Di scenari desolanti
e saperi emancipatori

Monica Massari, Vincenza Pellegrino
(a cura di)

Emancipatory Social Science
Le questioni, il dibattito, le pratiche
Orthotes, Nocera Inferiore (SA), 2020

pp. 206, € 20,00.

Monica Massari, Vincenza Pellegrino
(a cura di)

Emancipatory Social Science
Le questioni, il dibattito, le pratiche
Orthotes, Nocera Inferiore (SA), 2020

pp. 206, € 20,00.


Nel 2010 esce negli Stati Uniti un libro dal titolo Envisioning Real Utopias. Il suo autore, Erik Olin Wright, era convinto che le scienze sociali dovessero seguire un programma ben preciso: produrre una diagnosi delle diseguaglianze generate in modo sistematico dalle istituzioni e strutture sociali esistenti; elaborare delle alternative desiderabili, sostenibili e fattibili; cooperare a un processo di trasformazione della realtà allo scopo di eliminare o mitigare le ingiustizie rilevate. A questo programma diede il nome di “emancipatory social science”. Alla fine del 2020 viene pubblicato in Italia per Orthotes Emancipatory Social Science. Le questioni, il dibattito, le pratiche, a cura di Monica Massari e Vincenza Pellegrino, che prova a situare la proposta di Wright nel contesto italiano, aprendola al confronto con filoni qui più consolidati, come la sociologia critica, la ricerca riflessiva e quella collaborativa o esplicitamente militante. Nel saggio introduttivo le curatrici affermano che l’emancipatory social science

“si propone di generare una conoscenza scientifica che possa essere rilevante per il progetto collettivo di sfida alle diverse forme di oppressione che gravano sugli individui e sulla società. Si tratta di una conoscenza sistematica che mira a incidere concretamente sull’eliminazione delle forme di oppressione che affliggono le istituzioni e le relazioni sociali che condizionano irreparabilmente ogni aspirazione a perseguire un’esistenza appagante”.

Poiché questo approccio fa della connessione reciprocamente trasformativa tra sociologia e società il suo punto di partenza, lo scenario collettivo, globale e locale, in cui tale proposta va collocata assume un ruolo cruciale. Nella prefazione, Franco Bifo Berardi lo descrive come uno scenario di “stagnazione secolare”: di fronte alla consapevolezza dell’inevitabilità dell’estinzione umana, che per la prima volta entra a fare parte della storia, le persone percepiscono di non disporre delle risorse materiali, mentali e psichiche per farvi fronte. Aumenta perciò un senso diffuso di vulnerabilità per cui ciascuno sente di essere isolato e costretto a farsi carico di sé e dei propri problemi, raramente percepiti come parte di situazioni collettive e trasversali.

Si tratta di ciò che Robert Castel ha chiamato “insicurezza sociale” (Castel, 2011): sempre più le persone, incapaci di riconoscere le determinanti sociali dei propri problemi, rimangono intrappolate in meccanismi di risentimento sociale e vedono la soluzione in uno Stato securitario contro alcuni piuttosto che in uno Stato (sociale) capace di garantire quanta più sicurezza e libertà a tutti. Del resto sembra ai più non esserci via d’uscita. È il potere di ciò che Mark Fisher in Realismo capitalista (2018) riassume nell’espressione there is no alternative, l’idea cioè che nulla di nuovo possa aspettarci in futuro e che il capitalismo, pur rendendosi responsabile di frustrazioni, diseguaglianze e altri mali, sia l’unico sistema nel quale la vita umana è possibile.
Se questo è il futuro catastrofico a cui andiamo incontro, o il presente desolante che già stiamo attraversando, il progetto di costruire una scienza sociale emancipatoria implica che studiosi e studiose di scienze sociali, lavoratori e lavoratrici cognitivi a loro volta oppressi dai processi di neo-liberalizzazione che investono la produzione del sapere, si interroghino in un modo nuovo sulle responsabilità sociali della propria professione. Non solo rispetto a ciò che è stato, quanto a ciò che può ancora essere. È proprio questa la postura assunta dagli autori e dalle autrici di Emancipatory Social Science.

Una doppia emancipazione
Nel saggio Le scienze sociali emancipatorie: reciprocità e demonumentalizzazione della ricerca, Vincenza Pellegrino sottolinea come la ricerca, a causa dei processi di neo-liberalizzazione che investono l’università, rischi di essere oggi uno spazio di oppressione per ricercatori e ricercatrici. In questa prospettiva le pratiche di ricerca emancipatoria implicano una doppia emancipazione, che riguarda tanto i gruppi sociali coinvolti nelle ricerche quanto i ricercatori. Un obiettivo al quale le scienze sociali possono aspirare, sostiene la sociologa, lavorando sul nesso tra il “cosa” e il “come”. Sotto questo profilo l’approccio della ricerca qualitativa riflessiva ha rappresentato una svolta epistemologica cruciale all’interno di quelle scienze sociali da un sapore ancora troppo positivista (cfr. Melucci 1998), e ha raggiunto importanti risultati: portare al centro della riflessione gruppi marginali e fenomeni sociali rimossi, denaturalizzare i rapporti di potere e illuminare i processi di costruzione delle diseguaglianze.

Questo è il cosa, ma a qualificare una ricerca emancipatoria è il come esplorare questo cosa. Pellegrino, presentando alcune esperienze di ricerca, identifica il “come” nell’attivazione di un processo di produzione collettiva della conoscenza, capace di generare uno “scambio cognitivo” tra i soggetti coinvolti, ricercatori e ricercati, “sino a sciogliere la pertinenza di queste categorie”, affinché possano intraprendere un percorso di consapevolezza della propria condizione e di emancipazione dai vincoli di oppressione che ciascuno sperimenta nella specifica posizione in cui si trova.
Rispetto al passaggio, per chi voglia intraprenderlo, da un paradigma riflessivo a quello emancipativo, Annalisa Tonnarelli e Andrea Valzania (Da che parte stiamo? Ricerca sociale e pratiche emancipative), propongono una narrazione autoriflessiva di una ricerca animata da un duplice scopo: per il committente, la Regione Toscana, bisognava valutare l’impatto sui beneficiari di alcune politiche di contrasto alla povertà; per i ricercatori, convinti che il malessere delle persone intervistate fosse evitabile perché socialmente costruito, si trattava di offrire ai beneficiari uno spazio di parola e un’occasione di “autoanalisi provocata e accompagnata”. Ma questa capacità riflessiva che i ricercatori hanno cercato di suscitare negli intervistati si trasforma poi in una domanda scomoda che viene loro rivolta al termine dell’intervista: “Posso farle una domanda? Ma a cosa serve questa indagine che state facendo?”. È questa domanda, però, ad attivare un processo di emancipazione per i ricercatori stessi, i quali sentono di aver disatteso la possibilità che quella ricerca fosse emancipativa, rendendosi conto di come:

“La sociologia, per essere una pratica emancipativa, non possa limitarsi a prendere le parti dei subalterni narrando la loro visione della storia, ma debba essere in grado di contribuire a spostarli dai margini della storia e rimetterli al centro”.

Esplorare l’emergente
Un’altra strada da percorrere consiste nell’esplorare “l’emergente”, ovvero tutte quelle pratiche ed esperienze che esistono nella società nonostante o contro certi rapporti di potere. Così si esprimono Vincenza Pellegrino e Ciro Tarantino (Sociologie del possibile. Intravedere la moltitudine degli ordini divergenti):

“Alla fine, chi si interessa del possibile cerca di indagare lo spirito della propria epoca in modo particolare, coglierne non (sol)tanto dimensioni problematiche del “tramontare” (ad esempio, di fotografare la fine delle ideologie e delle forme di critica sociale propriamente novecentesche), quanto anche dell’«emergere» (indagando nuove condizioni di sottrazione simbolica e materiale alla diseguaglianza e i loro processi istituenti)”.

Costruire una sociologia del possibile, spiegano gli autori, significa prendersi cura di qualcosa che sta nascendo nel presente, assumersene la responsabilità anche come studiosi, affinché si possano rafforzare nel futuro i processi di resistenza alle diseguaglianze. E se questa sociologia del possibile si mostrasse capace di prendere sul serio la “crisi epistemologica” di questo Nord abituato a pensarsi come universale, potrebbe trasformarsi anche in una “sociologia globale connettiva”, come auspicano Pellegrino e Giuseppe Ricotta nel saggio Epistemologie del sud e decolonizzazione dell’immaginario sociologico, riprendendo il lessico concettuale del sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos. Ovvero potrebbe essere una “sociologia delle assenze”, attenta a come il potere coloniale continui a produrre processi di esclusione, e una “sociologia delle emergenze”, pronta a farsi mettere in discussione e contaminare dalle esperienze e dai modi di conoscere di coloro che sono oppressi. In questa direzione si può collocare il saggio di Monica Massari, Violenza, memoria e pratiche di emancipazione sociale, in cui le recenti proteste sul significato di certi monumenti (si pensi alla statua di Indro Montanelli a Milano) vengono lette come contro-pratiche sociali della memoria che sfidano gli atteggiamenti nostalgici, spesso istituzionali, del passato coloniale, portandone a galla le radici razziste.
La tensione tra Storia e Memoria in atto nella società, sostiene Massari, sta attivando un “nesso emancipante” dal quale le scienze sociali, dovrebbero lasciarsi interpellare e non mancare l’occasione, come invece è accaduto in passato per un eccesso di etnocentrismo, di prestare attenzione a pratiche sociali che

“impongono di riflettere criticamente sui nessi tra violenza (razzista) e memoria (schiavista e coloniale), ristabiliscono e ristrutturano profondamente le condizioni di visibilità e le possibilità di espressione di attori sociali lasciati storicamente e politicamente ai margini, evidenziandone non tanto (o non solo) la dimensione di privazione e oppressione, ma soprattutto la profonda carica di resistenza al dominio e di sperimentazione di nuove forme di cittadinanza”.

Sulla stessa scia, come suggeriscono Gianluca Gatta e la stessa Massari (Ricerca visuale, memoria autocritica postcoloniale ed emancipazione) certe pratiche sociali – si prendono ad esempio certe esperienze di video partecipativo con cui i migranti si raccontano nelle società di destinazione – presentano potenzialità enormi, ma non sono intrinsecamente e sempre emancipatorie e talvolta rischiano di rimanere intrappolate nella retorica del successo individuale, sottraendosi alla possibilità di costruire contro-memorie che siano frutto di “soggettività interdipendenti e critiche”.

Sotto questo profilo il contributo delle scienze sociali può essere quello di un costante esercizio di riflessività. In ogni caso che la reciprocità tra pratiche sociali e scienze sociali abbia avuto un esito trasformativo ed emancipatorio è qualcosa che si è già verificato. Lo ricordano Giulia Rodeschini e Giulia Selmi (Studi di genere, saperi femministi ed Emancipatory Social Sciences: appunti per un possibile dialogo) a proposito del sodalizio storico tra i movimenti femministi e gli studi di genere, che ha portato a risultati all’epoca inimmaginabili, decentrando il punto di vista maschile sul mondo. Un precedente genealogico importante, di cui fare memoria e da rivitalizzare.

Emancipare l’università, e quindi la società
Ma l’università italiana, per come la conosciamo oggi, può effettivamente trasformarsi in una fucina di elaborazioni teoriche e pratiche di ricerca emancipatoria? È l’interrogativo con cui si confrontano più esplicitamente gli ultimi due saggi del volume. Annalisa Dordoni e Barbara Grüning (Precarietà della ricerca e scienze sociali emancipatorie), che interpretano la sociologia pubblica come atto di responsabilità etica e sociale, non mancano di sottolineare che questa forma di sapere difficilmente può essere praticata da chi lavora in una situazione di precarietà professionale, che non premia chi intraprende percorsi non proprio standardizzati. Mentre Tiziana Tarsia e Dario Tuorto (La terza missione e le sue potenzialità come pratica emancipativa), a partire da alcuni casi virtuosi seppur rari, mostrano come l’Università, se disposta a ripensare i rapporti tra didattica, ricerca e terza missione, possa contribuire in modo sostanziale alla crescita sociale (e non economica come si vorrebbe nella retorica dominante) del territorio in cui svolge le sue attività senza tuttavia, a oggi, cooperarvi abbastanza.

Il punto è che se le scienze sociali emancipatorie possono contrastare i processi di indebolimento del legame sociale e di paralisi dell’immaginazione creativa sulla possibilità di un altrimenti collettivo, esse difficilmente possono trovare terreno fertile nel sistema universitario attuale. Ma qualcosa si muove. Di fatto Emancipatory Social Science. Le questioni, il dibattito, le pratiche è la seconda tappa scritta di questa riflessione, dal momento che Massari e Pellegrino avevano già curato un numero monografico di Quaderni di Teoria Sociale, uscito nel 2019, dal titolo Emancipatory Social Science Today; proprio la consistente mole di proposte ricevute in quell’occasione ha spinto le due sociologhe a organizzare un convegno, tenutosi a Parma il 26 e il 27 settembre 2019, da cui è nato poi il volume qui preso in esame. Questa grande partecipazione lascia intravedere la possibilità che in futuro possa consolidarsi una sociologia che non semplicemente comprenda e rappresenti il mondo – certo, questa è una delle sue vocazioni irrinunciabili – ma che si assuma la responsabilità di contribuire a costruirlo, prendendo coscienza degli immaginari che dicono cosa non è possibile, ma ancor più cosa potrebbe esserlo.

Letture
  • Robert Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino, 2011.
  • Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018
  • Alberto Melucci (a cura di), Verso una sociologia riflessiva. Ricerca qualitativa e cultura, Il Mulino, Bologna, 1998.
  • Erik Olin Wright, Envisioning Real Utopias, Verso book, New York, 2010.