Ritratto di una rivoluzione,
quella musicale del free jazz

Val Wilmer
La musica.
Importante
quanto la tua stessa vita.
La rivoluzione del free jazz
e della black music
Introduzione di Richard Williams

Traduzione di Claudio Mapelli
Shake Edizioni, Milano, 2024
pp. 440, € 25,00

 

Val Wilmer
La musica.
Importante
quanto la tua stessa vita.
La rivoluzione del free jazz
e della black music
Introduzione di Richard Williams

Traduzione di Claudio Mapelli
Shake Edizioni, Milano, 2024
pp. 440, € 25,00

 


Con il consueto, cronico, ritardo italiano, questa volta di soli, si fa per dire, quarantasette anni, e amputato delle bellissime foto presenti nell’edizione originale, esce per la Shake Edizioni (alla quale comunque va dato ampio merito per quest’operazione) La musica. Importante quanto la tua stessa vita, della fotografa, giornalista e critica inglese Val Wilmer. Nata nello Yorkshire il 7 dicembre del 1941, la Wilmer si è appassionata fin da giovane al jazz, e alla musica afroamericana in generale, iniziando presto a scrivere articoli, recensioni, e intervistando un gran numero di musicisti, stabilendo con molti di loro un contatto franco, sincero, e riuscendo a sviscerarne particolarità, passioni, segreti e difficoltà. Altrettanto importante è stata la sua attività di fotografa che l’ha portata a esporre molte delle sue foto al Victoria And Albert Museum, ritraendo nel corso degli anni i musicisti più importanti della scena jazz (e non solo), integrando con immagini di altissimo livello la sua attività di critica e giornalista. Questa breve introduzione solo per dire dell’importanza del personaggio, e della grave lacuna che il nostro paese ha avuto nel corso di tutti questi anni (e continua ad avere), passati senza avere non solo la traduzione di questo suo bel libro ma anche di altri, primi fra tutti Jazz People, del 1970, The face of black music, del 1976, nonché la sua autobiografia, Mama Said There’d Be Days Like This: My Life in the Jazz World, uscita nel 1989. Attendiamo fiduciosi.  La musica. Importante quanto la tua stessa vita è libro fondamentale, non solo per gli appassionati di jazz ma anche per un pubblico più ampio perché indaga su vari livelli la scena degli anni Settanta, approfondendo una serie di aspetti spesso trascurati da altri libri e riuscendo a mantenere una narrazione appassionata e allo stesso tempo rigorosa, facendo parlare i musicisti in prima persona e fornendogli un quadro storico e sociale di indubbio valore.

La dimensione collettiva
Un primo aspetto di fondamentale importanza del libro è la sua visione politica, che certo risente del clima di quegli anni ma che proprio per questo assume un valore significativo e, finalmente diremmo, dà una lettura complessiva della rivoluzione del free jazz sottolineandone la portata collettiva, le difficoltà del rapporto con la comunità afroamericana, le lotte contro la discriminazione razziale e il music business, intrecciata all’ aspetto artistico e musicale, al rapporto e alle connessioni con la tradizione.

“Il coinvolgimento nel concetto di musica collettiva è profondo in Harper (Billy Harper, sassofonista afroamericano nato a Houston, Texas, nel 1943, nda), perché è convinto che sia l’unico modo che hanno i musicisti per cambiare la loro situazione – «soprattutto quelli neri, ecco, perché sono loro quelli che muoiono di fame» –”.

Val Wilmer, nell’ultima parte del libro, dà ampio spazio a tutte quelle forme di azione e organizzazione collettiva intraprese in gran parte dai musicisti neri, non solo per contrastare la crescente emarginazione dell’area più creativa del jazz statunitense, ma anche come forma di lotta, di educazione, di collaborazione. È una dimensione che spesso viene trattata en passant nelle narrazioni jazz, quasi fosse, il musicista, una sorta di monade, poco o nulla influenzato dalle dinamiche sociali e politiche. E invece la Wilmer ne dà un resoconto appassionato, spesso affidato alle voci dei protagonisti, e non nascondendo le difficoltà e le contraddizioni di un certo modo di agire. Dal gruppo Black Arts di Amiri Baraka, al Jazz and People Movement messo in piedi da Rahsaan Roland Kirk, al Collective Black Artists di New York guidato dal bassista Reggie Workman, all’AACM di Chicago, passando per il Black Artist Group di St. Louis e per il progetto a fini educativi per giovani studenti finanziato dall’Harlem Community Council, il Jazzmobile Workshop, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta è tutto un fiorire di organizzazioni collettive di musicisti che travalicano l’aspetto individualista spesso connaturato all’attività del musicista jazz, inquadrando l’attività artistica in un contesto più ampio, con l’attenzione certo alle difficoltà di ingaggio e di sopravvivenza, ma anche in rapporto alle condizioni politiche e sociali  della comunità di riferimento. E certo non può non essere evidenziato come questa problematica risulti attualissima, fornendo però allo stesso tempo un esempio di risposta concreta in un mondo a realismo capitalista tutto improntato alla competizione, alla autopromozione, alla espunzione del carattere sociale dell’arte in favore di una dimensione assolutamente individualista confinata nel raggiungimento a tutti i costi del proprio sogno, e nell’autocolpevolizzazione in caso (estremamente probabile) di mancato successo.

“In passato tra i musicisti c’era sì un cameratismo da bar ma tendevano a essere reticenti riguardo al lavoro. Non raccontavano notizie delle proprie attività per evitare l’eventualità di perdere i loro contatti personali nel campo del lavoro. La tendenza ad “accaparrarsi gli ingaggi” attualmente è ancora diffusa tra i musicisti che difettano di spirito comunitario, ma le cose stanno cambiando verso un modo di pensare più collettivo”.

Purtroppo, in questo caso, le parole della Wilmer non sono state profetiche.

Lo sguardo femminista
Altro aspetto importante del libro della Wilmer è la sua attenzione al ruolo della donna in ambito musicale, soprattutto nel jazz. Oltre a sottolineare il contributo fondamentale di musiciste quali Alice Coltrane, Melba Liston, Mary Lou Williams, Fontella Bass, e di tante altre ancor più sottovalutate e sottaciute nelle storie e nei libri sul jazz, l’autrice non nasconde le contraddizioni nell’area della nuova musica, il maschilismo ancora persistente (e purtroppo ancora presente) da parte dei musicisti afroamericani (ma non solo ovviamente) nonostante il loro schierarsi contro le discriminazioni razziali o le loro battaglie contro l’establishment e contro le politiche statali.

“È in aumento il numero delle donne – bianche e nere – che prendono in mano uno strumento e si mettono a suonare, ma il pregiudizio contro di loro persiste. Per quanto possa essere grande il loro talento, questa discriminazione è più pronunciata nel cosiddetto jazz che nel rock”.

La contraddizione uomo-donna trascende le identità e il colore della pelle, uniformando in questo sia le esperienze delle musiciste bianche che di quelle nere. Per quest’ultime, all’oppressione di classe e di colore si aggiunge l’oppressione di genere, anche se, secondo la Wilmer, una serie di atteggiamenti da parte del maschio nero che si configurano in una sorta di generico rispetto per la donna nera, fanno sì che la posizione della musicista bianca sia leggermente peggiore. Il prezioso capitolo significativamente intitolato Suoni bene, per essere una donna! mostra le difficoltà delle musiciste soprattutto in ambito jazz nell’essere realmente considerate per la loro arte e non per il loro ruolo o il loro sesso, e nonostante questi ostacoli farsi comunque strada con forza e abnegazione, in una lotta che devono condurre a più livelli, dalla dimensione più propriamente politica e sociale, a quella personale e famigliare. La pressione sulla donna nera per irregimentarla nel ruolo esclusivo di sostegno al proprio uomo musicista è stata forte e ha coinvolto anche le espressioni e le personalità più significative del nazionalismo nero, da Stokely Carmichael a Malcom X: il Black Panther Party, agli inizi, aveva una visione della donna assolutamente prona, indispensabile all’autostima dell’uomo, e solo successivamente ha leggermente modificato la sua posizione. Lo sguardo della Wilmer è ad ampio raggio, fornisce testimonianze vive delle compagne e mogli dei jazzisti, strette tra rivendicazioni di indipendenza e autodeterminazione e ruolo di costante supporto all’attività artistica del marito o compagno, non solo psicologico e organizzativo, ma spesso anche economico.

Il free jazz e le sue coordinate artistiche
Altrettanto preziosa ed efficace è la trattazione più strettamente musicale della Nuova musica, termine con il quale Val Wilmer spesso indica il free jazz.

“…il musicista non doveva più rimanere confinato in una singola tonalità o essere costretto a usare uno schema di accordi prestabilito come base per la sua improvvisazione, né doveva aderire a una indicazione di tempo data o anche addirittura, in assenza di una pulsazione regolare, rispettare la divisione in battute. La New Music, come iniziò a essere conosciuta tra i musicisti, apriva a tutti nuovi orizzonti”.

Una serie di capitoli dedicati ad alcuni fra i più importanti jazzisti degli anni Sessanta e Settanta, John Coltrane, Cecil Taylor, Ornette Coleman, Sun Ra, Albert Ayler, l’AACM di Chicago, un capitolo speciale tutto dedicato al ritmo e ai batteristi, una disamina delle innovazioni e delle sperimentazioni che caratterizzarono la rivoluzione del free jazz raccontata dagli stessi protagonisti che gettano una luce diversa e spesso sorprendente rispetto alla scena musicale di quegli anni. La chiarezza nel descrivere l’atonalità di Cecil Taylor, la modalità e la trance coltraniana, l’improvvisazione libera da restrizioni di Ornette Coleman, il quadro infinito e i viaggi intergalattici di Sun Ra, la Grande Musica Nera di Albert Ayler, tutto narrato con estrema chiarezza, corredato da innumerevoli testimonianze provenienti da tutta la scena free, e inserito nel contesto sociale, politico ed economico americano. Difficile trovare qualcosa di così accurato e allo stesso tempo ispirato e artistico come il libro della Wilmer, ein particolare i capitoli “musicali”, tanto dal dover raccomandare questo testo a chiunque abbia intenzione di suonare o solo ascoltare jazz, o qualsiasi altro genere musicale.


Albert Ayler in una foto di Val Wilmer rielaborata graficamente e inserito nel box Holy Ghost (Revenant, 2004).

Tra le tante suggestioni e spunti provenienti dalla lettura del libro, la complessità del rapporto con i padri del jazz: un serrato confronto nella rivendicazione dell’eredità musicale, senza dover obbligatoriamente ripudiare il proprio passato, le radici e le esperienze di coloro che per primi iniziarono a suonare questa musica, ma allo stesso tempo la volontà e la determinazione nel sostenere le proprie scelte, i momenti di rottura, e la capacità anche di comprendere le difficoltà di far accettare le sperimentazioni più ardite. Da questo punto di vista chiaro è l’intento dell’autrice di considerare come indivisibile il vasto universo delle musiche afroamericane, oltre e al di là delle pur forti differenze stilistiche. Importanti sono anche le testimonianze di molti esponenti del free riguardo il loro ricercare un contatto diretto con la comunità afroamericana, la volontà di portare tra la gente la Nuova musica, nonostante gli ostacoli dovuti alla non facile fruibilità, eppure forti della convinzione che quella musica potesse vibrare ed emozionare anche un pubblico di non esperti. Ed ancora: la sottolineatura della spiritualità ritmica e il ruolo centrale della batteria e delle percussioni, nella ricerca di un legame ormai esile con l’Africa ma allo stesso tempo nella convinzione dell’unicità del batterista e del suo ruolo nella Nuova musica. Insomma, un testo ricco e vibrante che andrebbe letto più volte, per apprezzarlo pienamente. Al netto di qualche ingenuità e alcune visioni e affermazioni che un poco risentono del lungo tempo trascorso, la visione della Wilmer mantiene una stretta attualità, fornendo ancora idee e riflessioni certamente non comuni. Come scrive Richard Williams nell’introduzione:

“È un libro che documenta, indaga e celebra accuratamente la Nuova musica, sostenuto da una coscienza politica radicale che includeva socialismo, femminismo, opposizione al razzismo e diritti degli omosessuali, e frutto degli incontri con poeti, drammaturghi e saggisti afroamericani come Langston Hughes, Jayne Cortez e Amiri Baraka. Registra le complesse e intricate relazioni creative che si sono sviluppate mentre la musica conosceva la sua rapida evoluzione, l’invenzione di piattaforme sulle quali quella musica poteva presentarsi nella lotta contro l’esclusione dal mainstream, per conciliare le richieste professionali e personali di chi suonava una musica messa ai margini. Tutto ciò viene esaminato con dovizia di affascinanti e spesso commoventi dettagli”.