The Others: inganni d’altri tempi nella poetica di Alejandro Amenábar

 

di Linda De Feo



Inquietanti transiti verso un altrove non più scandito dai ritmi della coscienza ordinaria si realizzano nell’immaginario cinematografico di Alejandro Amenábar, travolto dall’irruzione dell’incomprensibile nel territorio della quotidianità consuetamente esperita e strutturato attorno all’invasivo accoppiamento di reale e irreale, bene e male, vita e morte.

La sfida inane contro l’implacabile destino umano di debolezza e il disorientamento nelle tortuosità dell’inautentico nutrono le angosce dei personaggi amenábariani, fantasmatiche visualizzazioni, figure foscamente spettrali, che percorrono il dedalo della mistificazione, simbolo dell’incapacità di adattamento a un mondo spietato, proiettato comunque a contraddire se stesso. Erratiche forme di divenire animano un plurale e multiforme regno di possibilità remote, segnato dalla moltiplicazione dei vettori temporali, una shadow land di verità e illusione, attraversata da esseri animati, nell’affannosa ricerca dell’identità perduta, dal conflitto perenne, che non lascia intravedere spiragli di salvezza neppure nell’esito letale.

The Others è una narrazione ingannevole sull’inquieto e speranzoso dimorare, in attesa del ritorno dalla guerra del capofamiglia, di Grace e dei suoi figlioletti in una grande villa vittoriana sull’isola di Jersey, al largo fra le coste inglesi e quelle francesi. È una riflessione profonda sulla percezione della realtà, sugli infingimenti dei sensi, che inducono a tradire la memoria e a tradurre il passato, mentre i viventi e i defunti infestano la zona liminale tra la luce e le tenebre e si sfiorano insinuandosi tra autentico e falso.

Pur nel costante tributo agli stilemi del genere horror, Amenábar reinterpreta completamente i suggestivi archetipi narratologici, arricchendo di significati inediti le impenetrabili nebbie e le tetre penombre. Il contrasto tra luminosità e oscurità subisce un capovolgimento di senso: per quasi l’intera durata del film la luce rappresenta uno spaventoso elemento mortifero, penetrando minacciosamente i claustrofobici interni dominati dal benefico buio che protegge i due bambini, Anne e Nicholas, confinati in una lugubre segregazione e immersi nella notte eterna di un’apparente fotofobia.

Viene colpito con luce tenue un quotidiano che non riverbera barlumi di valore logico e che appare caratterizzato da un tempo imploso e da uno spazio orrorifico, dallo strisciante soffio del dissiparsi della vita e dall’immagine di un reale imperscrutabile. Il mistero del male si annida nella consuetudine familiare, perpetuata dall’iterarsi della maniacale ritualità e della coatta gestualità di Grace, madre fragilmente autoritaria, austera e compulsiva, vanamente protesa a contrastare l’intrusione dell’alterità.

In questa fiaba gotica, percorsa quasi convulsamente da orridi presagi, che gradualmente si dissolvono in inconfessabili ricordi, i personaggi, ottenebrati dall’oscurantismo religioso, dalla rimozione della colpa, dalla paura dell’abbandono, dal timore dell’ignoto, sembrano incarnare il potenziale terrificante degli esseri prigionieri della propria alienazione e metaforizzano la radicale incomunicabilità in un gioco crudele costruito sulla struggente assenza, sull’insopportabile mancanza, sulla sgomenta attesa, sull’impossibile ritorno. Le stesse presenze prendono forma nel vuoto dominante di quest’opera, arcana variazione sul tema degli universi paralleli, film d’altri tempi, che non ricorre agli effetti speciali per catturare spaventando e che trova la propria forza seduttiva soprattutto nel dispiegamento narrativo assecondato da una perturbante colonna sonora, composta dallo stesso regista. Una storia di “fantasmi, morti che ritornano”, che “rimandano più profondamente agli archetipi e alle strutture dell’inconscio”[1], un episodio significativo di soprannaturale narrativo, un’originale riemergenza del “simbolico più beffardo e ineffabile”[2], che, per una volta, abbandona la plumbea e stagnante atmosfera delle livide metropoli, consueti fondali dei contemporanei racconti metafisici, per tornare ad abitare un cupo castello, nel probabile tentativo di utilizzare meraviglia e paura, proprio come accade nelle favole, accogliendo l’irrazionale senza alcuna remora[3].
 


[1] Adolfo Fattori, Di cose oscure e inquietanti,  Ipermedium libri, Napoli, 1995, p. 71.

[2] Ibidem.

[3] Cfr. ivi, p. 11.
 

     (1) [2]