BUSSOLE | QDAT 63 | 2016

 


VISIONI / MAN IN THE DARK


di Fede Alvarez / Screen Gems, Stage 6 Films, Ghost House Pictures, Usa, 2016


 

Invasori, invasi e invadenti


di Francesca Fichera

 

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Nel thriller e nell’orrore il nemico non è mai veramente alle porte. Si sa di lui, anzi, che può nascondersi all’interno del nido, fra le pieghe oscure del rimosso, sia individuale che familiare. Come il retro del palazzo di Hyde nel mito dipinto da Robert Louis Stevenson o la soffitta di casa Rochester nella Jane Eyre di Charlotte Brontë, il Male si identifica con il lato inconfessabile del vivere privato, il suo sporco, la polvere su cui stendere il tappeto. E anche quando il genere sembra ribaltare la prospettiva, raccontando il pericolo proveniente dall’esterno allo stesso modo che la fantascienza degli anni Cinquanta usò per ipostatizzare altri mondi, sta comunque realizzando una forma estrema di metafora dell’interiorità, provando a portare alla luce tutto ciò che, più o meno inconsapevolmente, vive dentro. Il tema narrativo dell’home invasion, esplorato a partire dalla fine del decennio dei Sessanta attraverso pellicole come Gli occhi della notte (regia di Terence Young, 1967) e Cane di paglia (regia di Sam Peckinpah, 1971), giunge sino a noi con una miriade di interpretazioni differenti, che restituiscono anche e prima di tutto il dato di una persistente centralità dell’ambiente domestico nella relazione uomo-paura. A occupare il centro di questo tipo di racconto è, cioè, il processo di insinuazione dell’incertezza nel comfort (o nell’illusoria protezione) del micro-cosmo famigliare, quel gruppo primario per eccellenza comunemente associato, quando non identificato, con la figura di abitante del nido domestico. Che sia una coppia, una persona sola o un nucleo parentale al completo, la vittima dell’invasore conserva la peculiarità di vivere sicura nella sua tiepida casa fino a che una forza rivoluzionaria e violenta non arriva a sfondarne la porta d’ingresso, tatuando traumi sulla pelle e sulle pareti, nel cuore e nello spazio. C’è inoltre da dire che film emblematici come i due Funny Games di Michael Haneke (1997, 2007) e l’ancora più recente You’re Next (2013) di Adam Wingard hanno fatto di questo tipico procedimento e del suo altrettanto caratteristico scenario molto più di uno sfondo occasionale, di una situation: qui l’home invasion è la struttura portante, la griglia senza la quale ciascuna singola parte del testo filmico perderebbe il proprio senso.

Lo stesso vale per Don’t Breathe (2016), distribuito in Italia con il titolo di Man in the Dark. Il lavoro diretto da Fede Alvarez, regista già noto per il remake de La casa di Sam Raimi, del 2013, si svolge tutto nei dintorni e all’interno di una casa: la casa di un anziano reduce, rimasto cieco e con l’unica compagnia di un cane da guardia. L’ingente risarcimento in denaro per la prematura scomparsa della figlia, morta dopo essere stata investita da un’auto, è il miele a cui vanno le api protagoniste, tre giovani ladruncoli schiacciati dal degrado delle proprie esistenze e perciò risoluti a crearsi a qualsiasi costo un’alternativa. Spinti da quest’ossessivo desiderio di riscatto sociale, Money, Alex e Rocky organizzano dunque un colpo per invadere la fatiscente abitazione dell’uomo cieco e, finalmente, abbandonare la città che da anni li priva di nuove possibilità. Ma quelli che in un contesto più tradizionale avrebbero rivestito il ruolo di antagonisti e, per l’appunto, pericolosi invasori, nel caso di Man in the Dark sono destinati a prendere il posto degli invasi: delle vittime. La violazione di domicilio compiuta dai tre ragazzi di periferia si rivela infatti un boomerang dagli effetti devastanti. L’abitante della casa, cieco come la Audrey Hepburn del film di Terence Young ma, a differenza sua, tutt’altro che mite e indifeso, è la “donna della soffitta” brontiana che assume il controllo di ogni cosa. Che, anzi, lo ha sempre avuto, ancor prima che i giovani delinquenti decidessero di sfidare le barriere della sua dimora.

Così diventa presto chiaro che, fra le stanze buie e polverose nelle quali il nerboruto reduce ha imparato a orientarsi e muoversi con agilità, anche il fruscio di un respiro può essere fatale, e l’imperativo del titolo originale, “non respirare”, serve all’invader affinché possa compiere il movimento inverso rispetto alle sue intenzioni iniziali: uscire anziché riuscire a entrare; sfuggire alla soffitta brontiana, o alla più gotica e classica cantina, come alla sede di una nerissima oscurità dove vedenti e non vedenti brancolano in egual misura; sopravvivere alle verità nascoste di una casa che, come il ritratto di Dorian Gray, ha finito col raccogliere in sé e nel proprio aspetto l’intima essenza del suo padrone. Ogni minimo difetto della costruzione trova origine nelle fondamenta, negli scompensi da cui nascono le crepe, nei vuoti. Il focolare, luogo deputato alla sicurezza e agli affetti, viene spogliato del suo valore rituale e denudato nelle sue mancanze, nell’ossessiva dialettica fra assenza e presenza dell’appagamento; quella che l’uomo cieco vedeva nella figlia perduta e che i giovani, invece, rincorrono in un futuro ideale agognato troppo a lungo. È così che Man in the Dark svela la propria natura di analisi e critica della società: una società frustrata, sofferente, nelle cui case e cantine albergano le più varie mostruosità, figlie di un dolore muto e rabbioso, di una soggettivazione deviata di fatti e di cose a propria volta lungi dall’essere davvero “istituzionalizzati”. Dove c’è, sì, la perversione sotterranea del serial-killer de Il silenzio degli innocenti (regia di Jonathan Demme, 1991) ma anche l’attenuante di una tragedia, sia individuale che collettiva, a fattori multipli, quali memorie di guerra, lutti prematuri, handicap fisici, genitori noncuranti, isolamento e solitudine, mancanza di giustizia sociale, che per più di un momento arriva a mettere sullo stesso piano il carnefice e i perseguitati, il maniaco dagli occhi bianchi e i ragazzi con le scarpe sporche e i calzini rotti; sebbene poi, com’è giusto che sia, il villain “invasore di se stesso” si qualifichi definitivamente come tale, portando sullo schermo, attraverso l’efficace presenza scenica di Stephen Lang, la figura di un folle disgustoso e patetico (cfr. Patrizi, 2016) fuoriuscito dai più profondi cunicoli dell’abitare umano.

E tuttavia, pur se in maniera sottesa, dentro Man in the Dark resiste e sopravvive la presenza di quel contesto sociale comune, sorta di “patto delle origini”, che avvicina il novello Minotauro ai giovani avventori del suo labirinto: il buio, fisico nel caso del reduce, simbolico in quello dei ragazzi, che avvolge un’esistenza sulla quale domina la crudele (per quanto umanissima) pratica dell’abbandono. Abbandono da parte delle figure di riferimento, per quanto riguarda i più giovani, in una brutale ed evidente rimozione del nesso fra le rispettive idee di casa e accoglienza; e abbandono istituzionale verso chi, come un ex “servitore della patria” ferito nel corpo oltre che nella sua interiorità, non potrà mai essere risarcito fino in fondo da alcun premio in denaro, men che meno entro uno scenario di contorno privo di qualsiasi manifestazione di solidarietà. Al punto che anche lui, l’uomo cieco, come Rocky con le sue fantasticherie sulle spiagge californiane, sceglie di riempire i propri vuoti da sé, senza badare al prezzo né alle conseguenze in termini umani delle sue azioni: ciò che non ha, arriva a pretenderlo. Da cui un’evoluzione della trama, culminante in particolare in una scena insolita e sconvolgente, grazie alla quale il film riesce a inglobare a modo proprio la forma del “rape and revenge”, compagna dell’home invasion sin dalle origini del genere. Ed è in questo suo presentificare la memoria della tradizione che Man in the Dark si configura come prodotto cinematografico perfettamente inserito nella contemporaneità post-post-moderna, e soprattutto post-human, dell’industria culturale, dove la differenza fra i mostri che infestano le cantine delle case e gli uomini che vorrebbero intrufolarvisi si è assottigliata fino a scomparire. Per cui vale sempre e più di prima l’adagio della Suor Jude di American Horror Story (2013): “All monsters are human”. 

 


 

VISIONI

Jonathan Demme, Il silenzio degli innocenti, 20th Century Fox, 2008 (home video).
Michael Haneke, Funny Games, Medusa Film Spa, 2006 (home video).
Michael Haneke, Funny Games, Warner Bros Home Video, 2013 (home video).
Ryan Murphy, Brad Falchuck, American Horror Story Asylum, 20th Century Fox, 2014 (home video).
Sam Peckinpah, Cane di paglia, CG Entertainment, 2015 (home video).
Adam Wingard, You’re Next, Eagle, 2014 (home video).
Terence Young, Gli occhi della notte, A & R Productions, 2016 (home video).