Lo cunto de li cunti di fantascienza

 


Campbell chiede agli scrittori di continuare a celebrare nelle loro storie la scienza, ma senza farne il fulcro centrale e, soprattutto, che sia una scienza più vicina alla realtà e più realistica. Isaac Asimov ha ribattezzato quel periodo che va dalla fine degli anni Trenta all’inizio degli anni Cinquanta “l’Era di Campbell”, proprio a sottolineare l’influenza del curatore di Astounding e dell’importanza della sua rivista. Su quelle pagine, infatti, apparvero molti racconti destinati a diventare dei classici scritti da autori che fisseranno nuove coordinate per il genere narrativo e diventeranno a loro volta padri fondatori della science fiction. Autori come lo stesso Asimov, Robert A. Heinlein, Alfred E. Van Vogt, Theodore Sturgeon, Jack Williamson, L. Ron Hubbard, Clifford Simak introducono rispetto alle storie scritte nell’epoca di Gernsback anche una maggiore caratterizzazione psicologica dei personaggi. Il racconto di fantascienza trova una sua precipua forma e contenuto su questa rivista, ma comincia anche a sperimentare alcune forme ibride, mescolandosi talvolta con il romanzo. Su Astounding, ad esempio, alcune storie iniziate con la forma del racconto, vengono successivamente raccolte e pubblicate in un unico volume, presentandosi al pubblico come un romanzo e arrivando fino ai nostri giorni in tale forma. Nascita del superuomo di Sturgeon, ad esempio, è originariamente formato da tre racconti che in seguito diventano un corpus unico; così come il famoso Ciclo della Fondazione di Asimov, nasce come racconto su Astounding.

Sulle riviste, poi, gli stessi romanzi vengono divisi in puntate, sullo stile del feuilleton europeo, per poi essere ripubblicati in volume.

La forma della narrativa breve – dunque – si sviluppa sulle riviste americane e sperimenta diverse forme che oggi classifichiamo normalmente in racconto breve, racconto lungo e romanzo breve.

Alcuni autori trovano proprio nel passo breve la loro peculiarità, il loro habitat naturale, come ad esempio Robert Bloch, Ray Brandbury e lo stesso Fredric Brown. Ma l’elenco e molto più lungo.

Alla fine degli anni Quaranta, la fede nella tecnologia e nella scienza è minata dall’esplosione delle bombe atomiche sul Giappone e dallo scoppio della cosiddetta “guerra fredda”.  Fattori che influenzano anche la science fiction, tanto da favorire una nuova svolta in cui il racconto e le riviste sono ancora protagoniste. All’inizio degli anni Cinquanta, sulla scena editoriale americana, fanno la comparsa due riviste destinate a dare spazio a nuovi autori ed ad un nuovo tipo di storie: The Magazine of Fantasy and Science Fiction (1949) e Galaxy (1950). La prima intendeva offrire ai lettori una fantascienza più letteraria, soprattutto con storie in cui i personaggi non fossero banali caratterizzazioni degli esseri umani (del tipo eroe-spaziale-che-salva-principessa), ma motivo centrale del racconto o del romanzo, con descrizioni psicologiche fino ad allora rimaste fuori dalla science fiction scientifico-avventurosa degli anni Quaranta. Galaxy fu la portabandiera della cosiddetta social science fiction, ossia di una fantascienza in cui il protagonista dei racconti diventavano l’uomo medio, e il suo costante adattarsi ad una società che si trasforma a ritmi talvolta insostenibili.

Su The Magazine of Fantasy and Science Fiction esordiscono autori come Philip K. Dick e Richard Matheson, mentre Galaxy diventa la patria di scrittori come Robert Sheckley e il duo Frederik Pohl e Cyril Kornbluth, senza contare che vi vengono pubblicati romanzi come L’uomo disintegrato di Alfred Bester e Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.

A metà degli anni Sessanta, alla vigilia della rivoluzione studentesca in Francia e poi in tutto l’Occidente, è ancora una volta una rivista a ridisegnare un nuovo scenario per la fantascienza, rinnovandone sia i contenuti sia la forma. In Inghilterra, nel 1964, Michael Moorcock, giovane scrittore inglese, assumeva la direzione della rivista New Worlds che fece della sperimentazione pura uno dei suoi cavalli di battaglia, proprio per rinnovare il genere e portarlo più vicino alla letteratura tout court. Non a caso, tale movimento fu battezzato New Wave, ossia “Nuova Ondata”, proprio per marcare la differenza con il passato e l’intrinseca novità. Moorcock fu coadiuvato da autori come Samuel Delany, Roger Zelazny, Thomas Disch, Normand Spinrad, Harlan Ellison; da autrici che fecero emergere con forza una fantascienza apertamente femminista, come Joanna Russ e James Tiptree, senza contare la veterana Ursula K. Le Guin; un maestro come James G. Ballard teorizzava proprio su New Worlds un nuovo concetto, quello di inner space (spazio interno), in contrapposizione a the outer space, lo spazio esterno della fantascienza classica. Ballard invita i suoi colleghi a dare una nuova forma alla science fiction, in grado di orientarsi verso il mondo interiore, quello espresso da ogni singolo uomo. L’obiettivo è dare vita ad una narrativa ricca di simboli, ma in grado di penetrare l’inconscio dell’uomo, considerata la nuova frontiera da superare e scoprire. E non è un caso che Ballard userà proprio il racconto come forma precipua di questa nuova fantascienza, perché come sostiene l’autore:

 

“Il racconto mi piace perché è una specie di romanzo condensato, perché lo scrittore non può ricorrere a trucchi, non può permettersi di sbagliare nulla: nemmeno una pagina, un paragrafo, una riga. E poi forse è più adatto del romanzo a questa nostra era così rapida, effimera”[4].

 

Il culmine di questo movimento si avrà nel 1967, quando uno degli scrittori più irriverenti, al secolo Harlan Ellison, pubblicherà come curatore un’antologia destinata ad entrare nella storia  della fantascienza. Stiamo parlando di Dangerous Visions, che per molti ha segnato lo spartiacque tra la fantascienza antica e quella moderna. Il libro contiene 33 racconti che Ellison ha chiesto ai migliori scrittori dell’epoca, con un'unica clausola: le storie dovevano essere provocatorie e toccare temi che fino ad allora erano considerati dei tabù per il genere, come il sesso, l’omosessualità o la droga. L’intento era quello di far maturare il genere fantascienza e tirarlo fuori dal “ghetto” editoriale e di costume in cui si era impantanato. Anche se questo ambizioso risultato non fu pienamente raggiunto, non c’è dubbio che l’antologia e i suoi autori contribuirono a frantumare i paradigmi della fantascienza, ad introdurre temi forti e a proporre una diversa visione del genere tanto agli appassionati tanto a quella “critica con la puzza sotto il naso”.

Bisogna attendere la metà degli anni Ottanta per incontrare una nuova ondata di rinnovamento del genere, e non è un caso che dalla metà degli anni Settanta torna in auge la space opera, più matura e moderna, ma comunque dello stesso genere che si pubblicava tra gli anni Venti e Trenta.

Nel 1984, l’uscita di Neuromante di William Gibson e nel 1986 l’uscita dell’antologia Mirrorshades – guarda caso ancora una volta parliamo di racconti – segnano la nascita del Cyberpunk, ossia di una science fiction incentrata sugli incubi metropolitani di un futuro non troppo lontano dal nostro e amalgamati con le nuove tecnologie informatiche e la cultura pop. A fare da portavoce al movimento c’è anche qui, non a caso, una rivista, la Isaac Asimov Science Fiction Magazine, che ospita a più riprese gli autori più significativi del Cyberpunk: Bruce Sterling, Rudy Rucker, Lewis Shiner, John Shirley, Pat Cardigan, Tom Maddox, Marc Laidlaw, James Patrick Kelly, Greg Bear e Paul Di Filippo.

Siamo ad un nuovo punto di partenza per la science fiction, che trova ancora una volta forma privilegiata nel racconto.

Anche l’attuale momento che vede protagonista la fantascienza definita post-human – con particolare riferimento all’area scozzese ed ad autori come Charles Stross, Iain Banks, Ken McLeod – vede proprio nel racconto un suo punto di forza e ancora una volta nella Isaac Asimov Science Fiction Magazine il posto privilegiato dove dare corpo a quella che è a tutti gli effetti una nuova fase della storia della fantascienza.

 

 

 


[4] Gli alieni siamo noi. Intervista a J.G. Ballard di Enrico Franceschini, tratta da “la Repubblica”, 5 novembre 2003

 

 

 

    [1] (2)