Lacrime comparse
tra sabbia e celluloide

Collectif MML (Michał Mądracki, Maciej Mądracki e Gilles Lepore)
Sans Bruit, Les figurantes du désert
Produzione Otter Films, 2017

Collectif MML (Michał Mądracki, Maciej Mądracki e Gilles Lepore)
Sans Bruit, Les figurantes du désert
Produzione Otter Films, 2017


Qualcosa di impensabile: il cinema senza comparse. Non che sia impossibile concepirlo senza figure di contorno, di passaggio, poste sullo sfondo, o che attraversano la scena occupata dai personaggi, ma lo è solo in quanto eccezione. Tutto il cinema senza comparse è impensabile, o almeno la sua storia sarebbe tutt’altra cosa, ancora radicalmente da pensare. Vite minuscole quelle delle comparse, in bilico tra la cospicua realtà della propria esistenza e gli attimi di vita nella finzione; vite sbilanciate, nelle quali in brevi istantanee o poco più, altre narrazioni intersecano il racconto principale del quotidiano. È così dappertutto, tranne che a Ouarzazate, piccola città che sorge nel sud del Marocco.
Qui le vite sbilanciate delle comparse si fanno quasi esistenze parallele, si alternano, perché il territorio dove sorge questa cittadina è da sempre la location privilegiata da Hollywood per girare film nel deserto, sia che si tratti di storie bibliche, sia che tratti di episodi di guerra e terrorismo del radicalismo arabo.
Qui da oltre un secolo si girano scene per la grande industria del cinema e tutta Ouarzazate è un indotto hollywoodiano, che arruola a turno tra le settantamila anime di questa cittadina il cui nome in berbero significa emblematicamente “senza rumore”.  Di recente questa porzione di deserto è comparsa nell’ultimo film di Peter Weir, The Way Back (2010), in Asterix & Obélix – Missione Cleopatra (2002) di Alain Chabat, Il gladiatore (2000) di Ridley Scott, Mission: Impossible (1996) di Brian de Palma, Babel (2006) di Alejandro González Iñárritu e Prince of Persia – Le sabbie del tempo (2010) di Mike Newell, per fare qualche titolo.
Qui si è recato il Collectif MML gruppo di cineasti in azione dal 2008 e costituito da Michał Mądracki, Maciej Mądracki e Gilles Lepore per girare Sans Bruit, Les figurantes du désert (“Senza rumore, le comparse del deserto”), presentato al Bergamo Film Meeting 2018 nella sezione Visti da vicino.

Qui, quei volti, quei corpi, quegli attori apparsi sullo schermo per una manciata di secondi, che hanno fatto parte di folle o di eserciti, diventano protagonisti. Costruito alternando interviste e piccole dimostrazioni delle loro competenze, il film (?), il documentario (?) affida a questi mestieranti del cinema il racconto delle loro carriere: come hanno iniziato a recitare, quali personaggi hanno interpretato prevalentemente, lasciandoli confidare anche particolari biografici non legati al lavoro nel cinema oppure aneddoti, o ancora delusioni e sogni.
Ritratti senza fronzoli, schegge di vita sullo schermo, volti stilizzati destinati anche a interpretare personaggi giganteschi ma di contorno nelle storie narrate; cosicché ecco che ci si può ritrovare a vestire i panni di Gesù Cristo diverse volte, ma si può anche rimanere nell’anonimato a far la fila per ritirare un numero ed essere impiegati una tantum, come ci mostrano Lepore, Mądracki  e Mądracki  tra un’intervista e l’altra, da quella a una giovane donna che si esibisce in una mini pièce in memoriam di giovanissime kamikaze immolatesi in atti di terrorismo, brano toccante sull’assurdità della violenza, interpretato benissimo, a quella a un giovane alle prime prove di carriera che confida con entusiasmo le sue ambizioni di recitazione. Inquadrature strette, primi piani quasi caravaggeschi nel contrasto tra fondale scurissimo, volti illuminati e il movimento degli occhi che occupa la scena.
Una strana umanità abita Ouarzazate e la macchina da presa cattura attimi folgoranti: un vecchio artigiano che costruisce pezzi di finto paesaggio, come un masso gigante che poi carica sulla sua jeep e trasporta su un set, una coppia di attori che ripropone un suo cavallo di battaglia, ovvero interpretare due talebani che sparano a un elicottero e lo atterrano, esultando (il loro pezzo forte) coperti dal fragore assordante dell’esplosione. Altri documenti si susseguono. Un assistente di produzione scatta foto alle donne e agli uomini che abbiamo visto far la fila per cercare lavoro come comparse, creando una sorta di portfolio composto da idealtipi. Un improbabile ciclope il cui volto è celato da un trucco a dir poco appariscente ha appena finito di sgranocchiare un uomo e riposa ubriaco, mentre una coppia di altrettanto improbabili achei gli si avvicina e lo acceca. L’urlo che segue è parimenti posticcio e l’attorialità qui è proprio ai minimi termini (lo vediamo in posa plastica tenente un gran masso sollevato sulla sua testa).

La si attraversa rapidamente Ouarzazate, di notte, su un motorino, la città stessa stavolta a far da fondale per le storie dei suoi abitanti, tra cui su tutti spicca Marika, sessant’anni, oltre duecento film girati, una carriera iniziata giovanissima, nei primi anni Settanta. Marika è richiesta soprattutto per le scene di pianto. La sua intervista sfonda lo schermo, lo moltiplica, disorienta perché finzione e realtà qui si accartocciano e si rendono inestricabili. A Marika, dopo averla ascoltata, aver conosciuto la sua storia, viene chiesto di dare un saggio di pianto e si reclamano lacrime vere. Lei prova, ma sulle prime non ottiene alcun risultato. Riprova, questa volta concentrandosi su un episodio di reale umiliazione vissuta, una forte, incancellabile umiliazione. Inizia a piangere. Il suo bel volto, nobile, è sempre in primo piano, si offre per potervi leggere mille storie, ma quella umiliante a cui Marika pensa, resta celata nel suo ricordo. Possiamo immaginarla legata alla sua pseudo carriera fatta di sottomissione agli stereotipi dell’immaginario occidentale o chissà cos’altro. È buio fitto sotto il sole abbacinante del deserto e Marika è fatta, come tutti a Ouarzazate, della stessa sostanza di cui sono fatti i miraggi.