Orson Welles e Citizen Kane,
o l’immaginazione al potere

Orson Welles
Quarto potere
Cast principale: Orson Welles,
Dorothy Comingore,
Joseph Cotten, Agnes Moorehead
Produzione: RKO
Distribuzione Italia:
I Wonder Pictures (2024).

Orson Welles
Quarto potere
Cast principale: Orson Welles,
Dorothy Comingore,
Joseph Cotten, Agnes Moorehead
Produzione: RKO
Distribuzione Italia:
I Wonder Pictures (2024).


Grazie al recente meritorio intervento distributivo di I Wonder Pictures, è riapparso nelle sale cinematografiche italiane il film di culto per eccellenza, il capolavoro di Orson Welles: Citizen Kane ovvero Quarto potere per gli italiani. Ventimila presenze per circa duecentomila euro di incasso in soli quattro giorni di programmazione. Cifre enormi per un film in lingua originale con sottotitoli uscito nel 1941 (1948 in Italia) che all’uscita in USA totalizzò un milione e mezzo di dollari. Insomma, le poche sale cinematografiche che restano in Italia possono avere ancora un futuro facendo attenzione alle nicchie cinefile ed evitando di annullarsi nella ricerca del film per tutti o proponendo la sensazione del momento che omologa tutto. Inoltre, una bella rivincita per un film che all’epoca della sua uscita nel 1941 in USA (e in tutto il resto del mondo) ebbe una storia distributiva a dir poco travagliata. L’operazione di recupero si aggiunge alle recenti uscite Netflix dedicate a Welles: il restauro del suo ultimo film incompiuto e il lungometraggio Mank sui tragicomici retroscena della lavorazione di Citizen Kane.

Il cittadino Welles contro il cittadino Hearst
Quarto potere parte con una serie di dissolvenze incrociate che indugia su recinti, cancellate, sbarre a tenere dentro e nel contempo fuori. Xanadu, la tenuta in Florida, è una lugubre silhouette sullo sfondo. Castello kafkiano che preannuncia il discorso sulla profondità di campo, sulla distanza tra le persone comuni e il cittadino Charles Foster Kane. Sembra l’inizio di un horror della Universal ritagliato intorno al solito scienziato pazzo. Sin da questi primi dettagli gli spettatori statunitensi dell’epoca potevano capire che Xanadu non era altro che una rappresentazione dell’antro del potentissimo William Randolph Hearst, tycoon dell’industria della carta stampata. Proprio a causa di Hearst la vita del film Quarto Potere nelle sale cinematografiche non fu facile e anzi rischiò di non partire affatto perché il magnate aveva scoperto i contenuti del film molto prima del lancio.
Nell’edizione home video di Quarto potere distribuita per l’Italia da Columbia Tristar nel 2004 è incluso il documentario La battaglia per Quarto potere di Michael Epstein e Thomas Lennon. Pluripremiato e candidato all’Oscar 1996 come miglior documentario, questa produzione PBS illustra dettagliatamente l’operato del “cittadino” Hearst al fine di arrestare la distribuzione del film. Viene dato conto fin nei minimi dettagli delle trame spionistiche intorno al metraggio originale e di come la preziosa pellicola avesse rischiato di finire bruciata prima di arrivare a quelle poche sale cinematografiche che effettivamente proiettarono il film. Cronaca di una battaglia per la democrazia e per il pluralismo politico e sociale. Tutto a causa delle parti intime di Marion Davies, l’amante di Hearst.

Nel 1999, dal suddetto documentario verrà tratto il film per la tv RKO 281, prodotto dai fratelli Ridley e Tony Scott. Il focus si sposta sul rapporto tra Hearst e l’attrice Davies. Tra i motivi della rabbia di Hearst c’era soprattutto il riferimento a quella “Rosabella” (“Rosebud” in inglese) che nel film di Welles è il nome di una slitta ma che nel mondo reale sarebbe un nomignolo affibbiato dal vecchio imprenditore alla “rosabella” della sua giovane amante. Uno dei dettagli trafugati dallo sceneggiatore del film Herman J. Mankiewicz, molto ben informato su Hearst tramite le tante amicizie comuni. La pellicola di Benjamin Ross rispetta, con modesto spirito di servizio, il suo mandato di docu-fiction spostando il focus sull’autoritarismo del potente Hearst e sul suo libro paga anti-Welles: uno stuolo di commentatori e di addetti ai lavori capeggiati da Louella Parsons, la popolare giornalista specializzata in pettegolezzi. Significativa la scena della riunione degli executive di tutte le major hollywoodiane (da Disney a Selznick) che, con i loro vizietti da nascondere agli occhi di un’America sempre più puritana (il Codice Hays entra in scena nel 1934), si mostrano fragili burattini nelle mani di Hearst. Quarto potere edifica una suprema ironia che sfonda la quarta parete proponendo una nemesi anti-Hearst proprio sul piano del gossip e sulla spettacolarizzazione del quarto potere: quel terreno limaccioso dove si coltiva con ipocrisia il comune senso del pudore e nel contempo si attendono gli scivoloni. Si suda freddo a pensare che forse sia stata proprio la bancarotta e il declino patrimoniale di Hearst a consentire la comunque tormentata uscita di Quarto potere.
In un universo parallelo non c’è traccia della parola “Rosabella” e Orson Welles non è mai scappato in Europa perché William Randolph Hearst è venuto a mancare poco prima della premiere. Il maestro da Kenosha, Wisconsin ha sfornato una lunga serie di capolavori hollywoodiani adorati tanto dalla critica quanto dal pubblico, collocandosi nell’immaginario collettivo accanto a personalità come Alfred Hitchcock o John Ford. Nel nostro universo invece Welles non può vantare una tale popolarità e la sua memoria resta circoscritta a un ambito di cinefilia pura prendendosi la piccola rivincita di occupare stabilmente i primi posti nelle classifiche dei capolavori di sempre. Una forma di immortalità che Hearst poteva solo sognare.

La nascita di un linguaggio
L’occhio di Quarto potere si avvicina alla residenza di Kane. Entriamo dalla finestra. Una luce si spegne. Comincia a nevicare. Fluttuiamo nel liquido insieme ai brillantini, nel turbinio dei fiocchi di neve del Colorado dove Kane è nato. Siamo dentro a un giocattolo, al souvenir per eccellenza, al re dei soprammobili: la scena della neve che cade sulla casetta al centro di una palla di vetro. Siamo dentro a un ricordo: l’ultimo di Kane prima di uscire di scena. La baita innevata dentro alla piccola sfera è il dettaglio ludico che indica l’origine e la fine dell’indagine su Kane. La parola “Rosabella” (“Rosebud” in inglese) è l’altro importante dettaglio della sequenza: l’ultimo enigmatico respiro lanciato al mondo dal potente. Cala il sipario sulla vita di Kane e comincia la leggenda. Il cinegiornale “News on the March” presenta il classico coccodrillo dedicato all’illustre defunto. Sono le lacrime ipocrite del coccodrillo dopo che ha divorato la vittima: uno slancio energetico per la parata di notizie, per la giostra mediatica che deve girare indipendentemente dai singoli individui.

È  interessante la scelta di Welles e dello sceneggiatore Mankiewicz che collocano questo blocco di attualità finzionale praticamente in apertura, dato che quasi tutti i film all’epoca erano preceduti da questo popolare bollettino (in Italia c’erano i cinegiornali Luce) che, decenni prima dei telegiornali e delle televisioni, intendeva tenere più o meno informati quei milioni di persone che andavano al cinema e che magari non leggevano i giornali. Ancora il genio di Welles a creare confusione, a lavorare sui bordi, a prendere in giro gli amanti delle categorizzazioni e della routine. Pochi anni dopo la famosa performance radiofonica de La guerra dei mondi, l’ambizioso narratore continua il suo discorso illusionistico sulle specificità manipolatorie dei media audio-video e sulle infinite possibilità di commistione tra giornalismo e finzione. Questi primi minuti di Quarto potere seminano tanto, anche pezzetti di quello che molti decenni dopo fiorirà come un vero e proprio genere cine-televisivo: il mockumentary, il falso documentario, oggi un po’ appannato dall’inflazione del post-verità e delle echo chambers create dai social media, ma ancora vivace come forma di racconto cinematografico. Dopo il cinegiornale comincia una navigazione avanti e indietro nel tempo che rappresenta uno schema ormai standard per qualsiasi biopic, incapaci di rinunciare a un uso intensivo del flashback e della mise en abyme. Pur non avendo inventato nulla, Orson Welles è stato il primo a mostrare come convenzioni narrative già esistenti possano essere spremute per offrire esperienze emotive complesse. La scrittura esposta in Quarto potere (con il fondamentale lavoro di Mankiewicz su cui Welles ha intessuto le sue trame visuali) espone con estrema granularità la successione degli episodi che definiscono Kane. Come scrisse Jorge Luis Borges:

“Il procedimento è […] una rapsodia di scene eterogenee, senza ordine cronologico. In maniera schiacciante, sconfinata, Orson Wells esibisce frammenti della vita dell’uomo Charles Foster Kane, ci invita a metterli insieme e a ricostruirli. […] Alla fine ci rendiamo conto che i frammenti non sono legati da una segreta unità: l’odiato Charles Foster Kane è un simulacro, un caos di apparenze”
(Borges, 1991).

Pur avendo colto il nucleo psicologico del film e l’invito di Welles all’interattività, anche Borges, come molti intellettuali dell’epoca, aveva preso sottogamba l’impatto di Welles sul linguaggio cinematografico: sanzionando il “gigantismo” e la “pedanteria” del narratore, sottolineando l’ostentazione di tante inquadrature con angoli inusuali. Come tanti altri, anche lo scrittore argentino aveva guardato al dito che indica e non alla luna. Non esiste alcun punto di atterraggio nei caroselli visivi concepiti da Welles e nemmeno un punto di partenza se non la vana illusione di potere catturare l’essenza di un personaggio storico con una macchina da presa. Quel cartello “No trespassing” messo in apertura (e in chiusura) è una didascalia kafkiana che incornicia tutta la narrazione. Il personaggio del giornalista Jerry Thompson, l’osservatore che prova a capire Kane – teoricamente il punto di vista soggettivo protagonista – non è che una spalla (al massimo un cappello ripreso da dietro), il volto sempre nell’ombra. Quarto potere è dunque un labirinto kafkiano senza centro, proprio come lo definì Borges. O meglio, un centro paradossale ci sarebbe ed è quel giocattolo di vetro, oggetto piccolo e maneggevole che rappresenta un fascio di memorie che può essere manipolato a piacimento dal proprietario.

L’eterna insoddisfazione del cittadino Kane è la stessa dell’uomo contemporaneo che può tutto tranne ottenere ciò che desidera davvero: Rosebud, l’aura di un passato che non può tornare. L’inchiesta giornalistica conduce a un pugno di mosche: eccesso di informazioni che, per accumulo, diventano rumore di fondo. Lo si vede bene nel finale: quella panoramica con angolo dall’alto verso il basso che scava tra le cianfrusaglie di Kane e che infine posa lo sguardo sulla slitta Rosabella destinata al fuoco della purificazione. L’ampio uso di lenti grandangolari (una novità a Hollywood, un marchio di fabbrica che poi caratterizzerà tutta la successiva filmografia wellesiana), esprime la volontà espressiva di abbracciare tutta la messa in scena, dando allo sguardo dello spettatore la possibilità di navigare all’interno delle immagini (o dei ricordi), di cercare una verità tra le tante possibili. Quarto potere non preme sui sensi come la suspense nel cinema d’azione o come l’ansia survivalista nei videogiochi shooter. Attraverso un progetto di sistematica scomposizione di tutte le tecniche audiovisive che attengono alla rappresentazione del tempo e della memoria Orson Welles propone l’idea di gettare uno sguardo d’insieme sulla sequenza delle sequenze, definendo il prototipo di tutti i biopic. La grande produttività semiotica di Quarto potere è riassumibile nel contrasto tra l’estrema frammentazione della stesura cronologica degli eventi e la profondità della percezione visiva all’interno di ogni singola inquadratura. In questo dualismo c’è un importante discorso sull’uso dei flashback e del montaggio. La scrittura di Mankiewicz ha l’ambizione di portare la grande letteratura all’attenzione del pubblico cinematografico passando per la tecnica narrativa audiovisiva: per esempio il flusso di coscienza dell’Ulisse di James Joyce o la trasposizione in forma letteraria del montaggio alternato presente nel romanzo Manhattan Transfer di John Dos Passos.

L’immagine-Welles
Il vero marchio di fabbrica di Orson Welles resta la profondità dello sguardo nella messa in scena e nella cura del singolo frame. Una vocazione che in Welles nasce forse dalla necessità di legare la sua nuova attività come regista cinematografico a quella, più familiare, di regista teatrale. Così la mente dello spettatore di Quarto potere è travolta da un movimento che alterna orizzontalità a verticalità, una visione di insieme aleatoria e sfuggente viene ritmicamente spezzata dalla meticolosità e dalla concretezza del dettaglio drammaturgico. Una composizione della profondità di campo che consente di creare senso attraverso la dialettica tra il primo piano e lo sfondo. Come nella scena in cui Kane bambino gioca fuori casa inquadrato sullo sfondo attraverso il frame nel frame costituito dalla finestra su un lato della casetta nella neve. Un altro esempio interessante di spazializzazione è costituito dalle scene dal matrimonio tra Kane e la prima moglie: un breve ponte narrativo fatto di schegge sempre ambientate nella sala da pranzo, a colazione. Si parte dal campo lungo panfocale che mostra i due coniugi che dialogano amabilmente. Cambiano le epoche, i vestiti, le tracce dell’invecchiamento sui volti (soprattutto quello di Kane). Cominciano i contrasti e il focus viene spezzato dal classico campo/controcampo che spinge l’attenzione sull’asprezza del dialogo e dei primi piani che si fanno sempre più acidi. L’alternanza si riproduce nel tempo: lo notiamo dal cambio degli abiti. Un altro campo lungo panfocale chiude il ciclo mostrando i due distanti mentre fanno colazione in silenzio.

In questa come in quasi tutte le inquadrature con più personaggi l’apertura focale ridotta permette di tenere a fuoco contemporaneamente tutte le parti dell’inquadratura. L’occhio deve avere la possibilità di leggere il contenuto come se fosse un dipinto, possibilmente senza essere distolto da stacchi di montaggio. I dialoghi acquisiscono così una certa impostazione teatrale e i personaggi si muovono nello spazio sfruttando gli assi visivi per creare profondità di campo. Welles volle Gregg Toland come direttore della fotografia probabilmente dopo aver visto e rivisto diversi film di John Ford tra cui The Long Voyage Home in cui è evidente la particolare tecnica panfocale. Per la verità Welles ammise di aver visto e rivisto soprattutto Ombre rosse di Ford assumendolo come autentico manuale. Oltre all’uso significativo della profondità di campo, il western metteva in mostra anche numerosi soffitti bassi, un angolo visuale diventato irrinunciabile per Welles. Tutte le scene di Quarto potere sono piccoli racconti che aprono mondi di significato aggiungendo informazioni a metafore visive strato su strato. L’ambizione è quella di rivoluzionare il linguaggio, niente di meno.
La ricetta Welles/Toland dimostra come il peso specifico di un ricordo o di un singolo tassello nell’ambito di una narrazione sia tanto più decisivo quanto più ne risulta precisa la percezione. La composizione dell’inquadratura è particolarmente curata nei dettagli ma anche nei tempi. La profondità di campo richiede un’attenta disciplina nel gestire la durata dell’attenzione. Per Andre Bazin la credibilità psicologica del découpage si basa sul delicato equilibrio tra verosimiglianza fisica dell’ambientazione e verosimiglianza sociale delle funzioni drammatiche attivate. Il cinema colloca l’essere umano al centro di un universo “spazialmente reale” esplorato grazie ai movimenti del corpo degli attori e delle attrici.

“[…] la nostra esperienza dello spazio costituisce l’infrastruttura della nostra concezione dell’universo. […] Si può svuotare l’immagine”
(Bazin, 1999).

L’occhio e la macchina da presa possono inquadrare solo un’angolazione alla volta. La visione d’insieme viene dal movimento che consente di cambiare le prospettive. Solo il cinema riesce a farci vedere questo movimento che conduce alla percezione del tempo. La visibilità assoluta proposta da un’inquadratura (e rilanciata da Welles con la sua profondità panfocale) non è un finish ma l’inizio di un viaggio. In una delle scene finali Kane vecchio attraversa un corridoio fiancheggiato da specchi: vediamo la sua immagine moltiplicata dal gioco di specchi che si riflettono. L’esistenza di Kane è quasi al finale e possiamo ben dire che egli è tanti Kane contemporaneamente. Per Maurice Merleau-Ponty lo specchio spettacolarizza le cose perché è il luogo “in cui tutto è contemporaneamente” (cfr. Merleau-Ponty, 1996) sfaldando i confini tra soggetto e oggetto della visione, tra visibile e invisibile. Passato, presente e futuro camminano insieme in quel corridoio fatto di specchi. Nei suoi scritti sul cinema Gilles Deleuze affronta la “profondità di campo” citando proprio Quarto potere (cfr. Deleuze, 2017). Nel film di Welles essa è perseguita in quasi tutti i modi possibili: obiettivi grandangolari, riduzione della lunghezza focale, apertura del diaframma, split-screen mimetizzati, matte painting normale, matte painting rovesciato con riflesso nell’acqua ecc. ecc. Ogni singolo livello dell’immagine contribuisce alla profondità di senso in virtù della giustapposizione tra esso e tutti gli altri livelli. Il primo piano può essere letteralmente squarciato dalla visione di qualcosa che avviene dietro. Quando Kane scopre il tentativo di suicidio della sua seconda moglie, in primo piano un bicchiere che denota l’overdose di farmaci, sullo sfondo qualcuno che va a cercare aiuto. Anche quando il dettaglio ritrae oggetti inanimati c’è sempre un certo dinamismo nella giustapposizione che non è mai statica. Nel cinema, oggetto, soggetto e universi si costruiscono prendendo posizione nello spazio.

Deleuze assume la profondità di campo wellesiana come paradigma dell’immagine-tempo: una rappresentazione diretta del tempo, in contrasto, per esempio, con la comprensione indiretta del tempo fornita dalle scienze naturali che deducono il tempo dal movimento e il movimento dal cambiamento di posizione su una griglia. Nessun valore significativo al movimento. La cosa mossa si differenzia da quella non mossa solo perché ha coordinate diverse. Per le scienze esatte lo spazio e il tempo non influenzano il cambiamento. Ma per Deleuze il tempo coincide con il cambiamento stesso. Con il tempo una cosa non cambia solo in modo quantitativo, ma anche in modo qualitativo. Per Deleuze la particolarità di Citizen Kane non è tanto nel fornirci esempi di connessioni spazio-temporali quanto nel mostrarci il potere di connettere in quanto tale. L’interazione tra primi piani e sfondi sposta l’attenzione dagli elementi in scena a ciò che accade tra essi, a ciò che li collega o che li separa. È curioso come un film esplicitamente dedicato alla memoria e quindi al tempo proponga in definitiva tanti vani tentativi di evocazione attraverso la profondità di campo: il presente che, volente o nolente, si ritrova a riattualizzare il passato. In effetti quando riflettiamo sul tempo come vettore di cambiamento non siamo tanto interessati a come qualcosa cambia ma ai cambiamenti possibili (o impossibili) che non si sono verificati.
Welles rende possibile la coesistenza di tutti i piani del passato nell’oggetto della slitta e nella boccetta di vetro. In termini deleuziani Rosabella è una talpa trascendentale nel piano immanente e, come tale, non cambia mai di posizione. È il punto cieco di ogni stratificazione ed è anche un paradosso: l’unico modo possibile per unificare il passato. Insomma per Welles Rosabella è soprattutto quel quid affabulante del cinema che mette in fila tutti i piani della memoria e dell’intelletto, semplificandoli in un unico livello di tempo senza senso che coincide con l’incantesimo della proiezione cinematografica nel buio della sala. La modernità registica di Orson Welles è nella sua volontà di non forzare l’attenzione dello spettatore, di mettergli davanti un universo di dettagli tra i quali scegliere. Un evidente atto di illusionismo ma anche l’avvio di una lenta e silenziosa rivoluzione linguistica.

Il retaggio di Welles tra passato presente e futuro
Difficile stabilire quanto si sia evoluto davvero il linguaggio cinematografico da Citizen Kane a oggi. Per decenni è sembrato impossibile andare oltre. Poi però è arrivato Quentin Tarantino che con Le iene e Pulp Fiction ha illustrato meglio l’arbitrarietà (e quindi le potenzialità) dell’assemblaggio di quelle capsule-mondi ideati da Welles: separati oppure connessi, si tratta di spazi diegetici che possono esistere in autonomia, ciascuno con la sua profondità panfocale, potenzialmente in rotte di collisione apparentemente casuali. Il ninnolo di vetro con la neve dentro è un oggetto che catalizza, quasi un anticipo di quelle capsule-mondo ordite da Tarantino il quale ha raccolto il retaggio di Welles proponendo reti di citazioni e di metatestualità al fine di coinvolgere lo spettatore nel definire un punto di vista unificante. Poi sono arrivati i videogiochi tridimensionali e fotorealistici. Tra questi si distinguono sfide intellettuali e metalinguistiche come quelle proposte dalla software house Remedy che con la scrittura di Sam Lake per Alan Wake 2 ha riattualizzato magistralmente l’idea di scomporre l’asse logico e cronologico del racconto. Alzando l’asticella dell’immersività psicologica e delle possibilità manipolatorie riguardo ai sub-plot di una storia o di un universo narrativo, il gioco elettronico ha saputo incorporare molto del linguaggio audiovisivo novecentesco arrivando a infondere nel fruitore la sensazione di poter “montare” il racconto a dispetto di un narratore apparentemente invisibile. Oggi con i videogiochi open-world più riusciti aumenta vertiginosamente non solo il livello di coinvolgimento sensoriale (e quindi emotivo, e quindi l’illusione di verità) ma anche quello intellettuale necessario al co-design della narrazione.

Nel 1941 lo sguardo panfocale del talentuoso regista Orson Welles prometteva allo spettatore inedite possibilità analitiche e contemplative. Oggi piccoli “studios” multimediali sono dentro le nostre tasche e stimolano la possibilità/necessità di condividere storie audiovisive sperimentando continuamente la possibilità di dirigere, montare, falsificare e assemblare schegge realtà. Magari un giorno si affermeranno teatri olografici in grado di rendere il fruitore contemporaneamente attore e sceneggiatore in una bolla digitale che avrà qualcosa dell’ampollina con la neve al centro di Quarto potere. L’episodio “White Christmas” di Black Mirror illustra molto chiaramente quanto sia fiorita nell’immaginario la fascinazione per quella specifica trovata del piccolo mondo incapsulato vista in Quarto potere. Lo spettacolo si sta gradualmente spostando dallo schermo bidimensionale alle tre e più dimensioni promesse da una elettronica di consumo sempre più intraprendente. David W. Griffith, Welles, Tarantino, Remedy: tutte tappe di un percorso scientifico che lavora sui rapporti tra la percezione, la memoria e la scrittura narrativa.
Oggi straordinarie avventure videoludiche come Alan Wake 2 dimostrano come la maggiore precisione nei dettagli proposta dalla simulazione digitale non rende affatto un percorso psicologico più facile da decifrare. Siamo ancora nel labirinto senza centro o a scivolare con lo slittino all’interno del giocattolo di vetro. E non abbiamo nessuna intenzione di uscire da questo incanto. Almeno finché ci saranno in circolazione illusionisti abili come Orson Welles.

Letture
  • André Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano, 1999.
  • Jorge Luis Borges, Film, Novecento, Milano, 1991.
  • Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino, 2017.
  • Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 1996.
Visioni
  • Michael Epstein, Thomas Lennon, American Experience: The Battle Over Citizen Kane, WGBH, USA, 2000 (home video).
  • John Ford, Lungo viaggio di ritorno, A&R Productions, 2022 (home video).
  • John Ford, Ombre rosse, A&R Productions, 2022 (home video).
  • Orson Welles, Quarto potere (collection edition), Columbia/Sony, 2004 (home video).