Non siamo portati istintivamente ad associare la figura di Dante al mare. Strano, perché l’elemento equoreo-marinaresco si insinua ovunque in quasi tutta la sua opera, a partire dalla Divina Commedia. Dante “Fu certamente in città prossime al mare come Sarzana e i territori limitrofi quando era ospite dei Malaspina, visse gli ultimi anni a Ravenna, e forse in precedenza passò anche da Pisa e da Genova, ma la sua presenza in questi luoghi non implica necessariamente che abbia avuto esperienze di navigazione” precisa Donato Pirovano, ordinario di filologia e critica dantesca all’Università di Milano e autore di una ricca monografia incentrata sul tema e l’immagine del mare nell’opera dell’Alighieri, soprattutto nella Divina Commedia intitolata Dante e il mare. Anche se non pochi codici del poema riportano illustrazioni di Dante nella “navicella” (per esempio, il commento figurativo all’incipit del primo canto del Purgatorio: “Per correr migliori acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele;”), il lettore non è abituato a considerare, anche per tradizione iconografica, l’Alighieri come viaggiatore per mare. Lui che nella Divina Commedia si immagina astronauta mistico nella “navicella del suo ingegno”, guidato da Beatrice nei cieli del Paradiso, che prima ancora ha descritto la ricca idrografia dei luoghi sotterranei, dall’Acheronte con il suo “nocchiero” infernale, Caronte, ai due grandi fiumi del paradiso terrestre (Lete ed Eunoè), è per sempre consegnato all’effigie di un poeta terrestre e terragno, un esule che spazia di città in città, di campagna in campagna, di monte in monte.

Gerione trasporta Dante e Virgilio, ms. Urb. Lat. 365, f. 46r, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano. Illustrazione da Dante e il mare di Donato Pirovano.
Dante è un camminatore, addirittura quasi un alpinista (quando scala i ripiani del Purgatorio), non un navigatore. Lui che ha immaginato per Ulisse (nel canto XXVI dell’Inferno) una fine tanto gloriosa quanto grottesca nell’Oceano Atlantico, il naufragio-epilogo di un viaggio di non ritorno che unisce all’estrema avventura talassica la simbolica ricerca di nuove frontiere, di misteri da risolvere, non ha potuto neanche prendere un barchino per evitare le paludi malariche dove ha probabilmente contratto quella febbre fatale per la sua salute: se da Venezia fosse tornato per via mare in direzione di Ravenna, senza passare a piedi le allora micidiali zone del Delta del Po, forse non sarebbe morto così presto. Filippo Villani nella biografia Vita e costumi di Dante, racconta che nell’estate del 1321 Dante venne inviato da Ravenna a Venezia come rappresentante di Guido Novello da Polenta per trattare la pace tra le due città e vi arrivò febbricitante. Come riassume Pirovano:
“Non solo gli fu negata la facoltà di esporre l’ambasceria, ma gli fu anche respinta la richiesta di rientrare via mare, perché i veneziani stimarono che se gli avessero permesso un accesso sicuro nelle loro acque egli avrebbe potuto, con la sua facondia, dirigere l’ammiraglio della nave dove avrebbe voluto. Giunto, dunque, malato a Ravenna, morì pochi giorni dopo, tra il 13 e il 14 settembre”
(Pirovano 2025).
Eppure il mare, con le sue onde tempestose, con le sue bonacce, con le sue navi e tutte le collegate attività marinaresche e cantieristiche (si legga la descrizione dell’Arzanà de’ Viniziani, Inferno XXI, vv.7-15), con i suoi luoghi iconici anche simbolicamente come il porto o la riva (alla quale si aggrappa il naufrago miracolosamente scampato all’«acqua perigliosa»: Inferno I, 24), permea-pervade la fantasia dantesca fino a diventare metafora principe della Divina Commedia. A questo proposito, l’ultimo capitolo del libro di Pirovano è dedicato a un’immagine che crea “una rete metaforica di straordinaria forza mitica, iconica e ideologica” (Bologna, 2015), quella della “navicella del mio ingegno” (Purgatorio, I, 1-3). Non è una novità, precisa Pirovano, perché deriva dalla figura della nave-testo e della poesia come navigazione, già diffusa nell’antichità e poi nel Medioevo, anche in testi accessibili alla biblioteca dantesca. L’immagine si trova in punti strategici della Commedia tanto da diventare, giusta la definizione di Michelangelo Picone la “metafora assiale” (Picone, 2017) attorno a cui ruota il poema sacro, che agli occhi del suo autore è una navigazione in un “pelago” mai esplorato, cosicché all’inizio del secondo canto del Paradiso (II, 1-18) Dante mette in guardia i suoi lettori sul fatto che da quel momento il viaggio diventa più arduo. E infatti precisa Pirovano:
“nel descrivere questo mare insidioso si riattivano, in virtù delle corrispondenze lessicali e foniche, i due grandi miti nautici che più interagiscono con l’impresa dantesca, l’ultimo viaggio di Ulisse e quello degli Argonauti, primi uomini a solcare il pelago con una nave”.
Dal magico “vasel” al “legno sanza vela”
Secondo Pirovano, la navigazione nei mari danteschi parte dal famoso sonetto delle Rime, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io” (Dante, 2023), dove Dante immagina di essere a bordo di un vascello magico insieme ai suoi amici Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, accompagnati dalle loro donne. Scrive Pirovano:
“L’imbarcazione incantata non ha bisogno dei consueti strumenti di navigazione né di marinai ed è mossa esclusivamente dal concorde desiderio dei sei passeggeri di stare insieme a parlare d’amore. Questo mare indefinito e senza perturbazioni diviene, allora, una sorta di equoreo locus amoenus che fa da sfondo a una crociera che è soprattutto esperienza lirica, visto che i tre giovani sono tutti poeti e le loro amate prime destinatarie delle loro rime. La nave si muove, dunque, senza una rotta e senza un approdo, cosicché appare dolce errare in questo alto e tacito mare dove si sente solo la voce della poesia d’amore”.
Aggiungiamo che “questo vasel che viaggia con ogni vento è la nef de joie et de deport del mago Merlino (“il buon incantator” nel verso 11 del sonetto) che si trova nei romanzi arturiani, e che ricorda pure, alla pari degli altri motivi letterari cari alla moda dugentesca, l’autore del Mare Amoroso che – ricordiamolo – è anepigrafo (cfr. Carrega, 2000). Dall’immagine sognante e magica del navigio amoroso, Dante passa alla metafora più reale ed esistenziale della barca (per sineddoche, il “legno”) sballottata dal mare delle difficoltà quotidiane della vita: nel Convivio, che Dante scrive nei primi anni del Trecento, già in esilio, il poeta si paragona a una nave senza vela e pilota, trasportata verso indefiniti porti, insenature e spiagge dal soffio della dolorosa povertà:
“Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade”
(Dante, 2014).
Del resto, pure nel coevo De Vulgari Eloquentia – anche questo trattato incompiuto è steso nei primi anni dell’esilio – l’autore torna a parlare della ferita aperta e sanguinante dell’ingiusta condanna e scrive, citando un altro illustre esule quale Ovidio, che ora la sua patria è il mondo, come il mare per i pesci:
“Noi invece che abbiamo per patria il mondo, come i pesci il mare, noi che pure prima di mettere i denti abbiamo bevuto l’acqua dell’Arno e amiamo Firenze tanto da subire ingiustamente l’esilio per averla amata, noi poggiamo le spalle del nostro giudizio sulla ragione piuttosto che sul senso”.
(Dante, 2023).
Tornando a la Divina Commedia, la prima similitudine mette lo spettatore di fronte a una scena decisamente marina:
E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago alla riva
si volge all’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro, a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva
(Inferno I, vv. 22-27).
Dante è appena uscito dalla selva selvaggia. È giunto a un colle illuminato dal sole (“e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogni calle”) che figura la sua salvezza. La prima delle oltre seicento similitudini del poema non è un’immagine qualunque. Dante stabilisce un’equivalenza simbolica tra la selva e il “pelago” e il suo animo si volge indietro a riguardare la prima come il marinaio scampato al naufragio rivede le onde da cui si è tratto in salvo. Questa immagine ricorda l’analoga situazione che Lucrezio descrive in apertura del secondo libro del De rerum natura:
“Dolce, quando nel mare immenso, i venti sconvolgono le acque, contemplare dalla riva l’affanno grande di altri, non perché l’angoscia di un uomo dia gloria e sollievo, ma perché è dolce vedere da che mali tu stesso sei libero”
(Lucrezio, 2013).
Questa prima similitudine della Commedia dantesca (il naufrago salvatosi dalle onde del mare) attiva un circuito di relazione simbolica con altre immagini e situazioni che troveremo nel poema, a partire dal volo nautico di Gerione nell’Inferno (cui Pirovano dedica un ampio capitolo, L’Arsenale di Venezia e Gerione) per arrivare al “folle volo” di Ulisse (canto XXVI dell’Inferno) fino alle metafore (in apertura di Purgatorio e Paradiso) della “navicella” dell’ingegno che alza le sue vele per descrivere lidi mai calpestati da orma umana e percorrere un nuovo mare inesplorato, ossia la narrazione del viaggio celeste:
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto
(Purgatorio I, 130-132).
Il monte del Purgatorio, circondato dalle acque oceaniche, nell’emisfero australe, è un nuovo approdo cui non poté giungere Ulisse: la terzina, qui riportata, evidenzia in rima le stesse parole che troviamo nel viaggio narrato dall’eroe dell’Odissea (i corsivi nel testo sono dell’autore, ndr):
Né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né il debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer poter dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore:
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno, e con quella compagna
picciola, dalla qual non fui diserto
(Inferno XXVI, 94-102).
Anche le parole “acque” e “piacque” sono in rima in entrambe i passaggi citati da Inferno e Purgatorio: “tre volte il fe’ girar con tutte l’acque” (Inf. XXVI, 139); “che mai non vide navicar sue acque” (Purg. I 131); “e la prora ire in giù, com’altrui piacque” (Inf. XXVI, 141); “Quivi mi cinse, sì com’altrui piacque” (Purg. I, 133). Sono corrispondenze tutt’altro che casuali: quell’uomo che non poté vedere la spiaggia ai piedi del Purgatorio è Ulisse che – come narra (a) Dante – è affondato dopo aver avvistato una “montagna bruna” (Inf. XXVI, 133). Nel capitolo Il folle volo di Ulisse, Pirovano cita un ampio brano tratto dal De vita beata di Sant’Agostino (I, 2-3), già segnalato e ampiamente commentato da dantisti come Giorgio Padoan (1977) e Maria Corti (2003), nel quale il filosofo e vescovo di Ippona distingue tre categorie di filosofi. La prima è quella di coloro che prudentemente navigano costeggiando. La seconda annovera coloro che si azzardano nell’alto mare aperto e che si disperdono; la terza, più complessa, è composta da coloro che errando perdono la retta via (proprio come Dante nel proemio alla Commedia) e spesso rischiano di naufragare. La seconda categoria di filosofi descritta da Agostino (quella di coloro che si arrischiano a viaggiare sul mare ignoto) si può collegare simbolicamente all’Ulisse dantesco e ai suoi compagni, che dei remi fecero “ali al folle volo” (Inf. XXVI, 125) avvicinandosi, dopo cinque mesi di navigazione, a una “montagna bruna” che ricorda tantissimo il “mons inanis sapientiae” descritto da Agostino:
“Questa montagna è simbolo dell’eccessiva e orgogliosa aspirazione a una gloria vana e rappresenta l’oggetto di una curiosità vuota, insomma quella che nelle Confessioni X 35 55, Agostino chiama «experiendi noscendique libidine», cioè la bramosia di sperimentare e conoscere”
(Pirovano 2025).
Per Dante il mare significa diverse cose: in termini simbolici e metaforici, e sulla scia del pensiero cristiano medievale (da Agostino a San Gregorio Magno e Ugo da San Vittore) il mare, come d’altronde il fiume, è simbolo della “amara” esistenza terrena dei mortali (“saecularium mentium amara inquietudo” secondo San Gregorio), e non solo: è anche simbolo della sapientia mundi di contro al vero sapere che è quello di coloro che si cibarono in tempo del pan degli angeli, come precisa Dante nell’ammonimento ai lettori in “piccioletta barca”.
Abbiamo visto che, quando Dante, uscito dal “mar sì crudele” dell’Inferno, ritorna a riveder le stelle, immagina il suo ingegno in forma di navicella che alza le sue vele per “correr migliori acque” (Purg. I, 1). La “navicula mentis” è immagine già del repertorio classico: uno dei riferimenti citati nel libro di Pirovano è la “ingenii cumba” di Properzio. Quando Dante ricorda al lettore l’enorme difficoltà del viaggio e dell’opera cui sta attendendo nel porre mano al Paradiso, avverte il pubblico privo di adeguata preparazione teologica (“O voi che siete in piccioletta barca”) a non mettersi in mare (di nuovo il termine “pelago”) “chè, forse, perdendo me, rimarreste smarriti”:
L’acqua ch’io prendo, giammai non si corse:
Minerva spira e conducemi Apollo
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voi altri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan delli angeli, del quale
vivesi qui, ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi all’acqua che ritorna equale.
Que’ gloriosi che passaro al Colco,
non s’ammiraron come voi farete,
quando Iason vider fatto bifolco
(Paradiso II, 10-17).
Qui Dante introduce un metaforico viaggio per mare che è l’antitesi di quello di Ulisse: chi “per tempo” è divenuto esperto di teologia o scienza divina può seguire il “navigio” di Dante senza il rischio di perdersi o affondare, per un mare o “alto sale” che richiede comunque, anche a chi ha drizzato il collo al pan degli angeli, di seguire il solco lasciato dalla nave del poeta, dalla navicella del suo ingegno:
Non è pileggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora
né da nocchiero ch’a sé medesmo parca.
(Paradiso XXIII, 67-69).
La metafora nautico-marinaresca ritorna, dunque, in questo passaggio del Paradiso, dove Pirovano, seguendo il testo critico di Giorgio Petrocchi, legge “pareggio” anziché “pileggio”, termine che chi scrive preferisce, sulla scorta del testo scartazziniano e vandelliano, per la sua più diretta parentela con il “pelago” di diretta ascendenza latina.
Il mare e la nautica nelle similitudini
Il mare e la navigazione non sono soltanto un continuum metaforico che unisce simbolicamente il viaggio di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole (e la sua morte poco prima di raggiungere la “montagna bruna”, forse il Purgatorio) a quello – anch’esso nuovo e non meno ardito – che Dante compie da solo (ispirato da Minerva e Apollo e dalle nove Muse che “mi dimostran l’Orse”) con la navicella del suo ingegno nel “pelago” che “già mai non si corse”, ossia il Paradiso; l’elemento talassico e nautico ritorna anche in similitudini di grande impatto figurativo, come questa:
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca
tal cadde a terra la fiera crudele
(Inferno VII, 13-15).
La “fiera crudele” è Pluto, il custode infernale che minaccia Virgilio e Dante sul limitare del cerchio degli avari e dei prodighi. La risposta del “savio gentil, che tutto seppe” (Virgilio, appunto) alla stridula imprecazione di Pluto in una lingua sconosciuta o senza senso (“Papè Satan, Papè Satan aleppe!”) fanno tacere il “maladetto lupo” che cade a terra afflosciandosi come le vele quando l’albero si spezza (“fiacca”). Non meno icastica è la similitudine cui Dante ricorre per raffigurare plasticamente il risollevarsi del gigante Anteo (siamo alla fine del canto XXXI dell’Inferno) dopo che si era chinato per posare Dante e Virgilio “al fondo che divora/Lucifero con Giuda” cioè nella zona del lago ghiacciato, il Cocito, dove si trovano la Caina (traditori dei parenti) e l’Antenora, (traditori della patria). Anteo “la man distese, e prese ‘l duca mio”:
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: “Fatti qua, sì ch’io ti prenda”;
poi fece sì ch’un fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto’l chinato, quando un nuvol vada
sovr’essa sì, che ella incontro penda:
tal parve Anteo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, lì fece dimora,
e come albero in nave si levò
(Inferno XXXI, 133-145).
Poco importa se Dante abbia mai realmente visto la scena in un cantiere navale: il subitaneo rialzarsi del gigantesco Anteo è paragonato, in termini di aggettante spettacolarità, al risollevarsi dell’albero di una nave.
“Era già l’ora che volge il disìo”
Il mare e il suo ambiente ritornano anche in contesti più elegiaci. Quando Dante rievoca la nostalgia che afferra chi parte e deve lasciare i propri cari allontanandosi dai propri luoghi, Dante pensa ai marinai e ai viaggiatori per mare:
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì che han detto ai dolci amici addìo
(Purgatorio VIII, 1-3).
È infatti nel Purgatorio che il lettore comincia a vedere e a respirare il mare come elemento e ambiente naturale. È dalle onde dell’emisfero australe che si erge la montagna del Purgatorio. Alla cui spiaggia Dante-personaggio è giunto lasciando le viscere cupe dell’Inferno. È l’alba, e le prime luci del nuovo giorno vincono l’ultima ora della notte, cosicché da lontano Dante può distinguere scintille di luce sull’increspatura del mare:
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggìa innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar della marina
(Purgatorio I 115-117).
Versi giustamente famosi, fra i più ricordati e citati del poema, per la delicatezza delle immagini e lo spettacolo naturale e suggestivo del mare che appare ai viaggiatori (Dante e Virgilio) brillare alle prime luci del giorno.
Il mare e i miti
Il mare è anche lo scenario di molti miti della cultura classica che Dante riprende e rielabora, come scrive Pirovano: “Il mare innerva poi la struttura retorica del poema, come rivela la continua metafora nautica che accompagna il cammino di Dante – e si pensi, per fare un solo esempio, alla tanto desiderata Beatrice, che si mostra nel Paradiso Terrestre severa e inflessibile come un ammiraglio (cfr. Purg. XXX, 58-66) –, la quale a volte fa rivivere miti equorei come dell’ammaliante e insidiosa sirena, dell’amore disperato di Ero e Leandro, della trasformazione di Glauco in dio marino, del mostruoso Gerione che vola come se nuotasse, e soprattutto della prima navigazione degli Argonauti, che provocò lo stupore persino di Nettuno”.
Beatrice tutta nell’etterne rote
fissa con li occhi stava; ed io in lei
le luci fissi, di là su remote:
nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fè Glauco nel gustar dell’erba,
che’l fe’ consorto in mar delli altri Dei.
Trasumanar significar per verba
non si porìa; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.
(Paradiso II, 64-72).
“È la «prima trasformazione per lucem»” (Ariani 2015) di quelle che avvengono nell’itinerario paradisiaco, e Dante, per esprimere il tema dell’ineffabilità e dell’incomprensibilità di una trasfigurazione inconoscibile se non per esperienza diretta, sceglie tra le possibili deificazioni – avrebbe, infatti, potuto trovare in Ovidio anche quelle di Ino-Leucotea e Melicerte-Palemone (tra l’altro citati nell’Inferno, XXX 12), Enea, Romolo, Ercole – l’esempio di Glauco, un personaggio senza particolari qualità o meriti, che rende così efficacemente il motivo della gratuità della grazia divina (cfr. Rigo 1994). Se, però, la trasformazione di Glauco è provocata da un’erba magica, quella di Dante avviene per effetto della luce che si riflette nello sguardo di Beatrice, quegli «occhi, che fuor porte/ quand’ ella entrò col foco ond’ io sempr’ ardo» (Paradiso, XXVI 14-15). Pertanto, negli occhi della sua donna, ora guida celeste, si riflette la luce divina apportatrice di grazia (cfr. Ledda 2009, Ledda 2016)”
(Pirovano 2025). A proposito di luci e celestiali fantasmagorie metamorfiche, quando l’Aquila rivolta a Dante nel cielo di Giove vuole significare l’imperscrutabilità della giustizia divina, ricorre a una similitudine talassica nella quale ritroviamo sia il termine più comune “mare” sia l’allotropo colto “pelago”:
Però nella giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com’occhio per lo mare, entro s’interna
che, ben che dalla proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui l’esser profondo
(Paradiso XIX, 58-63).
Dante aveva palesato all’Aquila celeste formata dai lumi dei beati, un suo dubbio intorno alla dannazione dei fedeli che non hanno potuto conoscere per ragioni storico-geografiche la legge di Cristo. La nostra vista, spiega l’Aquila, cioè per sineddoche l’intelligenza umana, si rapporta alla “giustizia sempiterna” come l’occhio che del mare riesce a vedere il fondo solo presso la costa, dove l’acqua è più bassa, ma quando siamo al largo, la profondità del mare aperto impedisce di vederne il fondo; che pure c’è, ma “in pelago nol vede”.
- Marco Ariani, Canto I, «alienatus animus in corpore»: deificazione e ascesa alle sfere celesti in Autori vari, Lectura Dantis Romana, Cento canti per cento anni, III. Paradiso, to. 1. Canti I-XVI, Carocci, Roma, 2015.
- Corrado Bologna, «La navicella del mio ingegno»: Dante nuovo Orfeo «nel casser de la mente», in Andrea Mazzucchi (a cura di), «Per beneficio e concordia di studio». Studi danteschi offerti a Enrico Malato per i suoi ottant’anni, Antenore, Roma, 2015.
- Maria Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante. La felicità mentale. Percorsi dell’invenzione e altri saggi, Einaudi, Torino, 2003.
- Dante, Opere. Convivio, Monarchia, Epistole, Egloghe, Mondadori, Milano 2014.
- Dante, Divina Commedia, Giunti-Barbèra, 2021.
- Dante, Dante. Opere minori (Vita nuova, Rime, De vulgari eloquentia, Ecloge, Utet, Torino 2023.
- Il Gatto lupesco e il Mare amoroso, a cura di Annamaria Carrega, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2000
- Giuseppe Ledda, Dante e la metamorfosi della visione, Griseldaonline, VIII, 2009.
- Giuseppe Ledda, Leggere la Commedia», Il Mulino, Bologna, 2016.
- Lucrezio, De rerum natura, a cura di Armando Fellin, Utet, 2017.
- Bruno Nardi, Dante e la cultura medievale, Laterza, 1983.
- Michelangelo Picone, Miti, metafore e similitudini del «Paradiso». Un esempio di lettura, in Scritti danteschi, a cura di Antonio Lanza, Longo, Ravenna, 2017.
- Paola Rigo, Memoria classica e memoria biblica in Dante, Olschki, Firenze, 1994.
- Luigi Venturi, Le similitudini dantesche ordinate illustrate e confrontate, Salerno Editrice, Salerno, 2008.

