. 71). L’idea che un segno, proprio perché imperfetto, nel rappresentare l’oggetto ne sottolinei l’assenza si dissolve improvvisamente di fronte alla perfezione di simulacri in grado di attualizzare il desiderio di ritrovare ciò che è stato annientato dalla furia di una natura ben lontana dall’esser prodiga, e di risolvere, sul piano della finzione, la contraddizione sempre viva nell’uomo tra il piacere dell’abitare e la paura dell’assenza (cfr. Abruzzese, 1987, p. 34).
La futuristica nube ardente, che pietrificò nel mito la città fondata da Eracle, fa rivivere sulla pelle dei visitatori, accarezzandola inquietantemente, la torsione di significato subita dalla stessa categoria estetica del sublime, non più operante come smarrimento di fronte a una natura matrigna, che sovrasta l’uomo e può annientarlo, ma come angoscioso scoramento, suscitato dalla limitatezza dell’immaginario individuale di fronte all’infinità di un immaginario tecnologico (cfr. Costa, passim) snodato attraverso la riproduzione perfetta di passato e presente e la prefigurazione terribile dell’avvenire. Pur generando angoscia, tale smisurata grandezza fa risplendere, però, la potenza dell’umanità in quanto specie in possesso di quella forma di estrema razionalità, capace sì di adombrare distopici progetti, ma anche di realizzare ogni sogno, compreso quello di ricostituire l’infranto e di riproporre epoche trascorse, nel disperato tentativo di riscattare dalla transitorietà. 
Le immagini digitali, prodotte dal fenomenizzarsi di algoritmi in formato binario nell’interazione con gli utenti, rianimano magicamente gli alberi rinsecchiti o ricolorano la sontuosa antichità, dimostrando come il processo di tecnologizzazione avanzi al “ritmo di continue pulsazioni capaci di volta in volta di assorbire frammenti o cellule o sostanze del passato e rielaborarle, metabolizzarle nel presente” (Abruzzese, 1988, p. 7). La virtualizzazione, non derealizzazione, ma movimento del farsi altro, sferra un accanito combattimento contro la caducità, la sofferenza, la consunzione e conduce verso regioni ontologiche avulse dai pericoli comuni. L’arte, sempre al limite tra il semplice linguaggio espressivo, la tecnica e la funzione sociale, interroga questa tendenza, tentando esasperatamente di sfuggire all’hic et nunc e ricercando affannosamente l’esaltazione dei sensi: nel suo svincolare le emozioni da una contingenza particolare, nel conferire loro una portata collettiva, nel “suo volteggiare, ora blocca, ora sprigiona l’energia affettiva che […] fa vincere il caos. In un’estrema spirale, indicando così il motore della virtualizzazione, l’arte problematizza il cammino infaticabile, talvolta fecondo […], che abbiamo intrapreso per sfuggire alla morte” (Lévy, p. 71).
La penetrazione delle tecnologie digitali nell’esperienza estetica produce una svolta epocale nella poetica dei nuovi media, i quali, votati alla progressiva destrutturazione del tempo e dello spazio, come fa il vento con l’Angelo della Storia riconosciuto da Walter Benjamin in un dipinto di Paul Klee, in quest’area museale, sembrano voler sospingere inquietamente e potentemente i visitatori a contemplare la tradizione e la memoria, ricomposte nel tripudio del panorama ercolanese, mentre il turbinio tempestoso del progresso continua a operare nella sfera mitica dell’eterno desiderio del ritorno.

 


 

:: letture ::

— Abruzzese A.
Archeologie dell’immaginario, Liguori, Napoli, 1988.
Introduzione a Caramiello L., 1988, cit. 

— Augé M. 
Non lieux, 1992, trad. it. Non luoghi, Elèuthera, Milano, 1993.
Le temps en ruines, 2003, trad. it. Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

— Caramiello L.
Il medium nucleare, Edizioni Lavoro, Roma, 1987.

— Costa M.
Il sublime tecnologico, Castelvecchi, Roma, 1990.

— Lévy P.
Qu’est- ce que le virtuel?, 1995, trad. it. Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano, 1997.

— Longo G. O.
Il simbionte
, Meltemi, Roma, 2003.

— McLuhan H. M.
Understanding media
, 1964, trad. it. Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano,  1986.

— Merleau-Ponty M.
Phénoménenologie de la perception
,  1945, trad. it. Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 1972.