Se si apre il dizionario del giornalista Stefano Grassi dedicato al “caso Moro” (Il caso Moro. Un dizionario italiano) – quasi ottocento pagine in cui tutte le piste possibili relative a questo snodo decisivo della storia della Repubblica sono seguite e analizzate con l’ossessione sintomatica di un desiderio di impossibile esaustività – si trova anche una voce dedicata a Todo modo. La cosa può apparire bizzarra, ma in realtà il film di Elio Petri tratto dal romanzo breve di Leonardo Sciascia è legato a doppio filo al drammatico destino del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro: a lui s’ispirò Gian Maria Volonté per calarsi nei panni del Presidente, l’enigmatico ed evanescente protagonista della pellicola, con una capacità imitativa tale che si preferì buttar via la prima parte del girato perché si temeva che altrimenti non avrebbe mai passato il filtro della censura; e d’altro canto la scena con cui si chiude il film, in cui il Presidente in ginocchio è freddato da un colpo di pistola alla nuca, diventò due anni dopo così spaventosamente profetica, in seguito alla scoperta del cadavere di Moro ucciso proprio da diversi colpi di pistola, da rendere – scrive Grassi –  “di fatto «invisibile» il film per molti anni” (Grassi, 2008). Ma l’ombra di Moro seguì sia Volonté che Sciascia: il primo tornò a interpretare il personaggio, questa volta senza pseudonimi, nel film di Giuseppe Ferrara Il caso Moro del 1986; il secondo, in qualità di deputato dei Radicali, partecipò ai lavori della Commissione Moro e nel 1978 pubblicò (quattro anni dopo il suo Todo modo) L’affaire Moro. La sua impressione era che “l’affaire Moro fosse già scritto, che fosse già compiuta opera letteraria, che vivesse ormai in una sua intoccabile perfezione” (Sciascia, 1994). Si riferiva, con queste parole, all’ineluttabilità del destino del presidente della DC, ma anche al suo precedente romanzo, che citava nella prefazione attraverso le parole dello studioso Giorgio Galli nella sua Storia della Democrazia Cristiana, per il quale Todo modo – film e libro – rappresenterebbe la parabola del “processo degenerativo di questa sorta di filosofia della prassi conservatrice”. Secondo Sciascia: “nel vuoto di riflessione, di critica e persino di buon senso in cui la vita politica italiana si è svolta”, il suo romanzo e il film che ne è stato tratto “non potevano apparire che anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni(Sciascia, 1994).
Questa inquietante sovrapposizione di realtà e fiction è tipica di quegli eventi destinati a rappresentare traumi irrisolti della memoria collettiva: l’assassinio di J.F. Kennedy o l’attentato dell’11 settembre 2001 sembrano ai nostri occhi, esattamente come il caso Moro, più film che episodi reali, al punto che da qualche parte nella nostra coscienza traumatizzata s’insinua il dubbio di non assistere a un fatto davvero accaduto ma a una fiction: una finzione o un’opera letteraria, per dirla con Sciascia. Da qui parte tutta la concatenazione di idee che alimenta le tesi complottiste: tutte le ferite aperte della nostra Storia possono essere rilette come il risultato di un complotto, una costruzione a tavolino che niente lascia alla casualità che invece percepiamo in un primo momento, che rende plausibile un evento altrimenti talmente implausibile da sembrare romanzesco, irreale. Il Presidente ucciso da una revolverata e Aldo Moro freddato dai colpi delle Brigate Rosse nel bagagliaio della Renault 4 rossa diventano tutt’uno: dove finisce l’anticipazione, la profezia, e quindi l’invenzione, e dove inizia la realtà?

 


 

 


 

Todo modo ha risentito certamente del trascorrere del tempo. Il romanzo appare, al lettore odierno, un giallo ai limiti del divertissement, su cui si staglia all’orizzonte una riflessione sulla corruzione del potere, quello religioso come quello politico, e della loro commistione; il film che Petri ne trasse nel 1976 (riproposto finalmente in dvd nel 2015) può essere goduto come un’opera di fantapolitica, sullo stesso piano del suo magnifico La decima vittima tratto dal romanzo di Robert Sheckley (cfr. in questo numero). Certamente i lettori del 1974 e gli spettatori del 1976 dovettero comprendere molto più intuitivamente il senso profondo di quelle opere, strettamente intrecciato con la cronaca politica. Pertanto è necessario, per capire davvero Todo modo, ricostruire le vicende che ne ispirarono la realizzazione. Il 13 febbraio 1974 i responsabili amministrativi dei partiti al governo – DC, PSI, PSDI, PRI – finirono nel mirino della magistratura di Genova per un giro di sovvenzioni da parte delle compagnie petrolifere intenzionate a impedire l’introduzione dell’energia nucleare nel paese. Questi soldi, versati da anni alle casse dei partiti, venivano presentati come aiuti concessi spontaneamente per sostenerne l’operato democratico, ma in realtà erano legati all’effettiva adozione di politiche vantaggiose per i petrolieri, i quali s’impegnavano in cambio a versare ai partiti il 5% sui vantaggi derivanti, proporzionalmente al loro peso politico. È un sistema che dimostrava una connivenza inquietante e scandalosa tra politica e affarismo in un periodo in cui la Dc di Amintore Fanfani chiedeva agli italiani sacrifici legati all’austerity energetica, tra cui la chiusura anticipata dei cinema e dei locali e le domeniche a piedi.
L’eco di questo scandalo ispirò certamente Sciascia quando, all’interno del suo romanzo, fa scoprire al procuratore “un mazzo così di fotocopie di assegni” (Sciascia, 2003) firmati dalla prima vittima della vicenda, l’onorevole Michelozzi, a tutti i partecipanti al ritiro spirituale, tutti esponenti del partito di governo: “Lui ragiona così: Michelozzi dava a costoro del denaro non perché se ne andassero a donne o corressero a depositarlo in Svizzera; glielo dava per il Partito, per le correnti nel Partito, per le sezioni, le clientele, i singoli clienti” (ibidem). 
Anche il film di Petri gira tutto intorno alla commistione tra potere pubblico e capitali privati: in una delle più spassose scene-chiave, il Presidente chiede ai suoi colleghi di partito di dare conto di tutte le aziende statali e private con cui hanno rapporti, tra consulenze, presidenze, posti in consiglio d’amministrazione, quote azionarie. Ne emerge un profluvio di sigle fantozziane e una serie di accuse reciproche su chi abbia mangiato di più. L’onorevole Ventre cerca di fare il sunto: “Ma allora questo discorso vale anche per Caprarozza, che era presidente dell’Urgep, ma attraverso la Tuttogas di Fatigò, che era proprietaria del 50% delle azioni della Urgep, si collegava con la Arabic di Voltrano, proprietaria del 68% delle azioni Tuttogas. Quindi Caprarozza è in pericolo, e anche io… In quanto presidente della Visir che è proprietaria del più grosso pacchetto azionario della Tulip di Fatigò, collegata tramite la Modern Bank alla Crom di Michelozzi!” (Petri, 2015).  

Non c’è solo lo scandalo petroli, nel 1974. Il 12 e 13 maggio l’Italia si recava alle urne per il referendum abrogativo della legge sul divorzio. La DC, naturalmente, era per l’abrogazione, in linea con le indicazioni di Oltretevere, ma com’è noto quasi il 60% votò No. È un terremoto, una svolta politica radicale. Paolo VI, che più di tutti ha voluto il referendum, ne esce profondamente amareggiato. All’indomani dell’approvazione della legge, nel 1970, aveva scritto un appunto al suo segretario di stato: “Far sapere all’Ambasciatore d’Italia che la promulgazione della legge sul divorzio produrrà vivissimo dispiacere al Papa: per l’offesa alla norma morale, per l’infrazione alla legge civile italiana, per la mancata fedeltà al Concordato e il turbamento dei rapporti fra l’Italia e la Santa Sede” (cit. in Vian, 2004). Le elezioni dell’anno successivo videro il Pci arrivare a un’incollatura dalla DC e l’Italia si colorò di “giunte rosse”. Il democristiano Massimo De Carolis, fresco di gambizzazione delle Brigate Rosse, profetizzava: “Stiamo morendo. Ma ci rimpiangerete. Io vi dico che rimpiangerete la DC!” (cit. in Pansa, 2004).
È insomma chiara nel paese la sensazione di essere a un “doloroso bivio”, come lo definisce il Presidente nel film di Petri. Il partito che ha governato l’Italia negli ultimi trent’anni è oggettivamente in disfacimento, come gli scheletri nella cripta dell’albergo Zafer dove i personaggi di Todo modo si rinchiudono per i loro esercizi spirituali. C’è soprattutto la sensazione che la Dc sia stata abbandonata dalla Chiesa, che fino ad allora è stata la sua principale azionista. Riuniti per fare il punto sulle morti misteriose dei loro colleghi, i vertici del Partito nel film si chiedono: “E se già la Chiesa volesse prendere le distanze da noi? Dal Partito?”. Per uno dei presenti, “sarebbe il colmo dell’ingratitudine” . Per un altro, invece, bisogna tenere conto che “la Chiesa gioca sempre d’anticipo; ora fiuta la crisi generale”. E allora l’onorevole Schiavò arriva a formulare un’ipotesi: “E se tutti, dico tutti, industriali, preti, CIA, ecc. ecc. si fossero messi d’accordo per liquidarci?” (Petri, 2015).  
Ecco lo scenario in cui si muove il film di Petri e su cui indugia Sciascia nel suo romanzo. Qui Don Gaetano parla molto chiaramente al protagonista, il Pittore: quando questi gli chiede “che bisogno hanno i suoi amici di governare, di comandare: con la sua benedizione se non addirittura per suo mandato?” (Sciascia, 2004) il prelato gli risponde che quelli “non sono miei amici” e aggiunge: “Il nostro più grande errore, il più grande errore che sia stato commesso da coloro che hanno governato, o che hanno creduto di governare, la Chiesa di Cristo, è stato quello di identificarsi, ad un certo momento, con un tipo di società, con un tipo di ordine” (ibidem). La soluzione è quindi “distruggere, distruggere…”. Ma cosa? La società, naturalmente, con cui la Chiesa fino ad allora ha fatto affari: quella governata dal Partito, dalla Democrazia Cristiana. Il “divorzio” che nell’Italia reale si consuma tra DC e Vaticano si trasforma, nel romanzo di Sciascia, in una specie di resa dei conti finale di cui Don Gaetano si fa artefice e carnefice, uccidendo man mano i vertici del Partito che ospita a Zafer. 

 

Nel film di Petri, il complotto si fa ancora più vasto. La Chiesa è solo una pedina. Il resto lo fa “l’America”, come suggerisce l’onorevole Schiavò. È l’America che vuole un cambio di governo, preferendo al Presidente il suo avversario, “Lui”, com’è chiamato nel film: forse il leader dell’opposizione o più probabilmente di una delle tante correnti, ora ritenuta più affidabile rispetto al vecchio establishment in dismissione. Per compiere questo rovesciamento di regime, ecco la “strage di Stato”, che per una volta non colpisce vittime innocenti – il 1974 è anche l’anno di piazza della Loggia e del treno Italicus – ma i vertici del paese: “Quattro ministri attualmente in carica, nove sottosegretari, tredici onorevoli, sei senatori, quattro presidenti di società a partecipazione statale, nove vicepresidenti, tre direttori generali, cinque presidenti di istituti finanziari e assicurativi, tre alti magistrati, due direttori di giornali, tre presidenti di giunte regionali” (Petri, 2015), come sciorina con vanto lo speaker dello Zafer. La trappola è ben architettata: mentre fuori il paese è colpito da una misteriosa epidemia, che simboleggia la cancrena politica, e ricorda l’antefatto del Decameron, nell’albergo-monastero ecco riunirsi la crème de la crème politico-istituzionale. Don Gaetano non le manda a dire: “Ma quanto credete che vi rimanga?”, urla durante uno dei suoi deliranti sermoni. “Il potere uccide!” (ibidem). E durante la refezione sussurra al Presidente: “Ma l’inferno è qui vicino, è sottoterra, ci siamo dentro. E io sono qui per accompagnarvici” !” (ibidem).
Don Gaetano compie la sua missione con la convinzione che essa serva a far uscire la Chiesa dalla stessa condizione drammatica in cui si trova il paese. Nel romanzo di Sciascia, il prete paragona la Chiesa alla Zattera della Medusa, alla deriva tra le onde dell’oceano, e su cui i superstiti si danno al cannibalismo pur di sopravvivere. Così è anche il Partito. C’è un’inquietante specularità tra le due istituzioni, sembra suggerire Sciascia, ma la Chiesa intende liberarsi da quest’immagine di disfacimento che lo specchio le restituisce riflettendosi nella politica dell’Italia. Ecco allora il ruolo di Don Gaetano, che si definisce un “prete cattivo”, per poi chiarire: “La sopravvivenza, e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai buoni. È dietro l’immagine dell’imperfezione che vive l’idea della perfezione: il prete che contravviene alla santità o, nel suo modo di vivere, addirittura la devasta, in effetti la conferma, la innalza, la serve…” (Sciascia, 2004). Con questa sorta di olocausto sacrificale, allora, la Chiesa potrà tornare alla sua vera essenza, liberarsi dalla zavorra che la sta trascinando sul fondo.
Ma mentre Sciascia conclude la storia con il rinvenimento del cadavere di Don Gaetano, forse suicida, forse ucciso dal Pittore, la voce narrante che rappresenta l’uomo comune, Petri si spinge a elaborare una sorta di “teoria del tutto” del complottismo in cui anche altri poteri forti partecipano alla spartizione delle spoglie (“Dove c’è un cadavere, lì ci sono le aquile”, ricorda Don Gaetano citando il Vangelo [Petri, 2015]). A un certo punto il Presidente viene preso da parte da un gruppo di americani travestiti da preti e suore e scortato nei sotterranei di Zafer per essere messo al corrente di quanto sta accadendo. Allora decide di prestarsi a portare a compimento la mattanza a modo suo, come è giusto attendersi da un Presidente che aspira al “settennato”: depistando, disseminando falsi indizi e proponendo teorie alternative per confondere le acque. Quando presenta al procuratore Scalambri la sua ipotesi sugli omicidi, tutti legati alle sigle delle aziende con cui i suoi colleghi sono in affari, che vanno a formare la frase “Todo modo para buscar la voluntad divina”, questi nel film gli chiede: “Chi le ha suggerito quest’ipotesi pazzesca?”. Il Presidente svicola: “Lasci stare, sono persone che se ne intendono” (Petri, 2015). Impossibile, con l’occhio di oggi, non mettere a confronto questa scena in cui il Presidente presenta un’assurda ipotesi di comodo suggerita dagli “Americani” per nascondere la verità, con il ruolo che giocherà Steve Piczenik, il consulente del Dipartimento di Stato americano coinvolto nel caso Moro, che in anni recenti confermerà il ruolo di “manipolazione strategica” del suo paese nella vicenda “al fine di stabilizzare la situazione dell’Italia” (cit. in Ludovico, 2013). Quando il Presidente viene portato via dal “commando” americano sotto mentite spoglie, balbettando di avere “many, many, many doubts” su tutta l’operazione, oggi noi vediamo piuttosto Aldo Moro con la faccia di Gian Maria Volontè chiedersi, come egli fece nelle sue lettere dalla prigionia: “Vi è forse, nel tener duro contro di me, un'indicazione americana e tedesca?” (Moro, 2009).
In sostanza dunque Todo modo rispondeva, all’epoca, all’esigenza di rovesciare le parti come in un sadico carnevale, in cui le vittime delle stragi di Stato sono gli stessi politici; una sorta di sublimazione di un’insofferenza profonda nutrita dalla pancia del paese nei confronti dell’establishment politico dell’epoca. Ma l’omicidio Moro, quattro anni dopo l’uscita del romanzo di Sciascia e due anni dopo il film di Petri, trasformava improvvisamente quella fiction in realtà. Una realtà drammatica, traumatica, dalla quale siamo lontanissimi dal riprenderci, tant’è che un’ennesima commissione d’inchiesta parlamentare sulla vicenda è ancora in corso, a quasi quarant’anni di distanza. Se il film di Petri è scomparso così a lungo dagli schermi, è perché rappresenta la nostra cattiva coscienza, dando voce ai nostri desideri, ma anche alle nostre inquietudini più profonde.

 


 

LETTURE

  Giorgio Galli, Storia della DC 1943-1993: mezzo secolo di Democrazia cristiana, Kaos Edizioni, Milano, 2007.
  Stefano Grassi, Il caso Moro. Un dizionario italiano, Mondadori, Milano, 2008.
  Marco Ludovico, L’esperto Usa: “Così manipolammo il caso Moro”, Il Sole 24 ore, 1° ottobre 2013.
  Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino, 2009.
  Giampaolo Pansa, La caduta di Fanfani, La Repubblica, 8 maggio 2004.
  Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi, Milano, 1994.
  Leonardo Sciascia, Todo modo, Adelphi, Milano, 2003.
  Gian Maria Vian, Montini e il divorzio trent’anni dopo, “Vita e Pensiero”, n. 3, 2004.

 


 

VISIONI

  Giuseppe Ferrara, Il caso Moro, CG Entertainment, 2005 (home video).
  Elio Petri, Todo modo, CG Entertainment, 2015 (home video).
  Elio Petri, La decima vittima, CG Entertainment, 2008 (home video).