Dopo esserci deliziati con le intriganti e visionarie atmosfere del tentetto di John Surman, eccoci di nuovo immersi nelle mirabolanti musiche prodotte da quella scena, il jazz inglese, che continua a sorprendere per l’alta qualità e quantità, frutto di un’epoca probabilmente irripetibile ma comunque ancora fruttuosa e vitale, ricca di spunti e idee affatto attuali. Il merito, questa volta, è dell’etichetta discografica Cherry Red che ha pubblicato una selezione di ben quarantotto brani distribuiti su tre compact disc dedicata interamente al British Jazz: A New Awakening – Adventures In British Jazz 1966 – 1971.
Il solo elenco dei nomi è sorprendente perché, accanto a esponenti noti quali John McLaughlin, Kenny Wheeler, Surman, Don Rendell, Ian Carr e i suoi Nucleus, Graham Collier, Mike Westbrook, ci sono musicisti e gruppi che solitamente sono stati incasellati in generi differenti, quali ad esempio Pentangle, If, Colosseum, Jethro Tull, Spooky Tooth, e che a prima vista danno un senso di eterogeneità, di calderone onnicomprensivo privo di direzione. Invece l’operazione portata avanti dai curatori della compilation Colin Harper e Jon Harrington con l’introduzione di Duncan Henning (autore del bellissimo libro Trad Dads, Dirty Boppers And Free Fusioners: British Jazz 1960-1975) e le biografie dei musicisti coinvolti nonché le note di ogni singolo brano a cura della giornalista di MOJO Lois Wilson, in realtà conduce a un primo risultato immediato, confortato indubbiamente dalla attenta e accurata scelta musicale: il disincagliamento dalla rigida conformazione per generi portata avanti dal mercato e dalla critica musicale più o meno agli inizi degli anni Settanta e la riunificazione in un solo grande e creativo agglomerato di musiche in stretto rapporto con le dinamiche conflittuali e anticonvenzionali della società inglese e, in generale, con i fenomeni di ribellione e rinnovamento presenti a livello mondiale nella seconda metà degli anni Sessanta.
I Nucleus nel 1971. Da sinistra: Ray Russell, Ian Carr, Brian Smith, Karl Jenkins, John Marshall e Roy Babbington.
A questo va aggiunto, per quanto riguarda la scena jazz britannica, il profondo rapporto con il blues instillato agli inizi di quel decennio dall’intensa attività concenrtistica di molti bluesman americani, allora poco considerati in patria, e che produrrà germogli in ogni dove, dalle formazioni di Alexis Korner e John Mayall al rock dei Rolling Stones e di tante altre formazioni della cosiddetta British Invasion, alla psichedelia dei primi Pink Floyd, per l’appunto al jazz. La compilation evidenzia mirabilmente quanto quella forma musicale afroamericana abbia influenzato una miriade di musicisti: non è soltanto la gemma cooderiana Binky’s Beam (dal capolavoro Extrapolation, del 1969) di John McLaughlin a portare il segno e l’ispirazione della musica del diavolo, ma anche l’ipnotico rock blues con intermezzi orchestrali e fiati liberi di Sharing (da Satisfaction, del 1970), dei Satisfaction del trombettista Mike Cotton, autori di due pregevoli album (l’eponimo e un secondo lavoro pubblicato però solo nel 2014, Three Ages Of Man), o l’incalzante ed elaborata Keep Off The Grass (da Electric City, sempre del 1970) dei Bob Downes Open Music, progetto musicale del geniale flautista Bob Downes, (chiaramente ispirato da Roland Kirk), con Chris Spedding alla chitarra.
Il blues scorre anche nei seducenti brani soul jazz rispettivamente del quartetto del sassofonista Dick Morrissey (Storm Warning, dall’album con il medesimo titolo del 1966), del flautista Harold McNair (The Hipster, dall’album a suo nome del 1968), del quartetto del compositore e arrangiatore John Cameron con all’interno sempre il brillante McNair (Troublemaker, da Off Centre del 1969) e persino il leggendario Mike Westbrook, con A Greeting (da Celebration, del 1967, a nome The Mike Westbrook Concert Band) elabora a suo modo, raffinato e colto, un brano dai medesimi sapori. Ovviamente le varie declinazioni funky e rhythm’n’blues sono preda di Brian Auger & The Trinity e Brian Auger’s Oblivion Express, con, rispettivamente, la sanguigna rilettura di Maiden Voyage di Herbie Hancock (da Befour del 1970) e Dragon Song (da ‘70 Super Pop Montreux), della Graham Bond Organization con l’irresistibile Wade In The Water (da Live At Klooks Klee registrato nel 1964), esaltata da un intro e un finale solenni e classicheggianti, ma anche dai misconosciuti Affinity, band jazz rock attiva tra il 1968 e il 1972, autori di un solo album ufficiale, Affinity, pubblicato nel 1970 dalla Vertigo e in questa compilation presenti con A Day In The Life (Live At Ronnie Scott’s), nella ristampa dell’album Affinity con 4 cd del 2021, una compassata song caratterizzata dalle sonorità dell’organo Hammond. Da segnalare che la cantante, Linda Hoyle, conclusasi l’avventura degli Affinity realizzò un album nel segno del blues, Pieces of Me, per il quale vennero coinvolti diversi membri dei Nucleus.
Particolare rilievo viene dato, nei tre cd, al classico jazz rock di stampo britannico; naturalmente i fondamentali Nucleus di Elastic Rock (dall’album eponimo, 1970) e Song For The Bearded Lady (dal successivo We’ll Talk About It Later, 1971), ma anche i Trifle del vocalist George Bean, un jazz rock psichedelico con la classica sezione fiati a tratteggiare un tema elaborato seguito da i soli di Hammond e tromba (Is It Loud, da First Meeting, 1971), e Michael Gibbs, compositore, arrangiatore, produttore nonché trombonista e tastierista, a fianco di Graham Collier e, negli anni successivi di Jaco Pastorius, Joni Mitchell, Peter Gabriel tra i tanti, che con Some Echoes, Some Shadows (For John Dankworth), da Mike Gibbs, del 1970, elabora un articolato e penetrante tema suonato dai fiati, preceduto da un’introduzione caratterizzata da un tenebroso violoncello ed un finale totalmente inaspettato. Come si accennava sopra, però, è insolito l’inserimento di gruppi quali Jethro Tull, Spooky Tooth, Pentangle, If. Eppure, One For John Gee (dal loro primo album This Was, del 1968) vede i Jethro Tull di Ian Anderson e, all’epoca, del chitarrista Mick Abrahams (che firma il brano) alle prese con un blues dalle movenze da spy story e il flauto, ovviamente, in bella evidenza, così come i Pentangle brillare nella loro originale mistura di folk, jazz e blues con In Time da uno dei loro capolavori, Sweet Child, del 1968. E sulla loro stessa onda sicuramente singolare e stravagante è la celeberrima Watermelon Man di Herbie hancock riletta del chitarrista folk Davy Graham (da Midnight Man del 1966, ora nel box He Moved Through The Fair – The Complete 1960s Recordings).
Autentica perla della compilation è lo strumentale Luger’s Groove (lato B di un 45 – side A: Love Really Changed Me), un energico e intenso jazz rock degli Spooky Tooth, un gruppo a cavallo tra psichedelia e prodromi hard rock, all’epoca ingiustamente sottovalutato: un serrato dialogo tra chitarra e Hammond supportato da una ritmica elettrizzante e un pianoforte a caricare ancora di più la tensione narrativa. Altrettanto esaltante e incalzante è Those About To Die (da Those Who Are About To Die Salute You, 1969) dei pionieri del prog a tinte jazz rock Colosseum, mentre gli If del fiatista Dick Morrissey mostrano tutta la loro maestria di autentici fuoriclasse jazz in What Did I Say About The Box, Jack (da If, 1970), jazz rock di alta levatura, e in Seldom Seen Sam (da If 3, 1971), disorientante ed ironico funky. Pura psichedelia, solare e sognante, è la Julie Driscoll di A New Awakening, dalla sua opera maestra 1969, album uscito nel 1971 e con all’interno una buona parte della scena jazz inglese, Keith Tippett, Elton Dean, Chris Spedding, Karl Jenkins, Marc Charig e via di seguito; correttamente, dà il titolo a questa compilation.
Rimane da segnalare la parte più incline ad un jazz influenzato dal free e dall’improvvisazione libera, che proprio in Inghilterra ebbe un notevole sviluppo a partire dagli inizi degli anni Sessanta: il The Trio di John Surman, Barre Philips e Stu Martin, con la misteriosa e scura Joachim (da The Trio, 1970), il quintetto di John McLaughlin, John Surman, Karl Berger, Dave Holland e Stu Martin, autori di un brano impressionista, attraversato da correnti elettriche e pervaso da un senso di morbidezza (Earth Bound Hearts da Where Fortune Smiles, 1971), la third stream della New Jazz Orchestra diretta da Neil Ardley (Angle da Le Déjeuner Sur L’Herbe, 1969), sorta di who’s who del British Jazz, e l’incredibile Voodoo Forest (da Patent Pending, 1969) del sassofonista Johnny Almond, a lungo a fianco di John Mayall e qui, con i suoi Music Machine, in un brano nettamente floydiano, con il clarinetto basso a disegnare tenebrose linee improvvisate; un’altra delizia della compilation. Non poteva non mancare, in questa sotto area, l’intenso e indimenticabile Mike Osborne, in una So It Is (Edit), da Outback del 1970, passionale e commovente che chiude adeguatamente la compilation. Vanno ancora segnalate, in questa per forza di cose sommaria disamina, le presenze di Kenny Wheleer, Manfred Mann, The Don Rendell-Ian Carr Quintet, Tubby Hayes Quartet, l’etno jazz del Joe Harriott Double Quintet, l’Orchestra di John Danworth, il Graham Collier Sextet, Manfred Mann Chapter Three, Ray Russell Quartet, John Taylor, il beat dei Jasper, il clavicembalo dei Wynder K. Frogg di Mick Weaver, ovviamente Chris Spedding, , lo spiritual alieno del Garrick’s Fairground e il Michael Garrick Septet, il Mike Taylor Trio e il rhythm’n’blues funkeggiante di George Fame. L’ultimo nome è il musicista forse simbolo di questa dissolvenza di generi, autentico mattatore a suo agio in ogni ambito: Jack Bruce, in Over The Cliff (da Things We Like, 1970) al contrabbasso, con Jon Hiseman alla batteria, Dick Heckstall-Smith al sax (i Colosseum!) e John McLaughlin alla chitarra, ma non presente nel brano. Un jazz dalle parti di Ornette Coleman, un contrabbasso stellare, un livello assoluto di empatia e creatività.
Improvvisazione e innovazione
Alla base di questa compilation c’è l’esigenza di documentare il poderoso mutamento avvenuto in ambito jazzistico, e non solo, in Gran Bretagna. Dagli esordi imitativi del modello americano ad una rivoluzione avvenuta in pochissimi anni e che ha portato i musicisti inglesi a configurare un proprio originale sguardo sul mondo delle musiche di derivazione afroamericana a partire dal blues, ma intrecciato alle diverse suggestioni presenti in Inghilterra negli anni Sessanta. Il terreno comune nel quale i gruppi e i musicisti si ritrovano è l’improvvisazione, declinata in differenti modelli, e che attraversa impetuosa tutti i brani presenti in questo lavoro. Allo stesso tempo c’è una ricerca della composizione, dell’elaborazione tematica, dell’arrangiamento e la contiguità con il mondo del rock, in molti casi una vera e propria competizione, agevola e ispira le differenti mutazioni. Un caleidoscopio musicale così ricco da produrre un universo singolare e differente dal modello di partenza: soprattutto, l’apertura mentale e il continuo intrecciarsi tra storie solo apparentemente differenti, e che invece trovavano proprio nella sperimentazione e nell’afflato improvvisativo il loro trait d’union, tanto da poter affermare che in questi tre cd tutto sommato, non sarebbero stati così fuori posto Alexis Korner e John Mayall, i Rolling Stones di Their Satanic Majesties Request, o i Pink Floyd di The Piper At The Gates Of Dawn, o persino gli Who di The Who Sell Out, così come l’intera scuola di Canterbury.
Questa volontà di mutare e trasformare i modelli americani deve molto anche ai Beatles di Revolver e Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band che, per quanto non avvezzi all’improvvisazione strumentale, nondimeno segnarono in maniera consistente l’approccio innovativo e sperimentale allo studio di registrazione che divenne a tutti gli effetti il mezzo per espandere i confini. Pur in presenza di alcune ingenuità, mezzi passi falsi, formule che risentono in parte dello scorrere del tempo, la qualità musicale generale espressa in questo corposo lavoro rappresenta uno stimolo per i tempi attuali, proprio per la capacità di far propri modelli altrui e rigenerarne l’espressività e le forme con un approccio e modalità originali. Resta da dire che l’esperienza britannica tutta, dal rock al folk al jazz, è stata di una ricchezza assoluta: guardando con gli occhi (e le orecchie) di oggi, sembra veramente una sorta di miracolo che in pochi anni un territorio non certo paragonabile agli Stati Uniti sia stato in grado di produrre così tanta musica di qualità. Tanto da ripeterci, dovremmo considerare unitariamente, nel suo complesso, le diverse espressioni stilistiche prodotte in quel periodo perché espressione diretta, sintesi culturale di quel vasto movimento di rinnovamento sociale, politico e intellettuale attivo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. È uno dei grandi meriti che ha questa A New Awakening – Adventures In British Jazz 1966-1971.
- Duncan Heining, Trad Dads, Dirty Boppers and Free Fusioners. British Jazz 1960-1975, Equinox Publishing Ltd. Sheffield, 2012.

