L’immortale compagna di viaggio

 

di Gianfranco Pecchinenda


Essendo oramai considerata una delle variabili fondamentali per lo studio del comportamento collettivo, la sociologia della morte è divenuta un settore molto esteso delle scienze sociali, all’interno del quale è possibile ritrovare studi che spaziano dall’analisi di tipo storico-sociologico sull’evoluzione della visione della morte nelle diverse società, a quelle di orientamento più marcatamente socio-antropologico, maggiormente interessate a proporre riflessioni basate su ricerche (anche empiriche) di tipo comparativo tra i vari modi di vedere la morte nell’ambito di collettività diverse per cultura, tradizione, epoca storica, collocazione geografica e così via. E ancora, possono ricadere sotto l’ombrello di quest’ambito disciplinare tutte quelle ricerche che tendono ad assumere come oggetto di studio le modalità collettive (“i rituali” – da quelli tradizionalmente intesi a quelli “mediati” dalle nuove tecnologie della comunicazione) elaborate per “affrontare” i morti e i morenti, i morti e i loro congiunti, i morti e i loro corpi, le loro tracce, la loro memoria.

È comunque un dato di fatto indiscutibile che se la morte venisse inserita negli ambiti “normali” della vita di tutti i giorni, se venisse cioè lasciata penetrare senza quei filtri che contribuiscono a tenerla “ai margini” dei discorsi e delle pratiche quotidiane, la nostra visione del mondo muterebbe profondamente. Jean-Paul Sartre ha espresso magistralmente questo concetto attraverso le celebri riflessioni del condannato a morte Pablo Ibbieta, protagonista de Il Muro:

“Nello stato in cui mi trovavo, se fossero venuti ad annunciarmi che potevo tornarmene tranquillamente a casa mia, che mi avevano graziato, la cosa mi avrebbe lasciato indifferente: qualche ora o qualche anno d’attesa è assolutamente la stessa cosa, una volta che si è perduta l’illusione d’essere eterni. Non tenevo più a niente, in un certo senso, ero calmo. Ma era una calma orribile, a causa del mio corpo: il mio corpo, io vedevo coi suoi occhi, udivo con le sue orecchie, ma non era più me; sudava e tremava da solo e non lo riconoscevo più. Ero costretto a toccarlo e a guardarlo per sapere cosa gli succedeva, come se fosse stato il corpo d’un altro.”[1]

Per poter mantenere la morte ai suoi confini, la nostra società ha adottato, evidentemente, una serie di strategie: strategie collettive più o meno istituzionalizzate messe in atto dagli attori sociali al fine di creare quegli schermi protettivi necessari ad attutire lo sconvolgente impatto potenziale della morte.

Queste strategie di difesa sono di nasconderla, di evitare di parlarne, rinviando e posticipando quanto più è possibile ogni riferimento al tema e a colui o coloro che potrebbero suggerirne una qualsivoglia rievocazione. Quando proprio non se ne può fare a meno, allora si comincia a prenderla in considerazione, a parlarne seriamente, assumendone la reale esistenza per paragonarla ad un avversario razionalmente forte, fortissimo, praticamente invincibile d’altro canto, però, si indebolisce la sua potenza (e prepotenza) neutralizzandolo affettivamente.

È però anche vero che, purtroppo – e spesso in modo imprevedibile – ogni tanto questi margini, queste dighe, questi “filtri” si frantumano e cominciano a venir fuori delle crepe. Basta una morte improvvisa, inattesa, di un altro, soprattutto di un altro significativo, allora la nostra visione della vita (e della morte) viene profondamente sconvolta, talvolta in maniera anche radicale.

È a questo punto che si rendono allora necessarie delle strategie di attacco dell’avversario. Il modo storicamente più elaborato e fecondo di attuare tali strategie è stato quello di cercare di negare l’evidenza dei “fatti”, proponendo una qualche mitologia dell’immortalità, un mito della “vita dopo la morte”, empiricamente testimoniato dalla diffusione di una serie praticamente indefinita di “culti dei defunti”, a loro volta derivanti dall’uso tradizionalmente trasmesso di seppellire i morti e di affiancarvi segni e simbologie di un mondo trascendente.

 


[1] J.-P. Sartre, Il muro, Einaudi, Torino, 1981.
 

     (1) [2]