Destini incrociati a galla
tra onde pazze verdi e blu

Virginia Woolf, Lytton Strachey
Ti basta l’Atlantico?
Lettere 1906-1931
A cura di Chiara Valerio
e Alessandro Giammei

Nottempo, Milano, 2021
pp. 276, € 17,00

Virginia Woolf, Lytton Strachey
Ti basta l’Atlantico?
Lettere 1906-1931
A cura di Chiara Valerio
e Alessandro Giammei

Nottempo, Milano, 2021
pp. 276, € 17,00


“Le donne non sanno dipingere, non sanno scrivere” (Woolf, 2014). In Gita al faro di Virginia Woolf la cocente provocazione del personaggio di Charles Transley suggerisce alla giovane Lily Briscoe di abbandonare gli indugi del pennello e concedere l’ultimo tocco alla sua tela, dopo dieci anni. Tra le onde pazze verdi e blu, ecco finalmente prendere forma il faro, intravisto solo per ipotesi sussurrate e desideri sotterranei da troppe altre donne prima della stessa Lily. Perché in Lily prende espressione la protesta e la rivalsa di Virginia Woolf, verso il controtempo maschile e i suoi argini da primo Novecento.
Gli uomini, però, non sono tutti uguali. E Virginia ha la fortuna di conoscere e riconoscere la bontà di questo intercalare, a cui si appella e si tiene da sempre la consolazione un po’ visionaria di noi donne.
Ne è la prova Ti basta l’Atlantico? Lettere 1906-1931, traduzione italiana dello scambio epistolare tra la Woolf e Lytton Strachey, scrittore britannico, qualcosa in più di un amico, di un confidente, di un complice, qualcosa in più di un uomo.
Traduzione italiana che viene ad essere carteggio nel carteggio, se Chiara Valerio e Alessandro Giammei, i curatori, hanno realmente sperimentato parole e date da reinterpretare a distanza di un oceano, l’Atlantico per l’appunto, e tra le ondate di una pandemia senza riva di questo ultimo anno. Unica cambusa, scriversi. Infinito un po’ reciproco, un po’ riflessivo. Perché scrivere a qualcuno è sempre uno scrivere dapprima a sé, dare un colore a verità riposte nei propri angoli. Soprattutto quando ci si accosta a personalità così inquiete, così queer, per definizione dello stesso Giammei, vissute tra le due guerre più memorabili. Nella pubblicazione di nottetempo, quattro voci, due secoli, due donne, due uomini, nel bel mezzo di due eventi ugualmente deflagranti, un conflitto mondiale e una pandemia, riconoscono alla scrittura la possibilità di vedersi.

Portrait of Lytton Strachey (1916) di Dora Carrington, olio su tavola; Virginia Woolf (particolare) di Christiaan Tonnis, olio su tela (1998).

Il “Gentile signor Strachey” della prima lettera, anno 1906, si trasforma in “Caro Lytton”, nella seconda lettera, anno 1908. Qualcosa è intercorso tra la Londra del 46 di Gordon Square e la Cornovaglia di St. Ives. Non è solo un cambio di indirizzo del mittente, quello di Virginia, ma è la direzione di un sentire sempre più intimo verso persone, esperienze, letture, scritture, emozioni, cicatrici, lirismi alieni ai più. Sì, perché tra Virginia e Lytton si invera quella impercettibile analogia di vedute e confronti, che riesce quasi mistica laddove sfiora l’identità. Qualcosa è intercorso, difatti, tra quelle due date.
Leslie Stephen muore una decina di anni dopo la moglie Julia, lasciando otto figli, di cui solo quattro nati dal loro matrimonio, Vanessa, Thoby, Virginia, Adrian. Dopo la scomparsa del padre, Vanessa si incarica di restituire autonomia ai suoi fratelli rispetto ai fratellastri e alle loro attenzioni insane verso di lei e sua sorella. Decide di traslocare a Bloomsbury, centralissimo quartiere londinese, tra pareti bianche, porcellane azzurre, un salone al primo piano e una stanza per ciascuno ai piani superiori. Quel cambio casa è qualcosa in più di uno spazio inedito. Per Virginia Stephen, poi Woolf, è una vita finalmente senza ombre, nell’intervallo tra gli anni contorti di una madre persa troppo presto, di un padre dalla parola avara, di laceranti consorterie tra fratelli e fratellastri, rispetto alle successive crisi depressive per eccesso di memoria o, forse, di assenza.
Nell’ampio soggiorno della nuova dimora Thoby presenta alle sorelle Lytton Strachey, Clive Bell, futuro marito di Vanessa, Leonard Woolf, futuro marito di Virginia, insieme ad altri neolaureati a Cambridge. Nasce il Bloomsbury Set, un gruppo di giovani intellettuali richiamati da conversazioni problematiche su arte, letteratura, economia, attualità, nella prospettiva di una nuova dirompente etica. Se la prima guerra mondiale distruggeva, tanto valeva diluirvi dentro tutto l’orrore possibile. Ecco cosa è intercorso tra la prima e la seconda lettera dell’epistolario. Lytton è decisamente un apripista.

“Fino a che punto sono un uomo? Si chiedeva lui stesso. Riconosceva però di essere bravo – una bravura in fondo virile. Perché pur sempre di un’arte di conquista si trattava – nell’affascinare i ragazzi” (Fusini, 2021).

I confini sono elastici in quel gruppo e, con la grazia capricciosa di una donna, Lytton ama uomini dall’animo pieno. A Bloomsbury ciascuno ama come sente, senza inchini alle categorie consuete, piuttosto nella transitorietà di “essere una donna maschile e un uomo femminile” (Woolf, 2013). In quel salotto vittoriano, tra nugoli di fumo e aroma di caffè, Virginia e Vanessa si avviano finalmente a un confronto paritetico con gli uomini, loro che pure erano state escluse dal percorso di studi regolare, se non fosse stato per l’accesso alla biblioteca paterna. Viceversa, tra questi ragazzi un po’ fuori norma, anche le sorelle Stephen si svelano donne di pensiero e non semplicemente da balli, trine e fiori tra le mani. Un’energia rara in epoca vittoriana, disapprovata da molti, o proprio da tutti, per la stravaganza di quelle serate a piantare valori diversi nelle proprie vite, piuttosto che puntare sull’unica predilezione allora riconosciuta a una donna, un marito a cui accordare favori.

“In quella strana genia di artisti e scrittori omosessuali e lesbiche e depressi e isteriche, che sono i suoi amici, Virginia non si sentì sola […] erano più o meno tutti, come lei, degli «incurabili»” (ibidem).

Un’intelligenza delicata vive sempre un sovraccarico di follia. Virginia, ammalatasi la prima volta alla scomparsa della madre, questo lo sa. Lytton, pure. Lo strano sentire di entrambi li porta a ricercare nel loro scambio di lettere un’etichetta di appartenenza, a cui il mondo sa dare solo lo statuto imbarazzato di ‘stranezza’. Per Virginia, Lytton rappresenta “una stanza tutta per sé”, uno dei pochi con cui non doversi definire per privazione ma per addizione.
“Ti basta l’Atlantico?”, le chiede lui. No, non può bastare a una donna mai paga delle risposte di lui, delle sue frase aperte e non sottili, di qualsiasi promessa che lui le fa a non andare via. Tanto che lei stessa avrebbe voluto sposarlo, un po’ per scherzo, un po’ sul serio, un po’ per sfida a tutto il resto. Quel resto, fuori dalla stanza. Lui si preoccupa della grafia incerta di Virginia, le confessa di sentirsi solo, di percepire il tempo intollerabilmente distante quando le parole di lei sfumano nella lentezza di risposte. Nel suo soggiorno in Sussex Lytton risente dello sconforto di conversazioni pallide su argomenti fuori traccia per lui. “La mia visione della razza umana si fa assai tetra quando considero il fatto che vari individui persino più stupidi dovranno pur esserci al mondo”, a cui fa seguito l’implorazione fiduciosa

“Se puoi, scrivimi una lettera enorme piena di racconti entusiasmanti e profonde riflessioni sulla vita umana […] Persino un quarto di pagina sarebbe un’oasi nella mia desolazione”.

Confida nel proteggersi a vicenda in “questo mondo così difficile da sopportare”, al punto che nella lettera del 6 giugno 1912 i loro due nomi si prestano all’annuncio di un fidanzamento, seguito dall’ironia di un “ha! ha!”. Una garanzia di elezione fuori ordine, quale unica possibile per due così. Lui innamorato di voci profondamente maschili, lei di uomini che la riconoscano come puro pensiero, senza quel corpo violato dai fratellastri in giovane età. E le parti ora si invertono ora si accavallano. Presto è Virginia Woolf a vivere l’ossessione della risposta, a scrivere per suggerirne o sollecitarne una più presta, a chiedersi la ragione o di ritardi o di brevità o di distanze. Lui smorza le accensioni della sua ansia con l’ironia del “proprio tu, se non altri, sarai capace di tout comprendre et tout pardonner”. Penna in mano, inchiostro fresco, l’impulso di un “per favore scrivi”, e Virginia guadagna il vezzeggiativo di “Santa Beatrice” nell’inferno tutto umano del sempre suo Lytton. Rimedia una poesia dagli echi petrarcheschi, la mezza misura dello scherzo pur nel tormento. Come “un caso senza speranza” lui la deride laddove solo “una lettera del grande maestro di biografie” potrebbe sciogliere il mal di cuore di lei.

Tra strette e intervalli, quell’arte di scrivere lettere si rivela fatalità e dannazione per chi aspetta tra le mani carta e parole dell’unico che ci somigli almeno un (bel) po’. Lei legge le poesie di lui e si sente “pura”, lui la immagina in Italia correre tra filari di ulivi. Loro si giurano di essere diversi dai convenevoli inviperiti delle feste, dal vizio delle apparenze, dal patetismo dei commenti sotto voce, dall’insofferenza verso Ottoline, Katherine, Jack, e tutto un seguito di imperdonabili altri. Resta volare tra letture condivise. I greci incomprensibilmente salvifici, i passaggi prodigiosi di Fëdor Dostoevskij, le penitenziali righe dell’Ulisse di James Joyce, i suggerimenti generosi e reciproci sugli scritti dell’una e dell’altro. Fino alla lettera di chiusura. Lei racconta di un sogno tra i raggi lividi del sole di dicembre, uno sguardo ricambiato dall’ombra di lui, l’impulso a ridere, ridere, ridere fino a chiedersi se sia più vita quella ad occhi chiusi di quella ad occhi aperti. Una risposta qui mai ricevuta. Perché, mentre Virginia Woolf si prefigurava l’arrivo dell’amico nel tempo dei tulipani rossi, Lytton si ammala di cancro e quella lettera mai la leggerà. Il dialogo muta in monologo. Virginia Woolf resiste una decina di anni.
Resiste con la pazienza di un marito che sa capire e reagire. Resiste scrivendo, affermandosi tra i grandi del suo secolo, difendendo il progetto della Hogarth Press, la realtà editoriale che Leonard progetta per risollevarla dalle sue crisi. Resiste ai bombardamenti, alle fughe, alle croci di chi va, alle preghiere lente di chi resta. Poi, basta.

È il 28 marzo del 1941. Ancora una lettera, stavolta per il marito, con le scuse per questa ricerca di una pace ad occhi chiusi. Il coraggio di aver raggiunto un faro, purtroppo non basta. Il colore dell’Atlantico, neppure.
Ore 11,40. Sassi nelle tasche, la riva del fiume Ouse, un piede nell’acqua, poi l’altro, qualche tulipano rosso già nei prati. Inspira, silenzio, espira, silenzio, inspira, silenzio, espira, luce fioca. Inspira, silenzio, giù.

Letture
  • Nadia Fusini, Possiedo la mia anima, Feltrinelli, Milano, 2021.
  • Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, Feltrinelli, Milano, 2013.
  • Virginia Woolf, Gita al faro, Feltrinelli, Milano, 2014.