Sulla natura delle immagini:
la videoarte di Bill Viola

Alessandro Alfieri
Bill Viola
Trascendenze digitali
InSchibboleth Edizioni, 
Roma, 2025,
pp. 173, €14, 00

Alessandro Alfieri
Bill Viola
Trascendenze digitali
InSchibboleth Edizioni, 
Roma, 2025,
pp. 173, €14, 00


Se il cinema ha incarnato l’immaginario moderno del XX secolo, la videoarte ha incarnato la prospettiva fluida e dinamica della contemporaneità. È ormai sopravvissuta alla diffusione massiva della televisione e ha trasmigrato nel digitale e nella web culture, fino addirittura a influenzare media e settori lontani da quello d’origine. Studiarne oggi i classici è quindi importante proprio per questo. Possono aiutarci a comprendere linguaggi, stilemi ed estetiche ormai assorbite in quel ciclo vitale continuo in cui l’industria si nutre delle stesse esperienze artistiche a lei opposte. Per comprendere i contenuti audiovisivi di oggi, occorre indagare quelli sperimentati in passato.
Riconosciuto a livello internazionale come uno dei maestri della videoarte è sicuramente Bill Viola, artista di di origini italo-americane, nato a New York nel 1951 e scomparso il 12 luglio del 2024, autore di opere uniche, considerate a tutti gli effetti dei capolavori dell’arte contemporanea, frutto di una sperimentazione svolta in oltre quarant’anni partendo dallo studio della musica elettronica, dalle potenzialità della performance art e dai film sperimentali. Nella vastità della letteratura riservata a Bill Viola, l’ultimo testo di Alessandro Alfieri parte da questi assunti per analizzarne in modo sintetico e accurato gli aspetti più importanti. Bill Viola. Trascendenze digitali ha il merito di non limitarsi a una semplice analisi stilistica, ma di restituire il contesto storico e culturale in cui le opere si inseriscono, in modo da evidenziarne urgenza e necessità. Il video ha ormai superato, qui, la sua fase più pioneristica e cerca forse un uso più maturo e consapevole: tra le mani di Viola diviene uno strumento espressivo a disposizione del suo sguardo, in piena opposizione alla cultura del consumo e all’industria dello spettacolo. L’opposizione video-spettacolo è ovviamente problematica, dal momento che il video è fatto della stessa sostanza, prima elettronica e poi digitale, della televisione. Ma è proprio questa dicotomia apparentemente contraddittoria a restituire forza alle scelte di Viola. In questo senso, Viola, scrive Alfieri,

“ha sempre rifiutato la concezione della videoarte come esibizione trionfalistica della tecnologia fine a sé stessa, mettendo il video al servizio di dimensioni di significato che sono appartenute alla storia dell’arte e all’essere umano da sempre: la trascendenza, il mistero, il passaggio, lo spirito, il dolore, la rinascita”.

Viola riesce dunque a coniugare la grande tradizione dell’arte occidentale e la spiritualità tipicamente orientale con la sensibilità tecnologica contemporanea. Ma al centro della sua ricerca artistica è sempre l’uomo. È l’uomo l’oggetto dell’opera, ed è egli stesso a specchiarsi e riscoprirsi nella sua intimità e purezza. È proprio qui che la straordinaria iridescenza e fluidità del video si offre come strumento perfetto nella sua capacità forse controintuitiva di creare immobilità nel movimento. Il tratto stilistico più rappresentativo di Bill Viola, quello su cui anche Alfieri si sofferma di più, è proprio quello del ralenti. La riflessione di Alfieri fa riferimento esplicito al saggio Fra le immagini di Raymond Bellour, ricercatore, scrittore, direttore di ricerca Emerito presso il CNRS, studioso del cinema in tutte le sue forme. Riprendendo il pensiero di Roland Barthes, Bellour contrapponeva la frenesia del cinema all’immobilità della fotografia. Il cinema mancherebbe di riflessività e il suo spettatore, catturato dal continuo scorrere isterico delle immagini, non può che essere uno “spettatore frettoloso”. Il Cinema, dunque, mancherebbe di “pensosità”, ma riuscirebbe a pensarsi, afferma Bellour, attraverso l’incursione della fotografia o quella del video (cfr. Bellour, 2007). In entrambi i casi, il cinema attua una carrellata all’indietro: si allontana da sé stesso per vedersi meglio e spostare il suo significato dalla riproduzione mimetica del movimento alla produzione articolata del tempo. In questa operazione, ha trovato due elementi linguistici particolarmente proficui: il fermo-immagine e il ralenti. Attraverso questa sospensione del movimento, proprio nello scarto tra un fotogramma e l’altro, lo spettatore “frettoloso” del cinema diventerebbe “pensoso”.

The Raft (2004), video/sound installation. Foto di Kira Perov © Bill Viola Studio.

Alfieri ripropone concetti simili per spiegare le scelte videoartistiche di Viola. Così come per il cinema, l’incedere isterico e continuo del video può generare momenti di rivelazione proprio grazie alla sua sospensione. Alfieri la definisce anche come una sorta di tensione che spinge ogni forma d’arte a superare il proprio specifico. Tuttavia, come fa ben capire Alfieri, nel caso di Viola la scelta della dimensione sospesa non è solo un discorso teorico, ma una soluzione espressiva strettamente legata alla critica sociale e alla riscoperta individuale e collettiva. Rallentare e sospendere fino alla quasi fissità è un modo per creare una cassa di risonanza in cui lo spettatore possa riappropriarsi degli stati d’animo, dell’empatia e della solidarietà. Il video è chiaramente la soluzione più adatta a questa esigenza, perché a differenza del cinema garantisce la possibilità di dilatazione illimitata, per cui è possibile trarre ore di video da pochi istanti di registrazione. Si tratta di un uso del ralenti che evita ogni tipo di spettacolarizzazione, introducendo invece uno spazio di attesa e di tensione che ricorda il tempo sospeso della contemplazione. La ricerca di sospensione estrema porta ad alcune considerazioni che non possiamo percorrere per intero. In questa sede potrebbe essere opportuno citarne almeno due.

The Veiling, video/sound installation (1995). Foto di Kira Perov © Bill Viola Studio.

Innanzitutto, Alfieri apre un interessante dialogo con le riflessioni di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura. Ricordiamo che Benjamin riconduce l’età d’oro della fotografia al suo primo decennio, quando le lastre d’argento avevano bisogno di lunghi tempi d’esposizione per imprimere l’immagine, e l’assenza di un negativo non le rendeva davvero riproducibili. Proprio questi due elementi permettevano ai soggetti di vivere e respirare il momento nella sua durata e nella sua unicità, in modo da coglierne di conseguenza l’aura (cfr. Benjamin, 2014). Al contrario, la fotografia successiva avrebbe ridotto i tempi d’esposizione fino all’istantaneità e introdotto la possibilità di riproduzione. Partendo implicitamente dall’assunto che la dilatazione della durata permette al soggetto di respirare l’aura del momento, Alfieri assume che lo slow motion insistito di Bill Viola restituisca allo spettatore una densità percettiva tale da ricreare quella stessa sensazione e la possibilità di sintonizzarsi al meglio con ogni piccolo particolare altrimenti impercettibile delle espressioni umane. Attraverso questa esperienza percettiva, l’uomo condivide e si rispecchia nella propria interiorità e nel proprio pensiero. In secondo luogo, occorre quantomeno menzionare il profondo legame tra Viola e il buddhismo, su cui Alfieri si sofferma in modo molto dettagliato e preciso.

Da sinistra: Water Martyr, Earth Martyr, Fire Martyr, Air Martyr, video ad alta definizione su monitor piatti montati su muro (2014). Foto di Kira Perov © Bill Viola Studio.

In particolare, Viola è legato al buddhismo zen, della tradizione del Mahayana (dai termini sanscriti maha, “grande”, e yāna, “veicolo”, quindi “Grande veicolo”), ben distinta dalla tradizione indiana dell’Atmavada (che sostiene l’atman, ossia il concetto di sostanza). Il buddhismo del Mahayana, al contrario, sostiene l’assoluta negazione dell’atman, riconoscendo il reale solo come flusso in costante divenire. Non esiste dunque un soggetto immutabile, ma solo continuo movimento e il perpetuo fluire delle cose, la loro nascita, la loro morte, da cui il dolore dell’uomo, che vede per questo il suo desiderio (thana, sete, opposta invece alla sana aspirazione all’infinito secondo Raimon Panikkar) eternamente insoddisfatto (cfr. Pannikar, 2006). L’arte di Viola diventa allora una traduzione visiva di questo paradigma:

“l’insegnamento che Viola recepisce del buddhismo, e che intende trasmettere attraverso la sua arte delle immagini dinamiche, è proprio che il desiderio (thana) è fonte di sofferenza (dukkha) quando chi desidera non comprende fino in fondo che ogni condizione dell’esistenza è impermanente, fluida, transeunte, destinata al mutamento e perciò all’eliminazione”.

Proprio in quest’ottica, il rallentamento estremo delle immagini, al confine tra la staticità e il movimento, rivelano la tensione del divenire e l’impermanenza che attraversa ogni esperienza umana. In questo senso, la forma artistica della sua opera doppia i suoi principi e rende percepibile il mutamento, permettendo la condivisione e il sentire della condizione umana attraverso quella che Alfieri, riprendendo un concetto di Gilles Deleuze, definisce immagine-affezione: la terza varietà di immagine-movimento, ossia quando il movimento dell’immagine “diventa movimento di espressione” (Deleuze, 2006) e l’immagine agisce sul corpo dello spettatore che ne può sentire l’esperienza pura delle cose in quanto loro stesse. Trascendenze digitali è un testo che riesce a intrecciare analisi estetica, riferimenti filosofici e approfondimenti storico-artistici. Alfieri restituisce la densità di un artista che, operando con uno strumento tecnologico come il video – e anzi proprio grazie a esso –, mira a riscoprire il senso più profondo dell’esperienza umana, collocandola al crocevia tra spiritualità, tecnica e natura. L’immagine diviene veicolo di meditazione e trascendenza.

Letture
  • Raymond Bellour, Fra le immagini, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
  • Walter Benjamin, Breve storia della fotografia, Passigli Editori, Firenze 2014.
  • Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino, 2006.
  • Raimon Pannikar, Il silenzio di Buddha. Un ateismo religioso, Mondadori, Milano, 2006.