Un viaggio tra fontane, 

sorgenti e giardini

María Belmonte
Al tempo dei giardini
Sogni, simboli e miti d’acqua
Traduzione di Sara Papini

Touring Editore, Milano, 2025
pp. 192, € 24,00

María Belmonte
Al tempo dei giardini
Sogni, simboli e miti d’acqua
Traduzione di Sara Papini

Touring Editore, Milano, 2025
pp. 192, € 24,00


“Ottima è l’acqua, simile alla fiamma che brucia”
(Pindaro, 2012).

Al tempo dei giardini. Sogni, simboli e miti d’acqua, di María Belmonte pubblicato da Touring Servizi, editore del Touring Club, è la traduzione italiana dell’originale spagnolo El murmullo del agua. Fuentes, jardines y divinidades acuáticas, pubblicato da Acquantilado nel 2024. Il titolo italiano e la copertina di ninfee in fiore traggono in inganno il lettore, non si tratta infatti di un libro sui giardini né sui giardini d’acqua, ma di un libro che esplora l’elemento acquatico come “un’esperienza totale”, sinestetica e lo fa a partire dalle fontane. Occorre dunque recuperare quel “mormorio dell’acqua” seguito da “fonti, giardini e divinità acquatiche” del titolo originale per capire meglio di cosa si tratta. María Belmonte, storica, antropologa e traduttrice spagnola, è autrice di diversi libri sui viaggi e i pellegrinaggi e questo è il suo primo libro tradotto in italiano. Appassionata studiosa del Mediterraneo, “ossessionata” da Grecia e Italia, come riporta lei stessa in un incontro pubblico del 2022 Letras mediterráneas, ha esordito nel 2015 con un libro intitolato Peregrinos de la belleza: viajeros por Italia y Grecia. Grecia e Italia sono le coordinate spazio temporali anche di Al tempo dei giardini così come il viaggio, quello dell’autrice che racconta la sua esperienza presente e passata in prima persona e quello di autori e autrici che prima di lei hanno percorso gli stessi cammini in altri tempi, è lo strumento utilizzato per l’esplorazione. L’acqua, invece, è l’elemento centrale di questa indagine, un elemento che l’autrice esplora attraverso strumenti di mediazione creati dagli interventi umani, come le fontane, gli acquedotti o i giardini. È un’acqua percepita dal punto di vista culturale e storico, di una storia che inizia nella Grecia classica e arriva fino al Seicento italiano.

Il volume è così diviso in capitoli che marcano questa divisione temporale e procedono in ordine cronologico, Acque classiche, Acque rinascimentali e Acque barocche, preceduti da un Elogio delle fonti e seguiti dal conclusivo Alla fonte nel bosco. Nel capitolo introduttivo, Elogio delle fonti, Belmonte racconta l’origine del libro rintracciandola nella lettura di un libro dello scrittore e drammaturgo inglese John Boynton Priestley, pubblicato nel 1949 e tradotto in italiano nel 1954 con il titolo Gioia! dalla Leonardo da Vinci, ma oggi fuori catalogo. In questo libro post-guerre mondiali, l’autore condivideva con il lettore le sue piccole gioie quotidiane, piccoli piaceri che allietavano l’esistenza come ballare, bere un gin tonic o vedere una fontana.
Il primo capitolo del libro di Priestley è dedicato proprio alle fontane, a quanto lo entusiasmino, in particolare quelle colorate da fasci di luce e fatte muovere a tempo di musica. Priestley si chiede perché nelle città le amministrazioni non mettano più fontane e a questa sua richiesta, dopo oltre mezzo secolo, sembra fare eco la lamentela di un antropologo, Marc Augé, il quale, in un breve scritto intitolato Parigi, sottolinea come la città sia ormai invasa dalle famose fontane Wallace (cfr. Augé, 2004). Fontane dalle quali non esce una goccia d’acqua. Queste fontane, secondo Augé sono il sintomo di uno degli effetti che porta architetti e urbanisti a preoccuparsi sempre molto della storia, tanto che, per far fronte a questa preoccupazione, nota Augé, essi agiscono utilizzando alcuni stratagemmi, stratagemmi che ciascuno può sperimentare in qualsiasi città europea, ma che Parigi esemplifica più di ogni altra.


Una fontana Wallace parigina.

Uno è “l’effetto facciata”, ovvero lasciare un décor, per esempio un caffè storico che dall’esterno sembra sempre uguale, ma che dentro e nella frequentazione non è assolutamente più lo stesso. Un altro è “l’effetto Gershwin”, dal nome del famoso compositore. In questo caso le città si trasformano in parchi giochi a cielo aperto, in Disneyland più o meno aperte a tutti e così si rispolverano elementi retrò, come le insegne delle metropolitane a Parigi rifatte in stile Novecento, appunto, le fontane Wallace. Queste fontane hanno perso il loro potere originario, ovvero l’acqua, e sono solo un elemento di “arredamento” urbano da fotografare. Il libro di Belmonte si situa, forse inconsapevolmente, tra questi due poli, l’entusiasmo per un elemento vitale e gioioso come l’acqua o le fontane, e una realtà attuale che tratta gli elementi, tra i quali l’acqua, come risorse da sfruttare o al massimo come “patrimonio” per turisti. L’autrice racconta che l’idea di scrivere questo libro nasce proprio nel leggere dell’entusiasmo per le fontane-gioco di Priestley. In seguito a questa lettura scatta in Belmonte una ricerca spasmodica di fontane nei dipinti, nella letteratura e nei luoghi che visita, trasformandosi presto in “un’autentica apoteosi acquatica”. Questa sorta di ricerca accumulatoria di bibliografia, di arte e letteratura sull’acqua si trasforma poi nell’autrice in una riflessione più ampia sul significato dell’acqua e sull’importanza di questo elemento per la vita. Per viaggiatori e pellegrini conoscere i luoghi in cui è possibile dissertarsi è di importanza vitale, così come interi ecosistemi sarebbero modificati completamente senza la presenza dell’acqua.


Tavola tratta da Mediterraneo di Sergio Nazzaro e Luca Ferrara.

Una visione potente in questo senso, che non è menzionata nel libro di Belmonte ma che può essere suggerita al lettore, è quella che danno il giornalista Sergio Nazzaro e il fumettista Luca Ferrara in Mediterraneo, un fumetto uscito qualche anno fa. Il fumetto è completamente senza dialoghi né testo, a sottolineare un tempo silenzioso perché senza più il suono dell’acqua del mare, e illustra un Mediterraneo che si è ritirato e ha lasciato posto a un deserto puntellato di scheletri, navi affondate, giubbotti di salvataggio sgonfi e laceri. Il rumore delle onde che ha ritmato la vita del bacino mediterraneo per millenni, tace all’improvviso e al suo posto si installa un silenzio di morte che ora è visibile a tutti.
Dell’acqua non sappiamo tutto, sottolinea Belmonte, la stessa formazione dell’acqua sulla Terra è oggetto di dibattiti tra gli scienziati. L’acqua è quella che si cerca su altri pianeti per valutare se ci sono altre forme di vita. Le religioni dal canto loro ne hanno fatto da sempre un elemento sacro. L’acqua sembra essere quello che il poeta D.H. Lawrence chiama “il terzo elemento”, e che è il titolo di una sua poesia riportata dall’autrice:

“L’acqua è H2O, due parti di idrogeno, una di ossigeno,
ma c’è un terzo elemento che la rende acqua,
e nessuno sa cosa sia”
(D.H. Lawrence in Belmonte, 2025).

Acqua richiama alla mente dell’autrice altre parole liquide e strepitanti come “sorgente” “zampillo” “risorgiva” “vena” “scaturigine” “polla” e altre voci che fluiscono, “così vive, così intrise di movimento, che sembrano quasi scivolare fuori dalla pagina: acqua corrente, mormorante, sussurrante, gorgogliante, scintillante, frizzante…” Ma da camminatrice quale è, per Belmonte l’acqua si materializza quasi subito nella fonte. Acqua che è penetrata nel terreno sulle cime, intraprende un lungo viaggio sotterraneo per sgorgare poi misteriosa dalla montagna, scivolare giù verso valle e andare verso il mare. Dalla nuvola al mare passando per un gorgogliare improvviso che allieta e disseta chi si trovi sul suo percorso,

“le fonti d’acqua non procurano soltanto piacere all’udito, sono anzi un’esperienza sensoriale completa”.

Il tatto, l’odore e il sapore partecipano dell’esperienza multisensoriale dell’acqua nella consistenza del muschio, nel profumo di vita vegetale che attornia un ruscello nel gusto fresco dell’acqua che si beve a una fonte di montagna, certo là dove sia possibile non dover aggiungere una tavoletta di iodio per evitare rischi di contaminazione batterica. L’acqua attraversa luoghi sotterranei e porosi e si fa “origine del mondo”. Belmonte decide di raccontare la sua storia attraverso alcune civiltà che l’hanno sì venerata, ma che l’hanno anche semplicemente utilizzata per scopi che diremmo “umani troppo umani”. Tradendo dunque il pensiero di Henry David Thoreau, primo tra i critici di queste stesse civiltà, di cui Belmonte riportata una citazione sul finire del primo capitolo, il libro prosegue sul cammino delle civiltà greche e romane e sul loro rapporto con l’acqua. Nell’antica Grecia i miti d’acqua occupavano un posto di rilievo, i templi erano spesso costruiti sopra o vicino alle fonti e

“si veneravano le sorgenti, le fonti e i pozzi che punteggiavano l’aspro paesaggio delle montagne o che emergevano dall’oscurità delle grotte”.

Anche per i filosofi della Grecia classica l’acqua è importante e sta al centro delle riflessioni sugli elementi. Il bagno era un rituale purificatore e amoroso, legato al culto di Afrodite e le sorgenti erano luoghi abitati dalle ninfe, figlie di Zeus.

“In mezzo alla natura aspra e temibile dei tempi antichi, le ninfe vivevano in un locus amoenus o «luogo piacevole, pastorale e utopico». Era un mondo sempreverde che ricreava lo stato edenico: un boschetto, un terreno erboso con una fonte o un ruscello, dove abitava un nume e, a volte, c’era un tempio dedicato alle divinità della natura”.

Nelle Metamorfosi di Ovidio invece, il locus amoenus lascia spazio a una natura cangiante dove violenza, amore e morte si alternano incessantemente. I luoghi acquatici allora diventano teatro di una caccia alle ninfe che richiede spesso l’intervento degli dei, come nel mito di Aretusa e Alfeo. Dai boschetti dell’antica Grecia alle città romane l’acqua subisce una notevole trasformazione:

“nell’antica Roma il suono dell’acqua era la musica della civilizzazione e, se i greci l’avevano venerata e considerata un elemento misterioso e sfuggente, i romani, guidati dallo spirito pratico e dall’abilità tecnica, fecero il possibile per comprenderlo e dominarlo”.

I romani ereditarono i saperi detenuti da etruschi e greci, ma li portarono a un livello di perfezione impressionante. Il controllo dell’acqua e la costruzione di opere di ingegneria visibili ancora oggi, gli acquedotti romani, costruiti sfruttando la forza di gravità, fanno del controllo dell’acqua una delle caratteristiche della civiltà romana e del controllo del territorio. La costruzione di reti fognarie, l’importanza dei bagni pubblici a Roma e l’abbondanza di acqua erano i caratteri del potere politico. Non solo, le fontane nei giardini privati e le terme erano i segnali di un potere economico e di un’abitudine al lusso che vedeva l’acqua come elemento centrale, tanto che alla fine del Primo secolo alcuni scrittori associarono l’uso dell’acqua e dei bagni alla decadenza dell’Impero. Anche l’ecosistema della villa dove orti e giardini erano aperti sulle campagne si fonda su un uso sapiente dell’acqua e su una gestione del territorio che è diventata in seguito fondativa nel paesaggio rurale italiano. È significativo che, a questo proposito, Belmonte si soffermi sulla villa pliniana sul lago di Como, oggi trasformata in un inaccessibile hotel di lusso visitabile soltanto un giorno all’anno con una visita di 45 minuti. Questo è uno dei tanti racconti del libro che ci mette di fronte alla modalità che la nostra società contemporanea ha di vedere, di trattare l’acqua e gli elementi architetturali antichi, ovvero come “patrimoni” che divengono meta di turistificazione o come beni immobiliari, riconvertiti in hotel o appartamenti rigorosamente di lusso.


Tivoli, Villa d’Este, Fontana dell’Ovato.

Lo stesso accade infatti per i giardini che sono uno dei temi cardine esplorati da Belmonte nel capitolo sulle acque del Rinascimento italiano. La visita a Ville d’Este a Tivoli, nel giardino voluto da Ippolito d’Este a metà del Cinquecento, vorrebbe essere nelle intenzioni dell’autrice, “polifilesca”, ma le comitive di turisti che arrivano in massa e occupano a turno le diverse parti del giardino rendono impossibile la contemplazione e l’attenzione necessarie a carpire i tanti segreti che il giardino rinascimentale nasconde. Il sogno polifilesco sembra più un incubo in questi giardini restaurati magnificamente, ma meta prediletta di un turismo dei grandi numeri.
Polifilo, ovvero il protagonista del romanzo rinascimentale per eccellenza, l’Hypnerotomachia Poliphili stampato da Aldo Manunzio nel 1499, rappresenta il visitatore ideale dei giardini rinascimentali, nei quali l’acqua trasmutava le pietre in simboli e statue, o scorreva nel buio di una grotta. Il visitatore di questi luoghi infatti, avrebbe camminato come in sogno, proprio come fa Polifilo che, in cerca della sua amata Polia, attraversa avventure di ogni sorta in uno stato di trance, in sogno. Il giardino rinascimentale è per eccellenza il luogo che il filosofo Rosario Assunto definiva, “di un rimpatrio estetico della natura nell’arte e dell’arte nella natura” (Assunto, 1991). L’uomo rinascimentale  era lo specchio della divinità, ma questo antropocentrismo sfrenato non si rifletteva in un solipsistico agire nel mondo, perché se l’uomo era specchio della divinità allora anche le azioni dell’essere umano dovevano rappresentare bontà e bellezza e, come nota Belmonte:

“questa concezione rinascimentale, secondo cui la divinità dell’essere umano doveva riflettersi in tutte le sue attività, trovò il suo sbocco naturale in una diffusa ricerca di raffinatezza, che influenzò il gusto e le maniere in tutta Europa”.

Il giardino rinascimentale rappresenta questo agire buono e bello nel quale la luce di un giardino che si spalanca sul paesaggio fa da contrappunto a grotte buie e simboli esoterici che puntellano i viali di parchi e giardini. D’altronde, come scrive il paesaggista e giardiniere Gilles Clément, senza il buio della grotta, la luce del giardino non sarebbe che uno sfondo vacuo,

“le grotte, le caverne, le cripte, i luoghi sepolti sotto il giardino, ma che pure ne fanno parte, interrogano il sogno e la notte, quella zona dell’inconscio senza la quale tutto ciò che è esposto alla luce apparirebbe con la violenza delle certezze: uno scenario di vanità”
(Clément. 2022).

Il Rinascimento sapeva che la luce della divinità umana non poteva che accogliere necessari momenti di buio, sapeva che tutto non poteva essere detto o esplicitato, e non a caso un giardino come quello di Bomarzo resta a tutt’oggi in gran parte inspiegato. Scrive Belmonte, a proposito dei giardini rinascimentali:

“nel Rinascimento i giardini divennero simboli dell’armonia della creazione e dell’impulso che anima la vita, creati per rappresentare e realizzare il viaggio iniziatico della purificazione dell’anima in mezzo alla bellezza del paesaggio e della natura, in cui la principale protagonista sarebbe stata l’acqua”.

Dal Rinascimento il viaggio di Belmonte prosegue con la Roma delle fontane e delle chiese barocche dove l’acqua torna ad essere potere politico, in questo caso potere papale. Nella Roma di Sisto V il problema dell’acqua procede di pari passo con il problema della fede, e il papa, in preda a un “entusiasmo idrico” opta per una renovatio della città:

“per coronare i suoi piani di rinnovamento urbano di Roma, Sisto V dovette affrontare un’altra grande questione: quella dell’approvvigionamento idrico. Fornire acqua corrente e di qualità ai cittadini di Roma divenne un dovere civico e sacro e una parte essenziale del programma di riforma papale”.

Reti fognarie, fonti, fontane e obelischi da allora puntellano Roma come un monito per fedeli e controriformisti,

“le fontane rappresentavano anche un modo di «colonizzare» un luogo, specialmente una piazza, e svolgevano una doppia funzione. Da una parte, mostravano la grandezza dei loro mecenati; dall’altra, sottolineavano la loro magnanimità, per non aver dimenticato di saziare la sete dei sudditi”. La Roma Barocca contribuì a creare quella città che l’antropologo Marc Augé definisce “un’immensa rovina senza età, nella quale chi passeggia innocente può provare il puro godimento di un tempo che nessun monumento e nessun sito riescono a imprigionare”.

Dopo tanta civiltà e tanto materiale accumulato, il lettore e la stessa autrice si chiedono cosa ce ne facciamo di tutte le immagini, le opere d’arte, i luoghi, le sculture che per esplorarne davvero anche solo una non basterebbe una vita. Dopo tante immagini l’autrice si mette in ascolto del suono dell’acqua, della musica acquatica suonata dal danese Poul Rasal Skovgaard che registra i fiumi della Scandinavia, uno degli artisti sempre più numerosi sul fronte dei field recordings. Quei suoni portano Belmonte ad ascoltare i fiumi che attraversa, a prestare maggiore attenzione ai suoni. Questa attenzione accompagna il lettore all’ultima fonte presentata nel libro, forse la più importante. Una fonte senza nome che si trova in un bosco dietro casa dell’autrice. Una fonte piccola abitata da schiere di animali del bosco, attraversata da lucertole e circondata da libellule. Dopo tanto ingegno umano, tanta tecnica e tecnologia che ha padroneggiato l’acqua incanalandola in acquedotti, in fontane grandiose, che ne ha raccontato le sorti personificandola in miti e leggende, la fonte nel bosco è un sospiro di sollievo per il lettore. È un momento di pace che si riconcilia con Thoreau e asseconda il bisogno di contemplazione. Una contemplazione disinteressata che si chiede che cos’è l’acqua senza aspettarsi alcuna risposta. Una contemplazione che lascia spazio fisico al fluire, al suono, che lascia spazio ad altri esseri di bagnarsi, dissetarsi, giocare con lo sciabordio fioco all’ombra delle fronde boscose. Non si tratta di un ennesimo locus amoenus, quanto piuttosto, per dirla con il filosofo Jean-Philippe Pierron, di

“relativizzare il punto di vista antropocentrico delle scienze e dell’ingegneria che pretendono di risolvere la crisi ambientale con le stesse razionalità che l’hanno causata”
(Pierron, 2018).

Ascolti
  • John Cage, Water Music in Complete Piano Music Vol. 4 – Pieces 1950-1960, MDG, 1999.
  • Edgar Froese, Aqua, Virgin/Universal, 2022.
  • Takashi Kokubo, Jamaica, Waves And Light And Earth, Studio Ion, 1993.
  • Radio France, Musiques aquatiques (2/2) : L’eau, de Ravel à Debussy, 7 marzo 2023.
  • Michel Redolfi, Sonic Waters, Underwater Music 1979-1987, Sub Rosa, 2021.
  • Jean C. Roché, La Vie D’Une Goutte D’Eau, Les Plus Beaux Sons De La Terre/Origin, 1998.
  • Poul Rasal Skovgaard, Watersounds – Woodland Stream, Fønix Musik. 1993.
  • Chris Watson, Oceanus Pacificus, Touch, 2007.
Letture
  • Rosario Assunto, Giardini e rimpatrio, un itinerario ricco di fascino attravero le ville di Roma, in compagnia di Winckelmann, di Stendhal, dei Nazareni, di D’Annunzio, Newton Compton, Roma, 1991.
  • Marc Augé, Parigi, in Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
  • Gilles Clément, Breve storia del giardino, Quodlibet, Macerata, 2022.
  • Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili (A cura di Marco Ariani, Mino Gabriele), Adelphi, Milano, 2004.
  • Andri Snær Magnason, Il tempo e l’acqua, Iperborea, Milano, 2020.
  • Jean-Philippe Pierron, «Penser comme un fleuve». Le rôle de l’imagination dans l’agir environnemental : prévision, prospective, rêverie, Géocarrefour, 6 luglio 2018.
  • Pindaro, Olimpica I, traduzione di Daniele Ventre, Nazione Indiana, 4 agosto 2012. 
  • Federigo Tozzi, Fonti, Edizioni degli Animali, Roma, 2017.
  • Pia Pera, Il giardino che vorrei, Ponte alle Grazie, Milano, 2024.
Visioni