“Pentiti, Arlecchino” disse l’Uomo del Tic-Tac (“Repent Harlequin!”, Said the Ticktockman 1965) di Harlan Ellison

 

In I Premi Hugo 1963-1970, prima apparizione su Galaxy dicembre 1965.

Con questo breve ma intenso racconto, Ellison si cimenta con il genere distopico e ipotizza una società resa schiava del proprio tempo, in cui “non è più il tempo a servire l’uomo, ma l’uomo a servire il tempo”. L’opera vince un premio Hugo e un Nebula come “best short story”, dimostrando che Ellison aveva toccato le corde giuste della nostra società.

Il racconto si apre con un estratto dal pamphlet del filosofo americano Henry David Thoreau, La disobbedienza civile, nel quale l’autore divide la società in conformisti lavoratori che servono lo Stato con i propri corpi, in decision-makers che lo servono usando la testa, e in riformatori ed eroi che lo servono secondo coscienza. A quest’ultima categoria, considerata comunemente nemica della società, si considerava appartenente il ribelle Thoreau, di cui l’Arlecchino del racconto è l’epigono. La società distopica di Ellison vede l’intera umanità resa schiava dal Tempo, incarnato dall’Uomo del Tic-Tac, che governa la stanza dei bottoni attraverso cui può ordinare la morte immediata di un essere umano allorquando questi accumuli un eccessivo ritardo sulla propria tabella oraria. Così, la produttività che nella nostra epoca è valutata in denaro ora è valutata in tempo, e il plusvalore diventa “plustempo”, anche questo – come nella teoria marxiana – sottratto ai lavoratori dal Sistema alienante. Contro il Sistema opera invece Arlecchino, un uomo come tanti che però è sempre stato in ritardo nella sua vita e decide di costruirsi un’identità mascherata per sottrarsi all’egemonia dell’Uomo del Tic-Tac e ribellarsi. Con la sua rivolta fa accumulare all’intero Sistema ritardi di ore, fa saltare intere tabelle di marcia, mette in crisi il sistema produttivo e quello repressivo. Quando infine l’Uomo del Tic-Tac, facendo leva sul potere di un’organizzazione ferrea e indistruttibile, acciuffa Arlecchino mettendo fine alla sua rivolta, egli decide di non ucciderlo ma di riconvertire la sua personalità e di farlo pentire pubblicamente attraverso un lavaggio del cervello.

Ellison cita più volte i modelli classici delle opere distopiche: la produzione massificata de Il Mondo Nuovo, le masse di lavoratori che a lento passo di marcia si recano a lavoro o tornano a casa tipiche di Metropolis, il tema del leader mondiale che agisce dietro le quinte e quello della guerra eterna che giustifica la dittatura di 1984, esplicitamente citato poi nel finale in cui il lavaggio del cervello di Arlecchino è paragonato a quello di Winston nel romanzo di Orwell. La forza del racconto di Ellison sta però soprattutto nell’immaginare una società totalitaria la cui perdita di libertà è imputabile a un elemento che già oggi ci schiavizza tutti: l’inesorabile trascorrere del tempo. L’evolversi della civiltà e la sua sempre maggiore complessità necessità di tempi sempre più certi, scanditi, inderogabili. Tanto che, quando il 31 dicembre 2000 tutta la civiltà occidentale trattenne il fiato temendo una nuova apocalisse, non temeva l’avverarsi delle profezie evangeliche ma il millennium bug che avrebbe mandato in tilt gli orologi dei computer, dai quali si decide la vita o la morte di una società asservita alla virtualità. Se così Thoreau, anticipando la Arendt della Vita Activa, sostiene l’importanza di riconquistare il proprio tempo libero, la sfera dell’oikos, del privato, sottratta al pubblico che non è più lo spazio della libertà politica ma dell’asservimento produttivo, Ellison affida ad Arlecchino la sfida di realizzare quella che già oggi ci appare un’utopia. Perché “Arlecchino”? Perché egli tradizionalmente impersona la ribellione del ‘servo sciocco’ che rovescia il suo padrone, la rivolta dell’individualità contro l’omologazione, rappresentata esplicitamente dai suoi bizzarri vestiti, un pugno nell’occhio della convenzionalità borghese. Un po’ come il divino briccone citato da Farmer, o l’elettricista clandestino di Brazil di Gilliam.  Anche quando, alla fine del racconto, Arlecchino è sconfitto e il Sistema sembra trionfante, è evidente che il processo di cambiamento è messo in moto ed è inarrestabile, tanto più che l’Uomo del Tic-Tac e Arlecchino – ai due poli opposti – sono assimilati da quella “maschera” che vuole sottolinearne la somiglianza. Somiglianza che però ne acuisce la differenza, contraria a quell’omologazione a cui l’inesorabile, sempre uguale scorrere del tempo (il “tic-tac” dei nostri orologi) sembra volerci sottomettere.

Harlan Jay Ellison (1934), pur essendo un nome notissimo nella fantascienza, non vanta nella sua produzione romanzi di successo ma soprattutto racconti ed episodi di serie televisive, tra cui Star Trek e Ai confini della Realtà. Tra le storie più significative: Non ho bocca e devo urlare (1968), L’uccello di morte (1974), Jeffty ha cinque anni (1978). Ha curato la storica antologia della new wave Dangerous Visions. È forse l’autore anti-convenzionale per antonomasia.