Pensare l’Antropocene
per evitare la catastrofe

Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier, Edward Burtynsky
Antropocene. L’epoca umana
CG Eintertainment, 2020

Emmanuela Carbé, Francesco D’Isa, Jacopo La Forgia
Trilogia della catastrofe
effequ, Firenze, 2020

pp. 208, € 15,00

Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier, Edward Burtynsky
Antropocene. L’epoca umana
CG Eintertainment, 2020

Emmanuela Carbé, Francesco D’Isa, Jacopo La Forgia
Trilogia della catastrofe
effequ, Firenze, 2020

pp. 208, € 15,00


Fino a qualche anno fa, il termine “Antropocene” era noto solo tra i circoli degli addetti ai lavori: geologi, climatologi, ambientalisti e pochi altri. Oggi, questa parola complicata che si basa su due termini greci (anthropos e kainos) è entrata nel linguaggio comune con molta più facilita e velocità di quanto chiunque avrebbe osato sperare. Google sforna 730.000 risultati correlati ad Antropocene (in italiano), ci sono almeno diciassette volumi in italiano che usano questo termine nel titolo, un album della band Il rumore bianco e il docufilm Antropocene. L’epoca umana, girato da Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier con l’abbagliante fotografia di Edward Burtynsky e, per l’Italia (disponibile in Dvd, Blu Ray e Digitale grazie a CG Entertainment), l’ipnotica voce narrante di Alba Rohrwacher, nell’originale affidata ad Alicia Vikander, nota soprattutto per la sua apparizione in The Danish Girl di Tom Hopper, che le valse nel 2016 l’Oscar come miglior attrice non protagonista. Il documentario ci porta in diverse parti del mondo per mostrarci la realtà del concetto di Antropocene, secondo cui, a partire da un certo momento storico (sulla cui datazione gli studiosi si interrogano ancora, ma probabilmente dall’inizio della rivoluzione industriale) l’umanità è diventata la principale forza di cambiamento su scala geologica nel pianeta, superiore a tutti gli altri fenomeni naturali.
La fortuna di questo termine sta nel fatto che offre una visione nuova del problema da tempo noto dei cambiamenti climatici e dei danni ambientali. Anziché considerare tutti questi problemi – l’aumento delle temperature, i fenomeni meteorologici estremi, l’estinzione di specie viventi, la deforestazione, la distruzione della barriera corallina, i danni dell’estrazione di minerali, il buco nell’ozono, l’acidificazione degli oceani, e potremmo allungare questo elenco ancora per parecchie righe – come elementi a sé stanti, l’Antropocene ci offre una cornice epistemologica per tenerli tutti insieme. Eppure, mentre la nostra conoscenza sugli effetti dell’Antropocene aumenta, resta una domanda: come mai, anche se sappiamo tutto questo da tempo, non agiamo?

Nel docufilm Antropocene vediamo in azione molti attivisti: chi si occupa di proteggere le tigri in ambienti protetti, chi lavora per mettere al bando il commercio dell’avorio, chi si impegna perché vecchi villaggi non vengano distrutti per ampliare una miniera. Ma vediamo anche molte più persone orgogliosamente impegnate ad ampliare i confini della “tecnosfera”.
La soddisfazione di chi lavora nella cava di marmo a Carrara, da cui, da Michelangelo in avanti, sono usciti i materiali che hanno realizzato capolavori della storia mondiale, o delle metalmeccaniche delle grandi fabbriche di Norilsk, tra le città più inquinate al mondo, o dei lavoratori che estraggono nel deserto di Atacama il litio indispensabile per l’infrastruttura ultratecnologica mondiale, stona clamorosamente con la voce narrante che ci mette in guardia dalle conseguenze di tutto questa frenetica attività di “terraformazione”.

Cronaca di una catastrofe annunciata
Qualche indizio per risolvere questo mistero ce lo offre il saggio di Francesco D’Isa Gestire la morte che chiude la Trilogia della Catastrofe, collettanea di tre saggi edita da effequ a cui hanno partecipato, oltre a D’Isa, Emmanuela Carbé e Jacopo La Forgia. “Età della catastrofe” è d’altronde, potremmo dire, il miglior sinonimo di Antropocene, perché ciò che la caratterizza è, da un lato, la sesta estinzione di massa che minaccia circa la metà delle specie viventi sulla Terra a causa dell’azione umana, e dall’altra il rischio globale dei cambiamenti climatici e delle sue conseguenze sulla sopravvivenza della civiltà. Scrive D’Isa nell’incipit del suo saggio:

“Più o meno nell’anno in cui sono venuto al mondo, il 1980, alcune persone hanno deciso che era meglio procurare dei danni catastrofici a tutti coloro che sarebbero nati da lì in avanti piuttosto che tollerare un abbassamento del proprio stile di vita. Queste persone, molte delle quali sono ancora vive, hanno destinato le attuali e future generazioni a fame, guerre ed epidemie. Nel peggiore dei casi, i loro atti porteranno all’estinzione della nostra specie, nel migliore, a quella di innumerevoli specie animali e vegetali. Questi uomini e queste donne però non erano dei mostri, anzi, in larga parte si trattava di persone normali”.

Per spiegarlo, D’Isa ricorre all’esempio del fumatore. Tutti i fumatori sanno che la loro cattiva abitudine ne compromette in modo irreversibile la salute. In passato, questa certezza era stata nascosta dall’attivismo delle lobby del fumo, che per anni hanno cercato di insabbiare le numerosissime evidenze scientifiche di una correlazione tra fumo e patologie croniche e letali. Il celebre libro Mercanti di dubbi (2019) di Erik Conway e Naomi Oreskes ha evidenziato i collegamenti tra i negazionisti dei danni del fumo e i negazionisti dei cambiamenti climatici. Ma la riflessione di D’Isa è di altra natura: oggi che sappiamo quali sono gli effetti del fumo, e abbiamo pacchetti di sigarette che ce lo ricordano a caratteri cubitali e con immagini raccapriccianti, perché continuiamo a fumare? È la stessa domanda che ci poniamo sull’Antropocene: perché, oggi che la comunità scientifica è unanime nel riconoscere la correlazione tra antropizzazione e rischio estintivo, e gli effetti collaterali di questa situazione ci stanno già colpendo con violenza, continuiamo a non essere in grado di cambiare rotta?

 

Alcuni studiosi parlano di scotomizzazione del rischio (Gugg, 2013). Amitav Ghosh l’ha chiamata, più enfaticamente ma anche più efficacemente, “la grande cecità” (Ghosh, 2017). Di fronte all’evidenza del rischio che corriamo, qualcosa dentro di noi ci rende ciechi, distoglie il nostro sguardo dalla minaccia incombente, fino a generare una vera e propria rimozione del problema. La pandemia di Covid-19 ci fornisce un ottimo esempio di questo fenomeno. Molte persone hanno sottovalutato il rischio, nonostante i dati dicessero tutt’altro, perseguendo comportamenti irresponsabili, trasformandosi in vittime o diffusori del contagio, in base alla convinzione che ciascuno coltiva secondo cui le tragedie capitano sempre agli altri. Di fronte alle prime notizie della pandemia dalla Cina, chi mai, in un paesino bergamasco, avrebbe mai definito preoccupante una malattia che colpiva gli abitanti di una città dall’altra parte del mondo?
Nel giro di meno di due mesi, quella malattia faceva la sua comparsa nel paesino iniziando a mietere molte più vittime di quelle provocate in Cina. Chi l’avrebbe mai detto? Così è la nostra reazione di fronte agli uragani che spazzano via città remote, villaggi sommersi dalle acque, desertificazione di paesi africani, distruzione di foreste che non sapremmo localizzare su una carta geografica, estinzione di specie animali di cui ignoravamo l’esistenza. Finché arriva il momento in cui queste cose arrivano anche da noi.

Nel paese dei ciechi
Il documentario Antropocene non facilita molto, bisogna ammetterlo, questo riconoscimento della prossimità del rischio. Mostrandoci posti lontanissimi, mondi in cui non riusciamo a immedesimarci (una discarica in Nigeria, una miniera negli Urali, una fabbrica in Siberia, un deserto del Cile e via dicendo), spinge lo spettatore a credere che le conseguenze più drammatiche dell’Antropocene si verifichino molto lontano dalla sua poltrona e che occorreranno anni o decenni prima che si affaccino alla porta di casa. Magari, per allora, sarà morto, e al problema ci penseranno i suoi discendenti. D’altro canto, gli scenari dell’IPCC – l’organizzazione che si occupa di stimare gli scenari del cambiamento climatico – guardano al 2100, in un’epoca in cui anche pensare all’anno prossimo appare un esercizio di fantascienza, o di astrologia.
L’esperimento mentale che D’Isa ci suggerisce è di immaginare di ricevere da un medico la notizia di doverci sottoporre domani a una rischiosa ma indifferibile operazione chirurgica; poco dopo, il medico ci richiama per farci sapere che c’è stato un errore: l’operazione potrà essere rinviata tra vent’anni. Ovviamente, la sensazione dominante sarà quella del sollievo. Il fatalista pensa che tra vent’anni potrebbe essere morto per un’altra causa, o che per allora si troverà un modo di evitare l’operazione. Ma secondo l’autore, la vera ragione del sollievo è che noi non siamo in grado di immaginare il nostro sé tra vent’anni. L’identità, infatti, non sarebbe altro che una costruzione sociale: l’io di vent’anni fa non è l’io di oggi ed è certamente a sua volta molto diverso dal nostro io tra vent’anni nel futuro. Tra queste persone non ci sarebbe nessun autentico collegamento se non la “persistente illusione” dell’identità.

L’io presente è un io egoista. Nel momento presente, ciò che ci interessa di più è massimizzare i benefici e minimizzare i disagi. Se questo significa dover affrontare problemi in futuro, be’ non è un nostro problema. Se ne occuperà il nostro sé futuro. Non c’è nulla di sbagliato in questo atteggiamento: è il nostro istinto o, se vogliamo, la nostra programmazione genetica. Tutti gli animali fanno così. Certo, esistono animali che fanno scorte per l’inverno, ma lo fanno anche in questo caso per istinto o per programmazione genetica. Non hanno una reale capacità di anticipazione, cioè di immaginazione del rischio futuro (o delle potenzialità del futuro). Noi invece l’abbiamo, ma ce ne serviamo raramente. Spesso, anche quando lo facciamo, lo facciamo per egoismo: un tempo era comune avere molti figli per assicurarsi, in un’epoca di alta mortalità infantile, non solo una discendenza, ma braccia forti per lavorare la terra o portare avanti l’impresa di famiglia, a cui poi chiedere un sostegno nella vecchiaia. Questo fenomeno ha portato – nel momento in cui la mortalità infantile è crollata – a una sbalorditiva crescita della popolazione nel corso del secolo scorso, che è la principale causa dell’Antropocene. Se ci avessero detto di non fare tanti figli perché l’umanità, in futuro, ne avrebbe sofferto, difficilmente avremmo assecondato questo consiglio così astratto e posposto nel tempo. Oggi ci troviamo nella stessa situazione: chi di noi sarebbe disposto a rinunciare a uno smartphone per ridurre l’impatto ambientale della produzione di litio, necessario alle moderne batterie, come ci mostra il film Antropocene? Ben pochi: questo, dopotutto, è il progresso.

L’orizzonte e il precipizio
Il progresso è il modo in cui abbiamo imparato a immaginare il futuro nell’età moderna (Bury, 2018). In un certo senso, possiamo dire che nell’immaginario contemporaneo progresso e futuro siano sinonimi. Pensare che futuro possa essere sinonimo di catastrofe è un concetto controintuitivo. Ma l’Antropocene ci dice esattamente questo: alla fine di questa nuova epoca della storia del mondo, l’esito più probabile per noi è la catastrofe. D’Isa ci rivela a questo punto un paragone importante che abbiamo sotto gli occhi ma a cui raramente pensiamo: così come tutti sappiamo di dover morire, ma senza conoscere il come e soprattutto il quando, così il fatto che l’umanità sappia di poter rischiare l’estinzione non modifica il suo modo di procedere, esattamente come la nostra quotidianità non è quasi mai influenzata dalla nostra morte, nel senso che le azioni che svolgiamo non hanno quasi mai a che fare con il nostro tentativo di evitare la morte.

Nel suo saggio, D’Isa cerca di dimostrare il contrario, sostenendo che in realtà quasi tutto ciò che facciamo è inconsciamente il tentativo di prolungare la nostra esistenza in vita; ma che le cose non stiano così lo dimostra proprio il suo esempio iniziale: una persona che fuma compie diverse volte al giorno un gesto che probabilmente accorcerà la sua aspettativa di vita (e quasi sicuramente ridurrà i suoi anni di vita in buona salute). Non è la paura della morte, ma la sua impensabilità, a impedirci di pensare concetti come la catastrofe e l’Antropocene. Non sappiamo se gli animali sanno di dover morire. Forse alcuni, i più intelligenti tra loro; di sicuro non hanno ritualità legate alla morte, come invece gli esseri umani. Gli animali non-umani, quindi, non hanno una reale nozione del futuro.
Ciò che rende interessante i moderni esseri umani è invece il fatto di possedere la capacità di pensare il futuro e la morte, ma di connettere questi due concetti molto raramente. Quando pensiamo a come saremo in futuro, non pensiamo quasi mai al fatto che nel mentre potrebbe capitarci qualcosa, per cui il nostro futuro coinciderà con la morte. Analogamente, quando come umanità ragioniamo sul futuro, molto raramente immaginiamo che nel nostro percorso come civiltà possa capitarci di estrarre dall’urna del destino una “palla nera” (Bostrom, 2019), o che di fronte a noi si trovi un precipizio (Ord, 2020).

La lezione dell’Antropocene
Nelle conclusioni del suo saggio, Francesco D’Isa affronta il problema della mancanza di azione di fronte alla catastrofe dell’Antropocene introducendo il problema degli animali non-umani. Una delle ultime battute del film Antropocene è importante e rivelatoria. Il presidente del Kenya, in un discorso contro il traffico di avorio, dichiara che “l’avorio appartiene ai nostri elefanti”. È un’affermazione sorprendente. Come può qualcosa appartenere a un non-umano?

Questa stessa riflessione fu fatta in passato nei confronti degli schiavi e dei neri: loro non potevano possedere nulla, perché il possesso implica un diritto, e il diritto è proprio solo degli esseri umani. Schiavi e neri, fino a epoche molto recenti, non venivano considerati davvero tali. Affermare che l’avorio appartiene agli elefanti è una banalità (è dopotutto il materiale che compone le loro zanne), ma stabilisce anche un diritto che come esseri umani riconosciamo agli elefanti: l’avorio è vostro, non nostro. Non è nelle nostre disponibilità. Potremmo averlo, naturalmente, perché siamo molto più forti degli elefanti, siamo più forti di qualsiasi essere vivente su questo pianeta e possiamo fare quello che vogliamo. Ma ora non lo vogliamo più. Auto-limitiamo il nostro potere. Scrive D’Isa che:

“il potere della nostra specie è sproporzionato rispetto alla sua capacità gestionale. Quello di alcuni di noi, a sua volta, lo è rispetto a quello di tutti gli altri. La formula della catastrofe antropica è molto semplice: una specie in sovrannumero, troppo potere e poca capacità di gestirlo”.

Se questo è vero (e sicuramente è una delle più efficaci sintesi dell’Antropocene) allora la soluzione non può che passare per un’autolimitazione del nostro potere. Riconoscere che le altre specie viventi di questo pianeta possiedono dei diritti è il primo passo per uscire dall’Antropocene. D’altronde, come abbiamo visto, nessuna delle cose che ci rende diversi dagli animali – la capacità di anticipare il futuro, la cognizione del nostro destino mortale, la costruzione di un’identità che tiene insieme i nostri diversi sé – è utilizzata davvero fino in fondo da ciascuno di noi. Abbiamo dei doni che non sappiamo usare. Abbiamo un potere che non sappiamo gestire. Non abbiamo alcun diritto di considerarci superiori a nessuno, su questa Terra. È questa la lezione che dobbiamo apprendere dall’Antropocene, prima che sia troppo tardi.

Letture
  • Nick Bostrom, The Vulnerable World Hypothesis, Global Policy, vol. 10 n. 4, novembre 2019.
  • John Bury, Storia dell’idea di progresso, Feltrinelli, Milano, 1964.
  • Erik Conway, Naomi Oreskes, Mercanti di dubbi, Edizioni Ambiente, Milano, 2019.
  • Amitav Ghosh, La grande cecità, Neri Pozza, Vicenza, 2017.
  • Giovanni Gugg, All’ombra del Vulcano. Antropologia del rischio di un paese vesuviano, tesi di dottorato, Università di Napoli L’Orientale, 2013.
  • Toby Ord, The Precipice, Bloomsbury, Londra, 2020.