“[…] Se il sistema a cui sono costretto ad appellarmi reagisce solo quando l’interesse personale è a rischio, cosa c’è da sperare se non che la prossima palese ingiustizia non combaci perfettamente con quell’interesse? Qual è la legittimità etica di un sistema in cui si deve sperare che una porzione sufficientemente grande della fetta più privilegiata della società globale decida che è stato ammazzato un numero abbastanza alto di bambini per poter cambiare marca di cous cous? Che un numero sufficiente di migranti sono stati imprigionati o lasciati annegare per rendere un luogo di villeggiatura meno gradevole?”
(El Akkad, 2025).
Questi sono alcuni dei quesiti posti da Omar El Akkad nel suo nuovo libro, Un giorno tutti diranno di essere stati contro, lavoro ibrido, un po’ saggio, un po’ reportage e memoir. Giornalista e scrittore, Omar El Akkad si è occupato di terrorismo internazionale e ha curato reportage sui processi nel carcere militare di Guantanamo, sulla rivoluzione della primavera araba in Egitto e sul movimento Black Lives Matter (in)sorto dopo i fatti di Ferguson nell’agosto 2014. Il titolo del libro (in originale, One Day, Everyone Will Always Been Against This) ha origine da un suo tweet pubblicato il 25 ottobre 2023, in cui denunciava, dopo le prime tre settimane di bombardamenti a tappeto su Gaza – e il peggio doveva ancora arrivare – l’ipocrisia occidentale, di fronte al genocidio in corso e il tradimento dei valori di libertà e giustizia. Un tweet che recitava così:
“Un giorno quando sarà sicuro, quando non ci sarà alcun rischio personale nel chiamare le cose con il loro nome, quando sarà troppo tardi per ritenere qualcuno responsabile, tutti diranno di essere stati contro”.
In questa sorta di tweet mega amplificato, quale è il suo saggio, El Akkad affronta l’ipocrisia del potere che, di fronte a un genocidio, si nasconde dietro l’ambiguità del linguaggio, si giustifica con un “è complicato”. Un’espressione che, secondo l’autore, legittima la paralisi morale: il problema non è complicato, scrive, il vero nodo è che le vite innocenti messe in pericolo non disturbano abbastanza l’interesse personale ed economico del sistema.
“Chi detiene il potere presuppone che tutti coloro che non sono stati colpiti direttamente dalla vicenda, che hanno dovuto sopportare solo il fastidioso inconveniente di sentir parlare di queste morti lontane, si butteranno tutto alle spalle, dimenticheranno. […] Nella sfera dell’interesse personale – che poi è forse l’unico che conta è una follia assoluta rischiare il proprio futuro difendendo chi non può offrire nulla in cambio”
(El Akkad, 2025).
Per milioni di occidentali sarà così, per gli altri no, ed è ciò che sta accadendo: le persone con un minimo di coscienza critica, sanno di non poter andare avanti con la loro vita come se nulla fosse. Sentono il bisogno di provare a smuovere le cose, far sentire la loro voce a chi detiene il potere, di non essere complici del genocidio in atto. Anche chi vive nella “bambagia”, usando le parole di El Akkad, si sente costretto a considerare di cosa è capace un sistema che giustifica simili atrocità.

Omar El Akkad parte alla sua esperienza personale per descrivere cosa significhi essere un arabo in un paese occidentale come l’America, una nazione che si arroga il diritto di predicare valori universali, quali la libertà e la giustizia. Essere arabo significa appartenere a una cultura sistematicamente demonizzata, significa essere percepito come un potenziale terrorista, essere costantemente valutato e sorvegliato.
“La tua identità non ti appartiene del tutto. È qualcosa che la società ti assegna e che cambia in base a ciò che teme o desidera”
(ibidem).
In un passo del libro, El Akkad rievoca un episodio della sua adolescenza, in cui vide un film a casa di un amico, Alba Rossa, un film ambientato negli Ottanta, incentrato sulle vicende di un gruppo di adolescenti americani, che combattono un’invasione sovietica. Una classica narrazione americana: i buoni, “sfigati” e sempre in minoranza, contro il potere in apparenza invincibile, ma ovviamente del tutto battibile. Il punto del film non è tanto il messaggio geopolitico, quanto dimostrare la forza americana di fronte a qualsiasi ostacolo, sempre esterno, a cui il cittadino americano non si piega mai. Questa premessa serve a spiegare come la autopercezione dell’americano medio si basi su una narrazione in cui l’America ricopre il ruolo di ribelle, ma la realtà attuale è ben diversa: “[…] per portata, scala e scopo della violenza, l’America è palesemente l’impero”. El Akkad smaschera così una delle contraddizioni più profonde dell’immaginario statunitense: la convinzione di essere sempre dalla parte dei deboli e degli emarginati, pur appartenendo a una nazione di immensa potenza. È da questa contraddizione che scaturisce la violenza, che si riversa sull’altro. Dal libro emerge una riflessione sulla nuova consapevolezza critica dei cittadini di fronte alla trappola linguistica dei media. Oggi non è stato possibile occultare la verità; non è stato possibile per i leader populisti mascherare un genocidio. La retorica del capro espiatorio come forma di controllo delle masse, utilizzata per deviare l’attenzione pubblica e ottenere il consenso, non regge più di fronte a fatti concreti e mostruosi perpetrati negli anni. I cittadini hanno interiorizzato le notizie fino a raggiungere uno sfinimento psicologico. Toccare il fondo diventa occasione per un risveglio collettivo. I capi populisti, come anticipato, tentano di mantenere il controllo invocando un nemico comune, un capro espiatorio, su cui proiettare le colpe. Questo meccanismo è descritto con forza anche da Daniel Pennac, nel suo romanzo Il paradiso degli orchi, tramite il personaggio di zia Jiulia in dialogo con Malo:
“Capro espiatorio, eh? […] / Sì, questo è il mio lavoro. / ma non è un lavoro, Malo! […] è un vero squarcio di mito! Il mito fondatore di ogni civiltà! Te ne rendi conto? […] Per parlare solo del giudaismo, per esempio, o del cristianesimo, il suo fratellino perbene! Malo, ti sei mai chiesto come faceva Jahvé, il Sublime Paranoico, per far funzionare le sue innumerevoli creature? Indicava loro il Capro Espiatorio, in ogni fottuta pagina del suo fottuto testamento, tesoro mio! […] E i cattolici, e i protestanti, come credi che abbiano fatto per reggere tanto a lungo e riempire le casseforti? Designando il capro, ancora e ancora! […] e noi, che crediamo che non si debba credere in niente, come pensi che riusciamo a non sentirci delle merde? Annusando l’odore di capro del vicino, Malo […] e se non ci fosse il vicino ci si taglierebbe in due per farci un capro tutto nostro, portatile, che puzzerebbe al posto nostro!”
(Pennac, 1996).
Pennac esprime in chiave tragicomica il concetto teorizzato da René Girard ne Il capro espiatorio. Girard parla di meccanismo vittimario: l’essere umano imita modelli, e desidera ciò che possiede l’altro, tende ad omologarsi. Se si arriva a desiderare tutti le stesse cose, ne consegue inevitabilmente una rivalità, una rivalità “mimetica”, da cui deriva, secondo Girard, il conflitto antropologico essenziale. Quando la rivalità diviene eccessiva e nascono ragioni di timore e insicurezza, si instaura nella società un sentimento di odio indirizzato verso una sola vittima: il capro espiatorio. Non perché sia effettivamente colpevole, bensì perché la comunità non può trovare accordo se non unendosi contro un nemico comune. La violenza di un gruppo sociale diventa legittima e si canalizza verso un bersaglio non pericoloso, che spesso non può vendicarsi. È esattamente ciò che vive sulla sua pelle Omar El Akkad, portavoce di tutti gli immigrati e gli stranieri, che, pur accolti in occidente, sono sempre considerati potenziali pericoli, mantenuti a distanza, in una chiusura mascherata da tolleranza.
“In questa narrazione, la paura è proprietà esclusiva di un solo popolo e l’idea che gli occupati possano temere l’azione del loro occupante è fantasiosa quanto quella che i barbari possano avere paura del cancello. Qualsiasi popolo a cui venga imposta questa asimmetria sarà sempre l’istigatore, causa di ciò che è diventato e giustificazione di quello che sarà. Se il selvaggio là fuori agisce, il centro civilizzato deve rispondere”
(El Akkad, 2025).
Come osserva Noam Chomsky, nel diritto internazionale si è progressivamente diffuso il principio secondo cui il ricorso unilaterale alla forza possa essere legittimato dal principio dell’“intervento umanitario” (Chomsky, 2004). In pratica, il diritto è riservato a stati forti che esercitano la loro volontà ignorando trattati, istituzioni internazionali e opinione pubblica globale. Stati cosiddetti “civilizzati” che giustificano le loro azioni come moralmente giuste e necessarie, con il sostegno dei media e di una classe intellettuale spesso compiacente. Ormai questa propaganda non regge più: è in atto una presa di coscienza. La resistenza attiva – protestare, agire, boicottare – è necessaria, per quanto possa sembrare inutile in apparenza. In un sistema politico che non muove un muscolo per evitare guerre, massacri, perché non vantaggioso, a cosa può servire la resistenza? Serve, la storia lo dimostra. Il passato insegna che reagire porta a dei cambiamenti, anche minimi. Quando si sta normalizzando un genocidio di tale portata, ogni tipo di sviamento dalla normalità conta. El Akkad paragona la resistenza a un muscolo: un atto di resistenza è un allenamento del muscolo che serve per portarlo a termine, allo stesso modo, distogliere lo sguardo dall’orrore allena il muscolo che lo preparerà a ignorare un orrore ancora più terribile nel futuro. Si parte da piccoli passi, come il boicottaggio di determinati prodotti in commercio e si prende distanza dal sistema. Tuttavia, l’accusa d’ipocrisia incombe sempre: in un sistema chiuso in sé stesso, in cui tutti i benefici sono individualistici, risulta complicato immaginare quale vantaggio ne possa trarre il singolo che decide di allontanarsi.
“Essere accusati di parlare troppo forte di un’ingiustizia e non di altre da qualcuno che non si preoccupa di nessuna significa sentirsi dire, semplicemente, di tacere. […] L’idea che prendere le distanze dal sistema sia infantile e improduttivo si basa sull’incapacità di immaginare un allontanarsi verso qualcosa più che da, come se non potesse esistere un’altra destinazione”
(ibidem).
Un giorno tutti diranno di essere stati contro non è solo denuncia: è un appello alla consapevolezza. È un invito all’azione come forma d’impegno che fa bene all’anima. È una spinta a non cedere all’indifferenza, a prendere le distanze dal sistema e a immaginare un Occidente diverso.
- Jean Baudrillard, America, SE, Milano, 2022.
- Noam Chomsky, Riconoscere i diritti: un percorso accidentato, in La debolezza del più forte, a cura di Matthew J. Gibney, Mondadori, Milano, 2004.
- René Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 2020.
- Daniel Pennac, il paradiso degli orchi, Feltrinelli, Milano, 1996.

