La Squadra e un po' di fenomenologia del suo spirito di Maria D’Ambrosio

 



è stato notato già da tempo che la fiaba ha qualche legame con il mondo dei culti, con la religione. In senso stretto anche il culto, la religione, può essere definita istituzione. Tuttavia, come l’ordinamento si manifesta nelle istituzioni, l’istituzione religiosa si manifesta in certi atti di culto; (…). Engels, nell’Antidühring, ha formulato con precisione l’essenza della religione. “Tutte le religioni non sono altro che il rispecchiamento fantastico nella mente degli uomini di quelle forze esterne che li dominano nella loro vita quotidiana, un rispecchiamento nel quale le forze umane assumono la forma di forze sovraumane (…)”

Propp, Vladimir J., 1928, Le radici storiche dei racconti di magia, Roma, Newton Compton, 2003, p. 144-145

 

D’altronde in questa lettura ritorna l’idea di un certo uso dei media, e della TV in particolare, codificato, all’interno dell’analisi di Dayan e Katz, in termini di grandi cerimonie dei media e quindi di storia in diretta[3], a sottolineare quanto in certi casi il mezzo si possa fare trasparente rispetto a ciò che racconta e proporre eventi messi in una tale forma narrativa da apparire non sceneggiati, e quindi non mediati da alcuna drammaturgia o regia. All’interno di questa prospettiva si fa riferimento a tanta critica e sociologia della comunicazione che ha posto in evidenza il rapporto tra politica, Stato, e forme dello spettacolo (e quindi il teatro, il cinema, la radio, la televisione, Internet, …), quasi a evidenziare il legame del Potere e delle Istituzioni con le scene e le pratiche simboliche, più o meno mediali: pratiche discorsive di cui le forme del potere si sono servite e dentro le quali si sono esibite e riflesse, sin dal più lontano passato.  Come in un gioco di specchi. Di specchi magici, per dirla con Victor Turner e la sua antropologia della performance[4].

Ma, riferendoci al caso de La Squadra e all’uso che questo prodotto suggerisce di una certa comunicazione istituzionale,  credo sia interessante guardarlo anche come elemento totemico e autocelebrativo per la non troppo piccola comunità, o l’universo sociale, degli agenti di polizia italiana. Una forma mediata per lasciare che il ‘corpo’ di polizia, si possa riflettere in modelli e forse nuovi stereotipi che alla forza e alla violenza accostano anche altre doti e altre competenze. Le voci e i volti dei protagonisti, e d’altronde già anche i loro cognomi, rimandano, infatti, a una varietà territoriale e culturale che prova a integrarsi con la divisa e con altri simboli dal valore unificante e ‘normalizzante’. Per questo potremmo collocare La Squadra anche tra gli house organ, audiovisivi e patinati, realizzati per parlare anche a chi, come il cittadino comune (e spesso sovrapposto alla categoria di spettatore), non appartiene a quella ‘casa’ ma viene scelto come interlocutore possibile. Come a segnare e accelerare un processo di trasformazione in cui il Potere prova a farsi sentire più vicino e a proporsi in chiave sussidiaria e territoriale.  

A proposito di vicinanza e prossimità, gli autori di questa fiction seriale sanno di giocare con un pubblico ‘esperto’ nella tele-visione: più di cinquant’anni di pratica televisiva hanno reso esperienza comune quella di guardare a distanza e quindi di avvicinarsi a ciò che è lontano e fuori dalla propria geografia e dalla propria diretta sfera d’azione. La forza del vedere è trasferita e magnificata nel tele-vedere così il pubblico accosta la sua fruizione a una vera e propria forma di ‘testimonianza’ che lo induce a sovrapporre o a sostituire l’ispettore Battiston o il commissario Sciacca, e gli altri personaggi de La Squadra, all’immagine fornita dall’esperienza diretta dei Commissariati (e spesso della loro inconsistenza o assenza). La realtà finzionale, in questo caso una squadra (di un commissariato di Polizia),  funge da simulacro e come tale, così come per le statue o le icone dei Santi, induce comunque a una certa qual forma di adorazione. Gli spettatori, per la durata della puntata, consacrano i loro eroi in divisa e gratificano il loro bisogno di protezione e di sicurezza.  E lo fanno riflettendosi in un prodotto ‘made in italy’ che gli restituisce un maggiore legame con la realtà, quasi una sovrapposizione dei piani: cosa che risulta più macchinosa e artificiosa con prodotti seriali pure di successo come Colombo, Chips, Miami Vice, e poi Il commissario Rex, CSI, Dr. House ed altri.

Il poliziesco è genere popolare: da sempre, infatti, ha incontrato il grande pubblico anche senza spostare la popolarità dei diversi corpi di polizia di cui andava raccontando vicende. Ma piuttosto creandone un mito. Il duello buono-cattivo ha trovato nell’iconografia (sia sacra che profana), nelle Sacre Scritture e nella letteratura, e poi nel fumetto, nella cinematografia e nella sceneggiatura televisiva, molti volti e molte storie.  Le storie e i volti televisivi hanno più evidente parentela con l’immaginario costruito dal genere western (italiano e americano) i cui sceriffi e banditi ritornano e fanno da prototipo a tanti cosiddetti sceriffi e banditi metropolitani. Bauman ricondurrebbe tanta popolarità a una forma mediata di esercizio del sacro attribuito alla Legge e all’Ordine e la intenderebbe come risposta al crescente e antico bisogno di sicurezza dell’uomo.

L’industria della fiction, e questo prodotto in particolare, sembrano perciò intercettare e attualizzare temi provenienti dagli antichi e, insieme, anche realizzare una mission istituzionale che pare richiamare al ‘servizio pubblico’ che li ospita e a una sua precisa linea editoriale che ancora qualcuno attribuisce al canale in cui va in onda.

Senza troppo indulgere nel didascalico.

 


 

[3] Dayan, Daniel-Katz, Elihu, 1992, (Media events, the live broadcasting of history), Le grandi cerimonie dei media. La Storia in diretta, Bologna, Baskerville, 1993.

[4] Turner, Victor, 1986, (The Antropology of performance), Antropologia della performance, Bologna, Il Mulino, 1993.

 

    [1] (2)