I nove miliardi di nomi di Dio (The Nine Billion Names of God, 1953) di Arthur C. Clarke
Questo racconto molto breve può rappresentare in modo sintetico l’intera, prestigiosa produzione di sir Arthur C. Clarke. In esso, con una sana dose di umorismo, si penetra in profondità nel tema centrale dell’opera di Clarke, il rapporto tra l’umano e il misterioso, tra l’umano e il divino. A questo racconto si sono certamente ispirati Isaac Asimov per la sua nota storia breve L’ultima domanda (1956) e Douglas Adams per la sua irresistibile Guida galattica per autostoppisti (1979). Un santone tibetano si presenta al direttore generale della più nota industria di macchine calcolatrici del mondo. La sua richiesta è delle più bizzarre: modificare uno dei supercalcolatori prodotti dalla ditta per adattarlo alle esigenze dei lama del tempio tibetano dove sarà trasportato; l’obiettivo del computer sarà quello di sfornare, attraverso potenti algoritmi e sulla base di un alfabeto scoperto dai monaci, tutti i nove miliardi di nomi veri di Dio. Così facendo si giungerà finalmente a scoprirne l’ultimo imponderabile segreto. Due tecnici specialisti vengono inviati sul tetto del mondo per assolvere alla richiesta e davanti ai loro occhi assistono sgomenti al risultato di tutto questo lavoro. “Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”, affermò una volta Clarke (posteriormente alla pubblicazione di questo racconto), un’asserzione divenuta celeberrima. Effettivamente qui tecnologia e magia, o meglio misticismo religioso, si fondono in un inquietante connubio. Asimov nel suo già citato racconto amplierà l’idea di Clarke che è essenzialmente questa: se un computer, dotato di una incredibile capacità di calcolo, è impostato in un modo tale da evolversi nel tempo, cosa gli impedirà di oltrepassare i limiti dell’umano intelletto e assurgere a un rango semidivino decidendo i destini dell’universo? Douglas Adams rovescerà ironicamente questa impostazione attraverso il suo supercomputer “Pensiero profondo”, costruito per dare una risposta alla domanda sulla vita, l’universo e tutto quanto la cui soluzione altro non è che “42”; è “Pensiero profondo” a diventare a sua volta vita, universo e tutto ordinando poi la costruzione della Terra, calcolatore biologico incaricato di capire perché la risposta alla domanda fondamentale sia “42”. Ne I nove miliardi di nomi di Dio non siamo ancora a questo livello, il supercomputer è comunque nient’altro che un supporto per questa casta di monaci che rappresenta in pieno la satira degli ordini contemplativi, immersi nei loro studi secolari al di fuori del mondo senza contribuire al suo sviluppo ma anzi finendo per distruggerlo nella loro smania di conoscenza. Del resto, l’anno in cui il racconto fu scritto ci offre una chiave di lettura lampante. Sembra infatti essere giunto il momento in cui l’umanità si è sostituita a quel Dio biblico che fa e disfa, sottraendogli il libero arbitrio sulla possibilità di decidere l’ora dell’Apocalisse. Il supercalcolatore dei lama tibetani non sarebbe altro che una versione più sofisticata e indolore della bomba termonucleare, in quell’anno entrata a far parte degli arsenali di distruzione globale di USA e URSS. Un consiglio, quello di Clarke, a fare attenzione alla possibilità che la prossima estinzione di massa sia provocata dalla nostra stessa incoscienza. Sir Arthur Charles Clarke (1917), uno dei più noti scrittori di fantascienza tutt’ora vivente, lega la sua fama alla sceneggiatura del film 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick, da lui scritta sulla base del suo precedente racconto La sentinella. Tra le principali opere: Le guide del tramonto (1953), La città e le stelle (1956), Incontro con Rama (1973) e i suoi seguiti, Le fontane del paradiso (1979). È stato inoltre il primo teorico dello sfruttamento dell’orbita geostazionaria per i satelliti delle telecomunicazioni, idea che è diventata poi realtà quotidiana e dei cui frutti godiamo tutti noi quotidianamente. Vive a Colombo, in Sri Lanka.
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