Quando si conclude in bozza
la vocazione alla scrittura

In La vita intensa (Utopia Editore, Milano, 2025, pp. 160, €, 18,00)
Massimo Bontempelli portava all’attenzione temi quali
lo sfruttamento, la precarietà, le incertezze e l’aleatorietà
del lavoro editoriale e delle prospettive di carriera
e si era nel primissimo Novecento.
Quanto è cambiato?

In La vita intensa (Utopia Editore, Milano, 2025, pp. 160, €, 18,00)
Massimo Bontempelli portava all’attenzione temi quali
lo sfruttamento, la precarietà, le incertezze e l’aleatorietà
del lavoro editoriale e delle prospettive di carriera
e si era nel primissimo Novecento.
Quanto è cambiato?


“Se la stampa non esistesse, bisognerebbe non inventarla. Ma ormai c’è, e noi ne viviamo”
(Honoré de Balzac, 2020).

In Italia, quanta gente si occupa di libri? Quante persone sono impegnate a scrivere, illustrare, redigere, impaginare, stampare, pubblicare, vendere volumi di ogni genere, dimensione e prezzo? Secondo i dati più aggiornati dell’Aie-Associazione italiana editori (relativi al 2024), sarebbero grossomodo 70.000 gli addetti in tutta la filiera editoriale, inclusi coloro che tengono aperte le oltre 3.000 librerie sparse tra Bolzano e Trapani (cfr. Ponte di Pino, 2008). Con 70.000 abitanti, la Città del Libro sarebbe grande più o meno come L’Aquila. Ci sarebbe spazio per tutti: amministratori zelanti e manager incompetenti, lobby intoccabili e fazioni rissose, famiglie regnanti e microimprese, club esclusivi e comunità alternative, socialite intriganti e autori gâtés, traduttori depressi e responsabili marketing fuori controllo, redattori inferociti e freelance sfruttati e così via. Una città dove le parole sono sia la materia prima sia la merce di scambio: nulla di più volatile ed equivocabile, di più incerto e illusorio, di più ritrattabile e falsificabile. Dette o scritte: difficile capire quali contino di più, e quale alchimia tra verba e scripta sia necessaria per creare un’opera solida nel tempo. Non a caso, forse, la capacità di produrre reddito con le parole va annoverata tra i gloriosi misteri dell’umano ingegno.

Bontempelli, la vita in dittico
Solo pochi, volenterosi cronisti e memorialisti hanno provato a raccontare cosa succede nella Città del Libro a chi risiede fuori dalle sue mura, e come ci si vive e si lavora. Esempi apprezzabili, in tal senso, sono il memoir dedicato all’Einaudi da Ernesto Ferrero (I migliori anni della nostra vita), e il racconto biografico di Giangiacomo Feltrinelli e della sua casa editrice scritto dal figlio Carlo (Senior Service). Ma ancora più rari sono gli scrittori che hanno cercato non solo di spiegare il senso del proprio ingresso in questa città letteraria, ma anche di esprimere la fatica e la costrizione della loro permanenza, raccontando dall’interno la propria esperienza del lavoro editoriale, di ingranaggio vivente della grande-macchina-sforna-libri. Per trovare una prima testimonianza narrativa significativa al riguardo bisogna guardare indietro di oltre cent’anni: è quella di Massimo Bontempelli, che prima ne La vita intensa (pubblicato da Vallecchi a Firenze nel 1920) e poi ne La vita operosa (uscito l’anno successivo) racconta le peripezie tragicomiche di uno scrittore spiantato in cerca di occupazione sullo sfondo della Milano effervescente del primissimo dopoguerra (cfr. Rosa, 2015). Dello scrittore comasco, l’editore Utopia ha intrapreso nel 2020 la ripubblicazione delle sue opere e dopo Gente nel tempo, Il figlio di due madri, Vita e morte di Adria e dei suoi figli e L’amante fedele, quest’anno ha dato alle stampe La vita intensa, al quale dovrebbe far seguito il successivo La vita operosa, appunto.

Quando scrive il dittico milanese, Bontempelli è un letterato ormai quarantenne più che navigato, ma ancora poco noto al di fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, anche se collabora con un buon numero di riviste e giornali e ha alle spalle diversi volumi di novelle e di poesie, nonché opere teatrali. Dopo aver rinunciato all’insegnamento, per mantenere sé e la famiglia ha trovato impiego come redattore-curatore di classici italiani minori in due case editrici, alla Sansoni a Firenze dal 1910 al 1914 e all’Istituto Editoriale Italiano a Milano dal 1915-1916. All’indomani delle esperienze traumatiche della prima guerra mondiale, Bontempelli trova, quasi per prodigio, l’energia e il coraggio per rinnegare gran parte della produzione letteraria antecedente al conflitto e per ripartire ex novo, in sintonia con il clima di rinascita e di sviluppo economico della ricostruzione postbellica, mentre si rafforza l’eco della rivoluzione russa e il tema della lotta di classe accende gli animi. Nei micro-romanzi de La vita intensa e La vita operosa, pubblicati a puntate (ahilui) su Ardita, la rivista mensile collegata al quotidiano diretto da Mussolini, Il Popolo d’Italia, Bontempelli ha modo di mettere a punto, così, una sua personale e originale mediazione tra il rigetto totale e brutale della tradizione culturale italiana (proclamato fin dal 1909 nel manifesto dell’avanguardia futurista) e la volontà di veicolare con immediatezza e ironico disincanto i contenuti più vivi e attuali (inclusi quelli più scomodi) della nuova fase di espansione della società milanese. Non si può sottacere che con il dittico delle Vite, Bontempelli si guadagna un posto d’onore nell’establishment letterario più vicino al fascismo, tanto da prendere la tessera del Pnf nel 1924 (lo stesso anno di Luigi Pirandello, suo ottimo amico) e diventare nel 1928 segretario del Sindacato fascista autori e scrittori. Verrà poi allontanato dal partito nel 1938, dopo il suo rifiuto di succedere ad Attilio Momigliano nella cattedra di letteratura italiana dell’università di Firenze e di aderire, così, alle leggi razziali emanate da Mussolini a cinque anni di distanza da quelle della Germania nazista (cfr. Aquilanti, 2020).

1920: a Milano si rinnova il romanzo europeo
La vita intensa ha come sottotitolo Romanzo di romanzi, in linea con l’intento dichiarato dall’autore nella breve prefazione:

“E allora per chi e perché scrivo questo romanzo? Lo scrivo per i posteri. Lo scrivo per rinnovare il romanzo europeo”
(Bontempelli, 2025).

Affermazioni volutamente reboanti, che introducono da subito l’originale mix di inventiva sorniona e di controllato sperimentalismo che caratterizza tutti i dieci racconti (o micro-romanzi) del libro. Bontempelli mira infatti a raccontare in presa diretta la frenesia della Milano postbellica e il vortice di idee e sensazioni risvegliato dal clima di ricostruzione della nazione. Perciò dichiara programmaticamente di non voler rispettare le regole auree dei generi letterari di successo presso il pubblico medio-borghese (il romanzo storico e d’avventure, il poliziesco, la narrativa psicologico-sentimentale) e trascina il lettore in una scorribanda di situazioni per lo più al limite dell’assurdo e dell’improbabile. Uno dei micro-romanzi è dedicato proprio agli esordi professionali del protagonista: già alla primissima esperienza di giovane e ingenuo correttore di bozze in una piccola casa editrice di Napoli, nel giro di un mese si ritrova a dover studiare le mosse tattiche più opportune per estorcere all’editore infingardo almeno un acconto dello stipendio pattuito e mai corrisposto.
La rielaborazione umoristica della vicenda non arriva a mascherare del tutto i temi sottostanti dello sfruttamento, della precarietà, delle incertezze e dell’aleatorietà del lavoro editoriale e delle prospettive di carriera anche nel primissimo Novecento. L’impresa editoriale è presentata come un castello di carte prossimo a crollare, di fronte al quale ha poco senso avanzare pretese a tutela del proprio operato e a salvaguardia dei propri interessi. Vige la regola del “si salvi chi può”: non s’intravvede la minima traccia d’indignazione, né un benché minimo richiamo ai principi di giustizia sociale o a una qualche rivendicazione dei diritti collettivi dei lavoratori della categoria. Viene implicitamente demandata all’intraprendenza, all’autopromozione, alla rete di relazioni, all’intuito e alla tenacia del singolo la capacità di ritagliarsi un ruolo professionale stabile e sicuro. Del resto, avverrà lo stesso cent’anni dopo, a cavallo dei due millenni, con il boom della digital economy.

La vocazione è un eterno ritorno
Il leit motiv dell’instabilità e dell’insicurezza economica inerenti alla vocazione letteraria e della ricerca di nuove e alternative fonti di reddito si fa sentire ancora più forte in La vita operosa, che passa programmaticamente in rassegna le attività emergenti più dinamiche nella Milano-da-bere del primo dopoguerra. Qui il protagonista trova, tra l’altro, impiego in un prototipo di agenzia di pubblicità e comunicazione, riceve una proposta di collaborazione nello staff di un ministro o anche tenta la strada della speculazione edilizia e quella del commercio all’ingrosso. Ma sempre senza la necessaria fermezza e convinzione e, a conti fatti, senza darsi una reale possibilità di affermazione e successo. Ancor più che nel primo libro del dittico, ne La vita operosa aumenta la spregiudicatezza nella scelta di affrontare i lati oscuri del dinamismo milanese postbellico: affarismo corrotto, speculazione finanziaria ed edilizia, parassitismo, mercificazione, manipolazione pubblicitaria, arrivando ad accennare con disinvoltura alla diffusione del traffico di droga e a evocare gli spettri della violenza coniugale, dell’incesto e della coprofagia.

In ultima istanza, per l’ormai maturo Bontempelli, anche di fronte allo sfolgorìo promettente, ma vacuo e insidioso, della modernità industriale, la vocazione letteraria, per quanto faticosa e poco redditizia, non può essere elusa o disattesa. Dopo il lungo ed esagitato tour esplorativo della città intensa e operosa, si ritorna così al punto di partenza: dall’incertezza e dalla precarietà del lavoro editoriale e dalle periodiche crisi personali di sconforto, uno scrittore si può proteggere solo rafforzando il convincimento nelle proprie risorse creative e originalità e consolidando l’autodisciplina nella gestione degli incarichi ottenuti e dei progetti in cantiere. Il dittico milanese di Bontempelli resiste bene all’usura degli anni perché riesce a giocare intelligentemente d’anticipo sia sul piano delle tematiche affrontate sia sul piano strutturale e formale. Siamo certo lontani anni luce dalla densità delle 24 ore di peripezie urbane di Leopold Bloom nell’Ulysses di Joyce (1922): ma, per esempio, la visione elettrizzante di un’intera città in fermento, dove le “avventure” quotidiane si convertono in lezioni pratiche di morale, tornerà declinata quasi dieci anni dopo anche in opere cinematografiche d’avanguardia come L’uomo con la macchina da presa (1928) di Dziga Vertov o troverà un’orchestrazione ancora più ampia, corposa, violenta e radicale in Berliner AlexanderPlatz (1929) di Alfred Döblin.

Bianciardi, il non-riconciliato
Dovranno passare altri quarant’anni e un’altra guerra mondiale per ritrovare uno scrittore che affronti e rappresenti in maniera ancora più diretta, esplicita, circostanziata e matura il tema del corto circuito che si genera quando la vocazione e la passione del lavoro culturale si trasmutano in fonte primaria di sostentamento: croce e delizia per tanti scrittori e poeti del secondo dopoguerra (cfr. Antonioni, 2023). E stavolta dal dittico si passa a una trilogia: Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960), La vita agra (1962). Sono tre, infatti, i romanzi che Luciano Bianciardi dedica alla progressiva disillusione sperimentata da un giovane intellettuale, trasferitosi a Milano dalla provincia toscana alla fine degli anni Cinquanta, nei confronti dell’impegno letterario e dell’eredità politica e civile della Resistenza nell’Italia del boom economico. Nell’ultimo dei tre, La vita agra il più compiuto e giustamente celebrato (fu rapidamente tradotto in inglese, francese, tedesco e spagnolo), Bianciardi racconta abilmente nei dettagli anche le attività rituali e i ritmi da tenere nel lavoro editoriale nel chiuso delle redazioni (cfr, Bertoletti, 2005):

“Al mattino di nuovo a lavorare dal dottor Fernaspe, che entrava trafelato verso le dieci, trovandoci chini sul mazzetto delle bozze. La trafila era sempre la medesima: lunedì passare gli articoli e contarli, battuta per battuta. Martedì menabò, ma a quello ci pensava il Fernaspe, col righello, la matita e lo spago: qui la fotografia, qui il testo, qui il titolo e il sommario. Giovedì prime bozze da rileggere: Fernaspe le misurava un’altra volta col solito spago e ordinava a noi di tagliare i testi perché entrassero nel suo impaginato.
”Titoletto su tre colonne,” mi diceva poi “sommario di quattro righe. Giustezza venticinque, fanno cento battute esatte. Senza spezzare parole, mi raccomando. La fotografia va tagliata perché entri qua.”
E io subito mi mettevo al lavoro, a sillabare la frase del sommario, a contarla e ricontarla, perché con Fernaspe non c’erano storie, dovevano essere cento battute in tutto, fra bianchi e neri”
(Bianciardi, 2022).

Oppure spiega con una similitudine esaustiva la differente situazione tra redattore assunto e collaboratore free lance.

“[…] sapevo che il collaboratore esterno è come uno che stia in terrazza quando tira vento e piove. Dentro le aziende è come in una camera calda, al peggio come dentro un gabinetto, maleodorante certo, ma riscaldato e riparato. Fuori invece tutti i venti sono tuoi, e non c’è nemmeno più bisogno dei mesi di guerra dei nervi per scacciarti: basta non farsi più trovare quando telefoni, e intanto passare in giro la voce che sei un cretino, oppure un lavativo”
(ibidem).

O, ancora, quando esplicita minuziosamente la standardizzazione della merce-lavoro intellettuale traducendo in moneta sonante e allocando nelle diverse voci di spesa il numero di cartelle da produrre ogni mese per garantirsi la sopravvivenza economica:

“Sono perciò venticinque giorni a cartelle piene, cinquecento cartelle mensili complessive, che a quattrocento lire l’una danno duecentomila lire mensili. Sessanta vanno a Mara, trenta al padrone di casa, dieci fra luce gas e telefono (e d’inverno anche di più, perché bisogna tenere acceso quasi tutto il giorno, mentre d’estate si consuma meno luce, ma bisogna lavarsi più spesso, e allora quello che hai risparmiato di lampadine ti va per lo scaldabagno), venti di rate fra mobili vestiti e libri (si potrebbe anche non leggere, ma i vocabolari li devi comprare), quindici fra sigarette, caffè, giornali e qualche cinema, cinque fra pane e latte, e ti restano sessantamila mensili per il companatico e gli imprevisti”
(ibidem).

Bianciardi scrive in un’Italia che ha scoperto solo da poco le gioie della televisione, e dove la rivoluzione del web è ancora oltre i confini dell’immaginazione. Ciononostante, i suoi resoconti della caccia alle collaborazioni, dei vincoli contrattuali, delle modalità di pagamento e, in generale, delle condizioni distorte, alienanti e precarie dei free lance sono in gran parte aderenti alla situazione attuale. Qui il tempo si è fermato: e ancor oggi vi si possono rispecchiare centinaia e centinaia di collaboratori esterni, tra editor, traduttori, giornalisti.

Campare scrivendo ai tempi dell’euro (e del web)
Un altro balzo di oltre quarant’anni ed eccoci arrivati al terzo millennio. Anche in alcuni scrittori italiani più recenti – complice i format pericolosamente narcisistici del diario in pubblico o dell’autofiction, che trasformano una pseudo-sincerità a oltranza in un valore di per sé –, viene affrontato il tema del sostentamento economico grazie alle collaborazioni giornalistiche ed editoriali, alle traduzioni o alle correzioni di bozze (cfr. Recami, 2007), prima ancora che con i diritti d’autore dei libri venduti.

“In quel periodo, fra recensioni, talk e i rari ma ben pagati saggi su catalogo, avrò guadagnato meno di mille euro al mese. Per la mia vita a Berlino – una vita di stanze in subaffitto e kebab e vestiti di seconda mano, che era la vita che avevo scelto – all’epoca bastavano […]”
(Latronico, 2023).

E poco più avanti:

“[…] trovavo, trovo ancora qualcosa di miracoloso nell’idea di poter pagare l’affitto in parole
(ibidem).

Qui, in un certo senso, a oltre un secolo di distanza, sembra quasi di regredire al candore dell’esordiente Bontempelli nel primissimo Novecento, malgrado la proliferazione a catena di nuovi media. Un candore che sa di forte rimozione, purtroppo: perché viene meno anche la volontà di raccontare e descrivere l’identità e le caratteristiche dei nuovi datori di lavoro e delle nuove condizioni imposte alle giovani generazioni impegnate nelle industrie culturali. Bianciardi sembra, ahinoi, passato invano: l’acume della sua denuncia e della sua visione “dal basso” non viene recuperato e utilizzato per affrontare il nuovo scenario che, nel frattempo, risulta completamente stravolto e irriconoscibile. L’era digitale ha portato con sé, almeno nella lunga fase di esordio, l’accesso gratuito e illimitato a un immenso, incommensurabile magazzino di saperi e di informazioni, come mai era capitato nella storia umana. L’eccezionale libertà degli internauti fruitori di contenuti culturali sembrava inizialmente destinata a far vacillare le strutture portanti e la solidità economico-finanziaria dei tanti settori coinvolti, dall’editoria alla musica, dal cinema alle arti visive. Come hanno resistito le imprese della cultura di massa a questo tsunami libertario? Quale scrittore/scrittrice sarebbe in grado di raccontarlo dall’interno, come riuscì pienamente a Bianciardi? Di tutti questi sommovimenti tellurici non troviamo la minima traccia nelle opere di narrativa delle ultime generazioni di scrittori italiani (cfr. Fofi, 2019). Neppure nel romanzo breve che si autopromuove (più o meno scherzosamente, ci si augura) come La vita agra del 2000: Aspetta primavera, Lucky di Flavio Santi.
Qui la narrazione procede disarticolata e disordinata in una direzione opposta rispetto alla struttura serrata e avvolgente e alla rabbia lucida e fredda del libro di Bianciardi. Mentre lo scrittore toscano stringe i denti e usa un gelido sarcasmo per raccontare la vita di redazione e le condizioni di lavoro, Santi preferisce gridare con quanta voce ha in corpo lo sconcerto e la furia dell’operaio-intellettuale:

“[…] ho scoperto che piglio quanto un portinaio: 800 euro netti al mese. Con tutto il rispetto per la categoria dei portinai, nobile e utile per carità, ma io avrei anche studiato, tra liceo, laurea e dottorato la bellezza di dodici anni (sempre con il massimo dei voti, lodi e menzioni varie, è sottinteso), avrei pure delle competenze altamente specializzate, spendibili come si dice sul mercato. […] Io sono ancora della generazione […] convinta che con lo studio e l’istruzione si arriva in alto”
(Santi, 2011).

Il senso di frustrazione è un pilastro portante della vita di tanti artisti e letterati e, spesso, un motore potente per le loro opere. E, difatti, lo ritroviamo anche più o meno esplicitato nei quattro libri qui esaminati. In Bontempelli e Bianciardi, però, la disillusione e l’inappagamento sono metabolizzati e rielaborati con l’intento di offrire ai lettori una visione trasfigurata e immaginosa del mondo che sia fertile e significativa. Latronico e, ancor più, Santi non riescono a uscire dai confini del proprio spaesamento, delle proprie incertezze, dell’insoddisfazione e dello scontento, cosicché il mondo intorno a loro viene raccontato “per informazione” (anche letteralmente) e non come rappresentazione.
Ed è un’occasione persa: per loro come scrittori, per noi come lettori.

Letture
  • Paolo Aquilanti, Il caso Bontempelli-Una storia italiana, Sellerio, Palermo, 2020.
  • Honoré de Balzac, Illusioni perdute, Mondadori, Milano, 2020.
  • Ilario Bertoletti, Metafisica del redattore. Elementi di editoria, Edizioni Ets, Pisa, 2005.
  • Luciano Bianciardi, Trilogia della rabbia (Il lavoro culturale, L’integrazione, La vita agra),  Feltrinelli, Milano, 2022
  • Massimo Bontempelli, La vita operosa, in Opere scelte, Mondadori, Milano 1978.
  • Alfred Döblin, Berliner-Alexanderplatz, Mondadori, Milano, 2025.
  • Carlo Feltrinelli, Senior Service, Feltrinelli, Milano, 2014.
  • Ernesto Ferrero, I migliori anni della nostra vita, Feltrinelli, Milano, 2009.
  • Goffredo Fofi, L’oppio del popolo, elèuthera, Milano, 2019.
  • James Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano, 2024.
  • Vincenzo Latronico, La chiave di Berlino, Einaudi, Torino, 2023.
  • Oliviero Ponte di Pino, I mestieri del libro, Tea-Tascabili degli Editori Associati, Milano, 2008.
  • Francesco Recami, Il correttore di bozze, Sellerio, Palermo, 2007.
  • Giovanna Rosa, Il mito della capitale morale, Rizzoli, Milano, 2015.
  • Flavio Santi, Aspetta primavera, Lucky, Edizioni Socrates, Roma, 2011.
Visioni
  • Michelangelo Antonioni, La notte, Compass Film, 2023 (home video).
  • Carlo Lizzani, La vita agra, Ripley’s Home Video, 2025 (home video).
  • Dziga Vertov L’uomo con la macchina da presa, DCult, 2015 (home video).