“Madre /Ma / মা”
Come un percorso d’avvicinamento a una persona cara, la traduzione del suo nome, madre, ma, মা . Ugual percorso conduce ad attraversare il corpo intero di una lingua, interrogarla e al contempo interrogarsi. Un viaggio molto intimo quello che Jumpa Lahiri restituisce nei quattordici saggi che compongono Perché l’italiano. Storia di una metamorfosi, edito da Einaudi. Già nota al pubblico per i suoi importanti lavori precedenti tra cui si vuol citare il primo romanzo del 2003 The Namesake (tradotto in italiano con il titolo L’omonimo), con la trasposizione cinematografica di Mira Nair nel 2006 nel suo film dal medesimo titolo, e il primo romanzo in lingua italiana del 2018, Dove mi trovo, tradotto in inglese dalla stessa autrice in Whereabouts, Lahiri condensa in questa raccolta di saggi, scritti in diversi tempi, le sue riflessioni sul senso della traduzione e della scrittura, della metamorfosi che permea la lingua e chi ne fa uso.
Bengalese d’origine, nata a Londra e vissuta negli Stati Uniti sin dalla tenera età, Lahiri si avvicina alla lingua italiana come atto d’amore. Studia latino e greco all’università e nel momento in cui è intenta a terminare Perché l’italiano è coinvolta nell’imponente sforzo di traduzione delle Metamorfosi di Ovidio.
“Posso pur avere cominciato scrivendo i miei libri, ma sono nata con una predisposizione al tradurre, perché il mio desiderio principale era collegare tra loro mondi diversissimi. Nella mia vita ho dedicato una grande quantità di tempo ed energie ad assimilare la lingua e la cultura di altri: il bengali dei miei genitori, e poi più avanti, diventata adulta, l’italiano, una lingua che adesso ho adottato per creare”.
Chi nasce per prima: la scrittrice o la traduttrice? È proprio in questo binomio che la narrazione di Lahiri si snoda, tra analisi etimologiche al fine della ricerca della giusta traduzione e stralci d’intimità che coinvolgono il passato dell’autrice, le sue relazioni familiari, le sue emozioni profonde. Nel saggio Da osso a sasso, per esempio, alla spiegazione sulla scelta della parola stained piuttosto che tained (“ci sembrava uno spreco non giocare sulla vicinanza di stones e stains, «macchie». Stone viene dall’inglese antico stān ed è imparentato con il norreno steinm, il danese sten, l’antico sassone sten, l’antico frisone sten, l’olandese steen, l’alto tedesco antico stein, il tedesco Stein, il gotico stains”), segue la narrazione di un oggetto che la madre di Lahiri aveva portato con sé da Calcutta, la shil nora, un attrezzo molto pesante utilizzato per pestare i semi di papavero e senape e che rappresentava il legame con un intero mondo valoriale; e ancora narrazioni di sogni, di eventi traumatici ospedalieri che si alternano al divenire ossa delle pietre gettate dietro di sé da Deucaliano e Pirra e al divenire pietra delle ossa del corpo di Eco. Perché la traduzione, per Lahiri, non è importante solo in quanto condizione esistenziale legata al suo passato, alle origini dei suoi genitori e alla cultura che la madre cerca di proteggere trasferendole, ma è una condizione esistenziale del presente, del suo scegliere di scrivere in una lingua straniera, l’italiano, sottacendo, nella scelta di ogni parola tradotta, un viaggio che attraversa le lingue antiche, le sfumature etimologiche, un’intera letteratura con cui è in dialogo: Ovidio e i suoi esametri, Antonio Gramsci le cui Lettere e i cui Quaderni dal carcere sono sviscerati a partire da parole scelte, Italo Calvino e l’eco della sua scrittura nel mondo, fino al rapporto con Domenico Starnone, di cui è traduttrice e da cui è tradotta (tra i saggi troviamo le introduzioni scritte dall’autrice ai romanzi di Starnone, da essa tradotti in inglese, Lacci e Scherzetto e la postfazione di Confidenza).
Contro la visione della traduzione come una pratica subalterna rispetto alla scrittura, “un’opera di imitazione e non di immaginazione […] tra ciò che è puro e ciò che è contaminato”, che ha l’effetto di porre il traduttore/la traduttrice su uno scalino gerarchicamente inferiore, renderlo “innocuo e discreto”, Lahiri rammenta il mito di Eco che “non si vede in nessun monte […] ma dappertutto si sente”. Al pari di Samuel Beckett, che scrisse Aspettando Godot in francese, quindi non nella sua lingua madre poiché l’uso della lingua straniera permette di raggiungere l’essenza e l’essenziale, anche Lahiri sa che la cecità del traduttore è in realtà un punto di vista profondo:
“lo svantaggio di non poter vedere chiaramente, interamente, può illuminare il mondo in maniera diversa. Può permettermi, nonostante la distanza, di toccare il fondo delle cose”.
La traduzione come una pratica in divenire, là dove il senso ondeggia “come una nave sui mari agitati” poiché se è nei linguaggi che anzitutto sentiamo la necessità di situarci, divenendo così personaggi proustiani, in cui la nostra prima parola ci rivela, ci mette in mostra in tutta la nostra storia (cfr. Barthes, 2003), e se il linguaggio ha anzitutto le proprie radici nella pratica sociale (cfr. Gramsci, 2014), la traduzione diviene un pensiero in gestazione, difettato anzi valorizzato dal tendere a parole essenziali. E la vediamo, Lahiri, circondata dai libri della Firestone Library di Princeton, intenda a consultare il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, immersa nell’opera di traduzione e di metamorfosi. Uno dei maggiori contributi di questa raccolta di saggi è la riflessione sulla traduzione di sé stessa. L’autrice tradurrà in inglese il suo romanzo Dove mi trovo e nella narrazione di questo percorso cerca di rispondere a chi accusa di tradimento chiunque si cimenti in quest’opera, poiché la traduzione di un proprio scritto porterebbe l’autore a riscrivere il testo più che a tradurlo. Effettivamente Lahiri rivela come la riflessione sulla traduzione la porti a notare l’imperfezione della sua scrittura nel testo originario italiano e di come sia tentata di perseguire delle correzioni.
“E in quale punto l’atto del tradurre si era indebolito e quello di riscrivere aveva preso il sopravvento? Temevo di tradire me stessa”.
Questa riflessione, originale e profondamente intima, è uno dei maggior contributi del libro. Ma quando le pagine si chiudono, al termine della lettura, resta, purtroppo, il vuoto di un grande assente: il valore politico delle lingue. Da Gramsci a Homi K. Bhabha, citato nelle ultime pagine del testo, fino al rapporto con la lingua originaria della madre, Lahiri perde l’occasione importante di approfondire la lingua come ciò che ha radici nella pratica sociale e la traduzione come fatto e atto culturale (cfr. Gramsci, 2014). Nel saggio Perché l’italiano dal quale deriva il titolo dell’intera opera tradotta (il titolo originario è Translating Myself and The Others), potente è la metafora dell’innesto: innesto, graft, diviene metafora per la propria condizione esistenziale; un ibrido, qualcosa di nuovo su radici altre, spesso più forte e resistente.
“La mia vita non è altro che una serie d’innesti, uno dopo l’altro”.
La parola le da l’occasione per una critica importante al senso di appartenenza e, di conseguenza, di esclusione. Lei, così innestata, resta sempre altra. Altra rispetto all’italiano, come precedentemente altra era rispetto al bengali o rispetto all’inglese. Ma questo sentimento di alterità porta l’autrice a chiedersi:
“chi possiede una lingua, e perché? Viene dalla stirpe, dalla padronanza? Dall’uso? Dall’affetto? Dall’attaccamento? Cosa vuol dire, alla fine, appartenere a una lingua?”.
Si affaccia qui una riflessione politica sull’uso delle lingue come dispositivo d’inclusione ed esclusione ma, come lei stessa scrive, innesto è un termine “pregno di sfumature psicologiche, politiche e creative”. Ecco, si ha l’impressione che le sfumature politiche restino tali e non si traducano mai in tinte dai colori decisi. La traduzione culturale in senso gramsciano resta un’occasione mancata. L’osservazione si fa ancor più vera se il discorso si allarga all’intera esperienza linguistica dell’autrice:
“Scrivere in un’altra lingua rimette in gioco l’angoscia che provo da sempre per il fatto di essere tra due mondi, di essere tenuta fuori. Di sentirmi sola, esclusa”.
Certamente, non è il nome che essa porta a doverla obbligare necessariamente a una critica all’egemonia e alla subalternità linguistica. Esperance Hakuzwimana nel suo Tra i bianchi di scuola, un libricino essenziale e indispensabile nelle librerie di chiunque oggi rivesta il ruolo d’insegnante nella scuola pubblica, racconta del disagio di portare un nome straniero e di come quest’ultimo determini una condizione di alterità e subalternità della quale sembra quasi impossibile liberarsi (cfr Hakuzwimana, 2024). E la stessa Lahiri, ben coscia del potere simbolico del nome (si veda a tal proposito la vicenda del protagonista di The Namesake), lamenta spesso nelle sue interviste il peso di questa eredità culturale che diviene un’identità invadente sulla quale gli altri ripongono specifiche aspettative orientaliste. D’altronde Lahiri lo scrive chiaramente:
“Scrivo in italiano per sentirmi libera”.
Eppure resta la percezione di una mancanza: di Ashapurna Devi, scrittrice in lingua bengali di cui l’autrice narra di aver tradotto alcuni racconti attraverso l’ascolto della lettura degli stessi da parte della madre; della madre e della sua storia, anche se la sua immagine è celata tra ogni rigo del testo. Questi non sono mondi che Lahiri tradisce; l’intera sua produzione culturale degli inizi è forgiata dall’esperienza della prima e seconda generazione di immigrati, si vedano soprattutto le sue raccolte di racconti brevi, L’interprete dei malanni del 1999 che le valse il Premio Pulitzer per la narrativa e che si concentra sull’esperienza migratoria dall’India agli Stati Uniti (Lahiri, 2014) e Una nuova terra (2008), il cui focus è invece la vita delle seconde generazioni.
Il racconto breve da a Lahiri la possibilità di articolare la frammentazione e la dislocazione delle soggettività diasporiche e la rende una delle scrittrici postcoloniali americane più interessanti di quest’epoca (cfr. Antara Chatterjee, 2013).
Alla luce di ciò, possiamo dunque affermare che nelle sue precedenti opere come in quest’ultima raccolta, non è la voce inascoltabile della subalterna a mancare (cfr. Spivak, 1988) poiché Lahiri non è una subalterna e parla, eccome se parla; le sue geografie, Roma con vista sul Tevere, Princeton, Cape Code, narrano uno specifico posizionamento di classe; ciò che manca è il posizionamento politico di una donna che avrebbe tutta l’autorevolezza per cogliere la sfida gramsciana di collocare il linguaggio nella sua dimensione sociale e politica: riflessioni sulla voce sessuata di autori/autrici e traduttori/traduttrici, per esempio (si vedano a tal proposito gli studi di gender translations) o le immense possibilità nascoste nel binomio lingua italiano-lingua inglese come specchio della relazione tra i due mondi tra cui l’autrice vive, l’Italia e l’America, da un punto di vista storico e attuale, una lingua divenuta la lingua egemonica globale di contro ad una lingua minoritaria che ha le radici nei fasti linguistici della storia; e ancora riflessioni sul potere della traduzione come chiave della cittadinanza dal momento che essa incorpora il linguaggio all’interno di una sfera pubblica globale e globalizzata in cui la tensione prodotta tra i linguaggi crea una cultura di mediazione che prende forma contro il cangiante paesaggio della storia.
Tutto ciò è presente nel testo, è certamente presente. Semplicemente, ne vorremmo di più. Materiale per la sua prossima opera? Ce lo auguriamo. Perché l’italiano resta una bellissima introspezione di un percorso di cambiamento e metamorfosi dell’autrice e come si sa, il personale è politico, ed è proprio dall’umile posizionamento dell’essere ospitata dalla lingua che un cambiamento per reinventare le categorie dell’ospitante e dell’ospitata è possibile, al fine di creare nuove relazioni poetiche, etiche, politiche (cfr. Zaccaria,2017). In questo, di certo, Lahiri docet:
“[…] affrontando il compito di scegliere delle parole inglesi a cui far prendere il posto delle parole italiane di Starnone, sono sempre grata e per sempre mutata”.
Letture
- Maggie Awadalla, Paul March-Russel, Diasporic Subjectivities in Jhumpa Lahiri, in The Postcolonial Short Story. Contemporary Essays, l, Palgrave Macmillan, 2013.
- Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino, 2003.
- Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 2014.
- Esperance Hakuzwimana, Tra i bianchi di scuola, Einaudi, Torino, 2024.
- Jumpa Lahiri, Una nuova terra, Guanda, Parma, 2008.
- Jumpa Lahiri, L’interprete dei malanni, Guanda, Parma, 2014.
- Jumpa Lahiri, L’omonimo, Guanda, Parma, 2017.
- Jumpa Lahiri, Dove mi trovo, Guanda, Parma, 2021.
- Gayatri Chakravorty Spivak, Can the Subaltern Speak? in C. Nelson & L. Grossberg (Eds.), Marxism and the Interpretation of Culture: 271-313, Urbana/Chicago: University of Illinois Press, 1988.
- Paola Zaccaria, La lingua che ospita. Poetiche. Politiche. Traduzioni, Meltemi, Milano, 2017.
Visioni
- Mira Nair, Il destino nel nome (The Namesake), 20th Century Fox Home Entertainment, 2007 (home video).

