Moni Ovaia
Lavoratori di tutto il mondo, ridete La rivoluzione umoristica del comunismo
Einaudi, Torino, 2007
Pagg. XXIV – 276,
€ 15,50

 

 

 

 

 

 

 





 


Lavoratori di tutto il mondo, ridete La rivoluzione umoristica del comunismo di Moni Ovadia
 

 

Quando l’umorismo manifesta appieno la sua potenzialità di comprensione del reale; quando la storiella satirica recupera la capacità di scardinare il monolite del potere egemone; quando il racconto si propone di consolidare una memoria esemplare che possa rappresentare uno stimolo per oltrepassare gli errori della storia.

Moni Ovadia raccoglie, in questo suo ultimo lavoro, diverse storielle – per la quasi totalità di foggia ebraica – nate durante il regime sovietico e tese a smontare sottilmente, con le affilate armi del paradosso, la brutale arroganza della tirannia nell’URSS, l’inettitudine tracotante di un potere che ha trasformato l’utopia della salvezza terrena in orrore quotidiano. Storielle che suonano così, ad esempio:

Un giudice esce da un’aula di tribunale ridendo come un pazzo.

Un collega gli chiede: - Ma cos’hai da ridere così tanto?

- Ho sentito appena adesso una storiella fantastica!

- Bello! Una storiella! Raccontala!

- Scherzi? Per quella storiella ho appena condannato uno a dieci anni di Gulag!

Come il folle erasmiano che scopre il mendicante sotto le vesti del re, che svela l’attore dietro la sua maschera, il racconto paradossale e il witz – il motto di spirito – concorrono a svelare gli aspetti sottesi, l’essenza di un’esperienza storica che ha vanificato, nel dolore di milioni di persone, i sogni di uguaglianza e libertà del suo progetto politico.

È qui che la natura comica, con il suo specifico stile cognitivo, si presenta come portavoce dell’incongruo (Cfr. Peter L. Berger, Homo ridens, il Mulino, Bologna 1999). Assolve cioè completamente alla sua funzione di vivifico contrappunto della realtà ordinaria, per comprenderla appieno anche nei suoi interstizi nascosti, per ridimensionarne l’impatto minaccioso e prepotente, per placare indirettamente il timore montante, ma anche forse – freudianamente – per sublimare, appagare in modo sostitutivo un ostile desiderio di rivalsa.

E poi, fondamentalmente, per trovare un’arena di senso, protetta nel suo habitat paradossale, dove attenuare, magari ridicolizzandola, la prepotenza delle gerarchie, dove relativizzare l’inattaccabile aura dell’autorità, del potere. Così Moni Ovadia (che peraltro rivendica la propria radice marxista) richiama, senza fare sconti, personaggi, istituzioni, ambienti, situazioni specifiche dell’URSS e vi associa l’esilarante corredo di storielle a loro dedicate, ripercorrendo quell’impertinente quanto salvifica tradizione orale che ha in modo latente accompagnato gli itinerari ufficiali – in parte sospetti – della storia sovietica.

Allora, in ossequio ad una consapevolezza ebraica della memoria collettiva come forte radice identitaria, la narrazione diventa il principio dell’edificazione di una memoria che possa donare alle nuove generazioni i valori del rispetto, della libertà, dell’impegno e del contrasto ad ogni totalitarismo. Magari sapendo sempre cogliere il salubre contributo dell’ironia alla convivenza pacifica e contro l’irrigidimento in ogni sterile intransigenza. Per poter vivere il beneficio di ogni utopia.


 

     Recensione di Luca Bifulco