Quando John Ronald Reuel Tolkien vergò la prima frase de Lo Hobbit, già da tempo nel Libero Stato di Dorimare si erano verificati fatti sconcertanti. Anticipando il ben più celebre Professore oxfordiano, considerato popolarmente il padre del genere fantasy, la geniale e affascinante Hope Mirrlees aveva immaginato e scritto di “un tempo antico tra l’era delle fate e il dominio degli uomini”: così venne presentato il mondo di Tolkien fin dalla prima edizione de Lo Hobbit, un periodo storico in cui l’influenza della magia stava gradualmente lasciando spazio alla concretezza e alla materialità umana. Se di Tolkien sappiamo che cominciò a scrivere Lo Hobbit all’inizio degli anni Trenta, di Lud nella Nebbia, la straordinaria opera anticipatrice di Mirrlees (portata in Italia da Cliquot con la di Lucrezia Pei), è certa solo la data di pubblicazione: edito nel 1926 e dedicato alla memoria del padre, ricchissimo imprenditore dello zucchero deceduto nel gennaio 1923, possiamo supporre che il romanzo sia stato iniziato dopo la morte dell’uomo.
Protagonista di Lud nella Nebbia è mastro Nataniel Cantachiaro, facoltoso e rispettabile primo cittadino dell’omonima capitale di Dorimare:
“rotondo, rubicondo, con i capelli rossi, e occhi nocciola in cui le battute scherzose, prima ancora che aprisse bocca, luccicavano come una trota in un ruscello. Anche nello spirito poteva sembrare un tipico dorimarita […]”.
Sebbene incontrovertibilmente umani, mastro Nataniel e gli altri abitanti di Dorimare sembrano piuttosto vicini nell’aspetto e nell’animo agli snerg, le creature de La meravigliosa terra degli Snerg (1927) di Edward Wyke-Smith, opera amata da Tolkien e in una certa misura un’influenza ispiratrice –, e ancòr di più agli hobbit: per la maggior parte tendenti al pingue; molti coi capelli tra il rosso e il castano; visi spesso gioviali quanto i loro modi; con una propensione alla convivialità e amanti delle feste; eppure, all’evenienza, saldi, coraggiosi e nobili di cuore. Come riportato nella prefazione a La meravigliosa terra degli Snerg scritta da Douglas A. Anderson, studioso e curatore di diversi scritti tolkeniani, se il Professore parebbe essere stato ignaro persino degli altri lavori di un autore da lui tanto amato come Wyke-Smith, è probabile che nonostante la vicinanza, persino geografica, con l’eccentrica miss Mirrlees non vi sia stato alcun incontro tra i due, forse nemmeno letterario.

Entrambi cittadini britannici residenti a Headington negli anni Sessanta, poeti, poliglotti e traduttori (l’uno dall’antico, medio inglese e dalle lingue germaniche; l’altra dal russo), influenzati da mitologie e folklore, nonché da alcune tra le più grandi opere letterarie in lingua inglese, Tolkien e Mirrlees furono autori di due romanzi per certi versi simili eppure segnati da un destino ben differente. Perché sebbene Mirrlees abbia scritto il suo capolavoro, citando Laura Pugno, “prima che il fantasy diventasse un genere” (Pugno 2024), l’erudita pixie di Chislehurst, oggetto dell’ammirazione (e della frustrazione) di Virginia Woolf, membro del Bloomsbury Group, intima amica e forse ispirazione di Thomas. S. Eliot e ammirata da intellettuali del calibro di André Gide, cadde presto nel dimenticatoio. Mentre l’invenzione della Terra di Mezzo diede lustro al suo autore, quando negli anni Settanta Lud nella Nebbia venne ripubblicato nella prestigiosa collana Ballantine Adult Fantasy, che già vantava diversi scritti tolkeniani, il curatore Linwood “Lin” Vrooman Carter ammise di non aver saputo dell’esistenza del romanzo fino a che un amico lungimirante non glielo aveva suggerito e, come sottolineato nella sua prefazione all’opera, non riuscì nemmeno a rintracciarne l’autrice, arrivando a ipotizzare che non fosse più in vita, ma Mirrlees tuttavia, sebbene non più attiva nei suoi vecchi circoli letterari, non morì che otto anni dopo.
La madre-figlia di mastro Nataniel, si sospetta che il ricco borghese, sotto sotto assai meno prosaico di quanto appaia ai suoi concittadini, possa essere stato modellato sulla figura di William Julius Mirrlees: un padre che leggeva alla figlia Eroi della mitologia greca di Charles Kingsley e che, una volta cresciuta, le concesse un’istruzione fuori dal comune e la possibilità di diventare attrice, si ritirò infatti all’apice del successo a causa delle disperate condizioni di salute della linguista e storica delle religioni Jane Ellen Harrison, amica, collaboratrice e forse compagna di vita di Mirrlees. Lud nella Nebbia, fu il suo terzo e ultimo romanzo – accolto sì con entusiasmo, ma un lascito la cui portata fu probabilmente solo appena intuita.

Proviamo ad accennarne la trama per sommi capi. Dopo la violenta rivolta contro l’immorale aristocrazia, che tra le altre cose guardava con reverenza agli oggetti fatati, da ducato Dorimare divenne una terra libera sotto la guida dell’emergente classe mercantile, concreta e rispettosa della Legge: con la scomparsa dell’ultimo duca, il bellissimo gobbo Alberico, allegro demonio per alcuni dorimariti ma generoso e indimenticato padrone nelle campagne, la magia venne proclamata fonte di caos, pericolosa per la vita stessa e dunque un tabù. I nuovi governanti ritenevano la frutta fatata la principale causa della degenerazione morale dei duchi. In effetti, il consumo era da sempre associato alla poesia e alle visioni, che scaturendo da un onnipresente senso di mortalità potevano facilmente sembrare una macabra ossessione all’incrollabile buonsenso di una classe borghese in divenire. Certo è che gli uomini della rivoluzione rifuggivano le ossessioni, e sotto il loro regime quel che si può definire come il senso tragico della vita svanì da arte e poesia. Quando mastro Nataniel scopre che il figlio dodicenne Ranulfo ha consumato della frutta proibita, l’equilibrio della sua esistenza, già infragilito da un fugace ma sconvolgente istante di contatto con l’Altrove, viene del tutto compromesso, e lo stesso sembra accadere all’apparentemente pacifico Libero Stato di Dorimare. A causa di una serie di avvenimenti a prima vista slegati alla tragedia della famiglia Cantachiaro, a cominciare dalla scomparsa delle allieve della scuola di perfezionamento della signorina Primula Meloselvatico, il sindaco si ritroverà invischiato nella ragnatela di bugie, inganni e verità taciute tessuta da insospettabili compatrioti.
L’assennata e assonnata società dorimarita riposa su un morbido letto di agiatezza, pingue di guadagni e priva di ogni anelito di immaginazione. È la patria della Legge, dell’apollineo, pratica e solida, di cui solo a un occhio esterno mastro Nataniel potrebbe sembrare il più degno rappresentante. A minacciare i sogni incolori dei dorimariti è il regno del dionisiaco, la dissonante e imprevedibile terra delle fate, abitata da infidi agitatori di istinti ed emozioni tra le più ardue da dominare, naturali alleati del duca Alberico, che dopo la deposizione, si racconta, avrebbe trovato rifugio proprio al di là del confine. A poco a poco, nacque un sentimento di orrore quasi fisico per tutto quanto fosse associato alle creature fatate e al Paese delle Fate, e la società seguiva la Legge nell’ignorare completamente la loro esistenza. La stessa parola “fata” divenne tabù e non veniva mai udita su labbra beneducate; e il più grave insulto con cui un dorimarita potesse ingiuriare un altro era “figlio di fata”.

In effetti, nonostante i numerosi punti di contatto, dall’arguta ironia alla toponomastica derivata dall’inglese premoderno e legata al mondo naturale, non è azzardato asserire che il fantasy di Mirrlees si muova su territori altri rispetto a Lo Hobbit, opera a tratti picaresca e, insieme, vicina tematicamente e stilisticamente alla fiaba. Lud nella Nebbia, nonostante il riconosciuto status di opera di culto, raggiunto anche grazie al lavoro di divulgazione di celebri penne della scena letteraria fantastica contemporanea, tutt’oggi rimane per certi versi oscura: complessa e altamente simbolica, non contempla risposte assolute né facili, e presenta una pluralità di tematiche non comunemente associate a quella narrativa ancora oggi troppo spesso percepita esclusivamente escapista. Ma che Lud nella Nebbia sia – così la classicista e saggista Mary Beard – un romanzo che si pone “domande fondamentali”, quali il modo in cui “la società e i suoi membri comprendono la propria storia e […] [che] significato attribuiscono ai conflitti insiti nel sistema di classe e nel potere politico” (Beard, 2001).

Oppure, piuttosto, come sembra suggerire l’epigrafe firmata da Jane Ellen Harrison, una confessione in codice della legittimità delle più profonde e inconfessabili necessità umane, dalla passione fisica alla musica e alla poesia capaci di animare la vita, certa è la capacità di Lud nella Nebbia di sorprendere. Con la sua incredibile poliedricità di generi, in primis un fantasy, ma anche tragicommedia dagli echi shakespeariani e un mystery, e a tratti letteratura pastorale e perfino una ghost-story, questo incredibile romanzo catapulta chi lo legge su una giostra di sentimenti. Come anche brillantemente sottolineato da Luca Scarlini in un articolo per il Manifesto, allora forse potrebbe essere più fertile rapportare Mirrlees ad “altre autrici coeve, inquiete manipolatrici di fantasie mitologiche, come Sylvia Townsend Warner” (Scarlini, 2025), che nel medesimo anno della pubblicazione di Lud nella Nebbia pubblicò l’incantevole Lolly Willowes. O l’amoroso cacciatore. Similmente a Mirrlees, tramite l’espediente del sovrannaturale e un’intelligente ironia, Townsend Warner scardina la normalità di un sistema a conti fatti opprimente. E, sebbene non ne sia l’elemento centrale, è delizioso come anche in Lolly Willowes. O l’amoroso cacciatore la frutta si leghi al concetto di ribellione e libertà, del selvaggio, dal sogno di Lolly del pometo all’imbrunire nella bottega, quasi specchio inverso della spaventosa epifania musicale di mastro Nataniel, nell’ascoltare la Nota emessa dal “liuto che terminava in una testa di gallo intagliata”; alle bacche scure che crescono selvatiche nei boschi fuori dal villaggio, come quelle venefiche promesse dal Diavolo alle streghe. Del resto non fu un frutto, nella Genesi, a strappare dagli occhi di Eva e Adamo il velo della mansuetudine? Chi ha dimestichezza con la letteratura fantastica ne è ben consapevole: in pieno invito blakiano, sono spesso le piccole cose, siano esse frutti o anelli fatati, a rivelarsi portatrici di una tanto grande quanto insospettabile grandezza:
“Chi vede un mondo nel granello di sabbia, / e un Paradiso in ogni fiore selvaggio, / ha l’eterno racchiuso nell’istante / e l’infinito nel cavo della mano”
(Blake, in M. Guidacci, 2002).
Le fate e la magia non appartengono del resto solo agli anni verdi dell’infanzia, ma sono potenti, salvifici simboli di resistenza: non è un caso se l’arte fatata fu molto in voga durante gli anni dell’ancora recente Grande guerra, così come i componimenti poetici e le altre scritture a tema. Certamente, un testo con tali qualità richiede attenzione e pazienza. La prosa è ricca e densa quanto la trama, ed entrambe rifuggono la linearità. Vanni Santoni accosta, pur nella loro immensa diversità, Lud nella Nebbia a Lanark di Alasdair Gray: opere fondanti, dunque destinate a mutare per sempre “il quadro complessivo della letteratura fantastica che avevamo in mente” (Santoni, 2024). Ma com’è stato allora possibile che una simile autrice, dal folgorante talento, con importanti relazioni con artisti e intellettuali e davanti a sé una promettente carriera sia, di fatto, scomparsa dagli scaffali? Perché dopo un’opera come Lud nella Nebbia, Mirrlees non ha assunto un ruolo centrale per chi, venuto dopo di lei, ha scritto fantastico?
Una delle ragioni potrebbe essere la sua natura di flâneuse, metaforica e non – rivoluzionaria controparte femminile del flâneur: il libero osservatore, irrimediabilmente uomo, che forte dell’anonimato passeggia estraneo alla fretta nelle città di un nuovo presente.
Ugualmente, Mirrlees viveva fuori dagli schemi. Flâneuse del mondo, si muoveva vivace ma senza affanno tra le vie della letteratura e, così come altre sue pari, fece di indipendenza e innovazione personale e artistica un inequivocabile segno di nuova modernità. Che viaggiasse tra l’Europa e l’Africa, o tra la prosa e la poesia, tra il passato del romanzo storico, le pieghe profonde del metaletterario, le analisi della saggistica e le ricerche del biografico, o si muovesse nella drammaturgia, o tra le possibilità fantastiche di un mondo dentro un altro mondo, Mirrlees era un’eternauta che spaziava senza fissarsi in un dato genere o forma di espressione linguistica. Una creatrice, insomma, straordinariamente versatile ma al contempo, anche per questo, impossibilitata a divenire assoluto punto di riferimento per un determinato gruppo di letterati.

Secondo Michael Swanwick, pluripremiato Hugo Award e autore della sola biografia di Mirrlees, la risposta è da ricercarsi nella sua fortunata condizione economica: beneficiaria di un generoso fondo, poco più di un mese prima della morte dell’amata Harrison, decise infatti di recidere il contratto per il nuovo romanzo con la Collins (cfr. Swanwick, 2009). Di questo lavoro, purtroppo, non sono state trovate ulteriori tracce: non è noto nemmeno il titolo, o il genere. Forse non sapremmo mai se al posto di un signore degli anelli avremmo potuto avere una regina, non oscura ma bellissima, sublime. Già a fine 1929 Woolf commentava il rapporto di Mirrlees con l’ambiente letterario con queste parole: “si è seduta all’ombra” (cit. in Swanwick, 2009).
Si è dunque arresa alla sonnolenza di una vita comoda? Una sconfitta, o un tradimento, l’essersi piegata alla Legge dopo aver proclamato in Lud nella Nebbia la preziosità dell’immaginazione. E se invece Mirrlees avesse comunque custodito nel suo privato l’estro delle fate, anche solamente nello spazio mentale – dove tutto ciò che è immaginato o ricordato non ha necessità di palesarsi all’esterno per essere reale? In fondo, forse la maggiore differenza con la più celebre collega, in costante ricerca dell’indipendenza economica, è che questa creatura magica non necessitava di una stanza tutta per sé.
“E questa è solo un’altra prova che la Scrittura è una fata, beffarda e sfuggente […]. Che tutti i lettori di questo volume siano avvertiti! E con quest’ultima esortazione chiuderò questo libro”.
E fu così, proprio con le ultime righe di Lud nella Nebbia, che Mirrlees salutò il nostro mondo.
- Mary Beard, Fairy Fruit, Times Literary Supplement, 6 aprile 2001.
- William Blake, Innocenza, in Margherita Guidacci, La voce dell’acqua. Quaderno di traduzioni, a cura di Giancarlo Battaglia, Ilaria Rabatti, C.R.T., Pistoia, 2002.
- Laura Pugno, “Lud nella nebbia”, il fantasy prima del fantasy, Il Venerdì di Repubblica, 20 dicembre 2024.
- Vanni Santoni, Dentro il fantasy prima del fantasy, La Lettura/Il Corriere della Sera, #683 – 29 dicembre 2024.
- Luca Scarlini, Il mondo di fate con cui Hope Mirrlees sbeffeggiò il conformismo vittoriano, Alias/il Manifesto, 12 gennaio 2025.
- Sylvia Townsend Warner, Lolly Willowes. O l’amoroso cacciatore, Adelphi, Milano, 2019.
- Michael Swanwick, Hope In The Mist: The Extraordinary Career and Mysterious Life of Hope Mirrlees, Temporary Culture, Upper Montclair, USA, 2009.

