ASCOLTI / A COSMIC RHYTHM WITH EACH STROKE


di Vijay Iyer, Wadada Leo Smith / Ecm, 2016


 

Consacrazione di una ex rising star


di Sandro Cerini

 

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In anni di crisi entropica, ritorna acuito l’argomento (intermittente e controverso) della forte caratterizzazione produttivo-estetica della maison musicale eicheriana, già peraltro affrontato su queste pagine (cfr.  "Quaderni d'Altri Tempi" n. 49).

Gianni Morelembaum Gualberto descriveva perspicuamente – già in apertura degli anni Ottanta – l’essenza d’una “filosofia produttiva” deprivata di ogni preoccupazione per “[…] l’avvenire della musica improvvisata”, in quanto oramai passata “dall’azione puramente culturale […] all’azione commerciale […] per entrare nel mondo complesso, disincantato e duro dell’industria”. Sottolineava peraltro l’insospettabile convergenza fra il processo produttivo della casa discografica bavarese e quello che – inevitabilmente diverso nei contenuti – era stato proprio delle blowing-sessions Blue Note. Purtuttavia riconosceva il “merito dell’etichetta” tedesca, di esser riuscita a mantenere – e “in maniera notevole” – “parte delle premesse con cui è nata”, frutto e insieme condizione della “sua visione estetica sempre coerente (poiché di coerenza si tratta, e per di più ricompensata commercialmente dal successo)” (Morelenbaum Gualberto, 1980).

Orbene, in epoca di definitiva mercificazione dell’oggetto discografico si ha la sensazione che gli esiti artistici del marchio Ecm siano oggi molte volte approdati oltre il perimetro di quest’area ideale di positivo apprezzamento critico, e già ampiamente entro territori caratterizzati da un certo svilimento a maniera, popolati di ipotetici scaffali su cui si allineano “prodotti”, proiezione di un brand, in cui al significante non corrisponde più alcun significato, se non quello “che connota l’esperienza culturale che attiene a un certo «stile di vita»” (Žižek, 2011).

Ecm, per (tentare di) fugare i rischi incombenti della lussuosa formularità e rinverdire i propri fasti (anche agli occhi di un pubblico di fan via via sempre più distratti, in molti casi invecchiati insieme all’etichetta e al suo indiscusso dominus) ha necessità di individuare nuovi e più giovani artisti-icona, per ovviare anche all’ineluttabile e talora doloroso processo di senescenza.

In questo quadro si colloca l’ascesa (apparentemente) irresistibile di Vijay Iyer, che per alcuni versi può ricordare, ovviamente per aspetti non attinenti al contenuto della proposta musicale, il processo di crescita che aveva già riguardato Keith Jarrett. Echeggia infatti, nella parabola del pianista indiano-americano, una certa attitudine a pianificare, per aspetti di squisita confacenza personale, un processo mitopoietico (o addirittura in larga parte auto-mitopoietico), come già avvenne per il più illustre predecessore. Se in esso non si avverte quel senso irripetibile di vertigine creativa che riguardò il pianista di Allentown negli anni Settanta, generando infinite discussioni e diatribe sulla genuinità e necessità creativa d’una simile inusitata esplosione di personalità, ciò non di meno, l’accurata costruzione d’una carriera sinora perfetta impatta severamente l’immaginazione.

Il frangente temporale a cavallo tra il 2012 e il 2013 riferisce di esiti fuori dall’ordinario per Iyer.

Nel 2012 il referendum dei critici di Down Beat lo premia con una inedita (e forse prima impensabile) quintupla corona: artista dell’anno, migliore album (Accelerando, del Vijay Iyer Trio), miglior gruppo (il Vijay Iyer Trio, appunto), miglior pianista e miglior nuovo talento tra i compositori! Lo stesso biennio vede Iyer fare incetta di premi e benemerenze accademiche: tra gli altri, il Doris Duke Performing Award, il McArthur Genius Grant e una cattedra nel Dipartimento di musica dell’Università di Harvard.

Il portato di simili argomenti e di una sala dei trofei così tanto guarnita è la comprensibile (o forse scontata) ripulsa da parte dell’artista dell’argomento specioso della propria “ambizione”. Nella lunga intervista rilasciata nel 2015 ad Anil Prasad per Innerviews (ripubblicata nella traduzione di Luca Conti nel numero di Musica Jazz di gennaio 2016) l’argomento viene affrontato esplicitamente, finanche in modo secco: “Forse ambizione non è mai stata la parola giusta. È una definizione che mi sento appiccicare spesso, ma io non ho mai visto così la mia attività. C’è ben altro. Tutti i progetti che ho portato a termine mi erano in un certo senso indispensabili. Molto spesso vengo invitato a occuparmi di qualcosa, e si tratta di attività interessanti”.

Difficile porre in discussione un simile punto di vista, se non collidendo con i fatti, di fronte a un musicista che, oltre a premi e investiture varie, ha ricevuto un folto numero di incarichi e commissioni artistiche (questo punto sembra esser parte essenziale del pensiero funzionale di Iyer, che a una specifica domanda relativa all’eventualità di comporre per il semplice piacere di farlo ha risposto negativamente, con estrema naturalezza: “Tendo piuttosto a creare per un’occasione, per una specifica opportunità” (Margasak, 2014). Forse ciò dipende dalla sua evidente capacità di trovarsi costantemente sotto la luce dei riflettori, al posto giusto nel momento giusto, divenendo ipostasi di un moderno multistilismo.

Un incredibile “punto di intersezione tra tradizioni parallele” (ibidem) in cui si annodano improvvisazione e musica scritta, jazz e musica da camera, elettronica e radici indiane, tradizione nera e hip-hop.

Di fronte a tanta ricchezza e alla Weltanshauung che ne discende, un susseguirsi degli eventi in termini quasi di predestinata necessità è parimenti comprensibile che sia avvertito come un fatto quasi trascurabile quello di esser entrato a far parte, nel 2013, della scuderia artistica di Manfred Eicher: “Li ha contattati il mio manager e hanno risposto dopo dieci minuti. È andata così” (Prasad, 2015).

Questa circostanza (che, come per molti dei fatti e delle opinioni riferite da Iyer, se non è vera è certo ben raccontata) per altro verso fa giustizia dell’imprecisa vulgata, pure circolata nell’ambiente degli appassionati italiani, massime, come è ovvio, fra i detrattori abituali dell’etichetta: che l’attenzione della critica per il pianista sia cresciuta esponenzialmente con tale ingresso e ne sia in certa misura funzione. Il seguito critico del pianista era già estremamente robusto e del tutto rispondente ai risultati di una carriera iniziata da tempo, programmata con estrema cura e che aveva già segnato diversi picchi, frutto di capacità fuori dal comune.

Al riguardo, si può senza dubbio rimandare alla lettura del dossier e della “guida all’ascolto” pubblicati da Paolo Vitolo su Musica Jazz, rispettivamente nei numeri di giugno 2015 e gennaio 2016. Le due puntuali disamine hanno il merito soprattutto di porre nella corretta luce il principale tra i pregi dell’Iyer musicista: l’assoluta contemporaneità.

“La sua complessa identità di autore, di cui si riconosce un percorso primario e dall’evoluzione chiarissima, ne fa […] una figura chiave, esemplare, ottimale: dal dichiarare suoi ideali maestri Monk, Ellington, Andrew Hill e Randy Weston – esattamente nell’ordine – all’individualità del linguaggio, multiculturale e prettamente contemporaneo, che stratifica su questa miratissima rosa di riferimenti” (Vitolo, 2015).

Obbligatorio riconoscere che è nel sodalizio iniziale con Rudresh Mahanthappa, altro geniale indiano trapiantato, il primo snodo cruciale della carriera, soprattutto espresso negli album di un quartetto che ha saputo essere tanto intenso quanto incisivo: Panoptic Modes (2000), Blood Sutra (2003) e Tragicomic (2007); ma anche nello splendido duo Raw Materials (2005).

Il trio con Stephan Crump al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria ha segnato, successivamente, una fase di consolidamento e affinamento, anche di creazione d’un vero e proprio “sistema musicale”. Questo trio già in casa ACT consegna al pubblico l’eccellente Historicity (2008) e la prima opera-manifesto, il già citato Accelerando, che definisce le coordinate di un preciso approccio costruttivo che sarà poi ripreso altrove: la rinuncia alla melodia e la costruzione di strutture armoniche e ritmiche sempre dinamicamente proiettate in avanti (“sviluppate soltanto attraverso il crescendo (che) sembrano indurre a un ascolto infinito” (Vitolo, 2016).

Anche questo approccio corrisponde, lucidamente, a un sentire espresso più volte dall’autore ed esecutore Iyer, che ama sottolineare la sua prossimità rispetto a un continuo “processo accretivo” che riguarda sia la propria formazione personale, sia il sentirsi parte di un flusso. Tale flusso esprime sia una continuità trans-generazionale (in perfetto accordo con punti di vista espressi dall’AACM, sia il fatto di sentirsi parte viva e integrante di un “continuum di musicisti”), di vita e musicale (nel senso proprio della struttura).

Tornando al suo corpus artistico, strada facendo Iyer ha disseminato altre opere di importanza niente affatto secondaria (tutt’altro!), realizzate (perlopiù) per la Pi Recordings di Seth Rosner e Yulun Wang (impegnatasi anche nella ristampa dei suoi primi album). Innanzitutto il trittico del trio-collettivo, senza compromessi, Fieldwork: You Life Flashes, del 2002; Simulated Progress, del 2005; Door, del  2008, soprattutto  nell’ultima opera, con il felicissimo assetto costituito da Steve Lehman e Tyshawn Sorey.

Inoltre, la splendida trilogia “sociologica” dedicata alla American life (e dintorni) negli anni post 11 settembre, realizzata in collaborazione primaria con l’artista hip hop Mike Ladd, ma in realtà progetto aggregante d’una pluralità di voci del nuovo jazz americano, tutte di grandissimo rilievo (tra gli altri: Rudresh Mahanthappa, Liberty Ellman, Guillermo Brown, Kassa Overall, Pamela Z, Stephan Crump, Ambrose Akinmusire).

In In What Language? (2003), Still Life With Commentator (2007) e Holding It Down: The Veterans’ Dreams Project (2013) vengono focalizzati, con grande coraggio civile, argomenti di attualità, propri della società globale contemporanea – incastonati entro cornici musicali eloquenti e suggestive, fra aspetti narrativi e di denuncia che realizzano infine un metalinguaggio, che esprime freschezza e corale vitalità.

In tutte le esperienze di Iyer ha un indubbio peso anche il suo essere un non-pianista (rectius: un pianista non virtuoso), musicista iniziato dapprima allo studio del violino e successivamente votatosi agli ottantotto tasti essenzialmente da autodidatta. L’evenienza si rispecchia nel modo in cui egli si rapporta ai propri partner, nella sua tendenza a suonare in modo quasi compulsivo, affastellando la propria voce strumentale a quella dei compagni di viaggio, nella sua assoluta incapacità di pensarsi come “solista” (in specie nel trio, mai declassando Crump e Gilmore al rango di accompagnatori e piuttosto escogitando, per sua stessa definizione, “un modo non-solistico di improvvisare insieme” (Wilkinson, 2016), nell’uso ricorrente dell’elettronica, come variabile di senso. Perciò è ancor più commendevole, innanzitutto in termini puramente volontaristici, ma anche per l’esito artistico, il fatto di essersi comunque misurato con la sfida solitaria in Solo (2010), album di ottima riuscita, e di splendido suono.

Infine merita di essere ricordata la questione “culturale” per eccellenza posta da Iyer, ossia quella relativa all’elogio esplicito della blackness: “Il jazz è musica nera. Proviene da menti geniali, brillanti, innovatrici che hanno lavorato e pensato senza sosta, si sono documentate […] questa musica non è saltata fuori dal nulla, ma la gente sembra non volerlo ammettere. […] E questo aspetto è a malapena sfiorato da gran parte del linguaggio critico” (Prasad, 2015). Parlando più di recente con Wilkinson, Iyer ha ancor più espressamente rimarcato che: “Essere un musicista di jazz significa esprimere un progetto americano, essere parte della storia americana, accettare quegli scomodi ideali rispetto ai quali l’improvvisazione è un fatto centrale” (Wilkinson, 2016).

Se in simili affermazioni si può anche leggere un abile metodo argomentativo, che finisce per generare una sorta di auto-endorsement, è parimenti indubbio che esse siano chiare e forti. Forse passibili di una lettura in chiave (parzialmente) strategica, ma non tali da poter essere equivocate.

E rileggendo un discorso tenuto nel 2014 agli alunni asioamericani di Yale si potrà riscontrare come certi punti di vista siano maturati (in forma persino più acre e radicale) anche in una condizione di piena consapevolezza delle proprie radici di Asian-american, in modo non dissimile da quel che è stato il pensiero di Fred Ho, che in quella prolusione si trova non casualmente citato.

Questo e molto altro si ritrova nei quattro album (tre cd e un dvd) sinora incisi da Iyer per Ecm.

Forse neppure è un caso che il debutto, con Mutations (2013), sia consistito nel mostrare un aspetto della sua personalità artistica legato alla composizione “classica” (“È stata un’idea di Manfred. Io gli avevo mandato parecchie cose perché le valutasse […] secondo lui Mutations avrebbe avuto un impatto più forte, oltre a presentarmi come compositore […] non l’avevo mai incisa perché le etichette «di jazz» non ci vedevano sbocchi commerciali. Farla con Ecm, invece, aveva la sua logica” (Prasad, 2015).

Tre brani – per solo pianoforte (il primo) oppure per pianoforte ed elettronica (il secondo e l’ultimo) – contornano la suite eponima: la pensosa Spellbound And Sacrosanct, Cowrie Shells And The Shimmering Sea, già segnalatasi come (unico) pezzo memorabile in Memorophilia, album d’esordio (1994) più Vuln, Part 2 e When We're Gone, nelle quali l’elettronica introduce contrappunti o sottili variabili di senso (anche in questo caso mutazioni), per mezzo di minimi slittamenti. Mutations I-X vede invece all’opera un ensemble formato, oltre che dal pianoforte, da un quartetto d’archi (riunito per l’occasione) e da ulteriori manipolazioni e loop elettronici (vero e proprio strumento aggiunto in Chain e Automata). I trascorsi formativi di Iyer, che ha studiato il violino per quindici anni suonando in orchestre e quartetti, si fondono nell’album con il suo presente, o piuttosto con la sua visione artistica complessiva: sicché il gruppo è realmente un tutto unico e non un solista con archi. La tecnica di composizione pone a disposizione del quartetto materiali scritti (“frammenti” secondo l’autore) liberamente utilizzabili e che continuamente si intersecano, ora in contrapposizione, ora in assonanza, con un procedimento quasi-improvvisativo (evidente in Kernel). Iterazioni e gimmicks elettronici garantiscono una forte scansione ritmica.

Al primo album segue subito un dvd, Radhe Radhe che raccoglie il film-documentario girato da Prashant Bhargava (scomparso subito dopo le riprese), dedicato ai riti di Holi, festa hindu della primavera e dell’amore. Tali cerimonie sono basate sulla combustione di sacre pire rituali e sull’uso di sgargianti colori da parte degli officianti. La musica è stata composta da Iyer per accompagnarle e registrata durante una esibizione dal vivo con contemporanea proiezione del film, in occasione della celebrazione del centenario della Sacre du Printemps. La musica è di gran lunga la parte preferibile del documento, mentre le immagini non presentano particolare capacità evocativa, oltre quella dei violenti colori, e conferma la visionaria capacità di Iyer di immaginare costanti progressi e variazioni.

Break Stuff (2014), terzo album in meno di un anno per l’etichetta bavarese, vede Iyer tornare alla guida del proprio rodatissimo trio, secondo i metodi compositivi già enucleati e sopra ricordati. Il disco esprime appieno le coordinate artistiche principali del pianista, rimarcando ancora la personalissima cifra di un jazz del tutto contemporaneo. Così, il consueto eclettismo, mai superficiale o dispersivo, prende corpo nell’integrazione all’interno dell’organico più ristretto di elementi ed esperienze importati dalle composizioni per organici estesi (col finissimo interplay a compensare l’intuibile diminuzione della palette timbrica), nell’equilibrio tra scrittura e improvvisazione e nella assoluta centralità delle stratificate e incalzanti costruzioni ritmiche, sempre molto originali, votate alla contemporaneità (Hood è dedicata all’omonimo produttore di musica techno). Le composizioni non originali (Work – resa non-monkiana –, Blood Count – solitaria e dolente – e la destrutturata Countdown) omaggiano una tradizione mai vissuta come semplice totem, ma metabolizzata come oggetto di passione. Come è stato osservato: i riferimenti assunti dal pianista “sono estranei alla retorica e sono parti di una biologia, vissute in quanto demitizzate” (Vitolo, 2015).

Il disco conferma dunque la lucidità della visione d’insieme di Iyer e la sua coerenza nell’azione; in una parola: il suo peso di protagonista nella scena attuale.

Da ultimo, il 2016 ha portato Iyer a rendere omaggio a uno dei maestri della AACM: Wadada Leo Smith (che il pianista ama definire “eroe, amico e maestro”), con la pubblicazione dell’album in duo A Cosmic Rhythm For Each Stroke. La frequentazione tra Iyer e Smith è questione protratta, avendo preso corpo nel Golden Quartet del trombettista, a partire dal 2005 e sino al 2010, prima ancora che nel duo, nato in occasione di una esibizione al The Stone di New York, agli inizi del 2015.

Non stupisce perciò che nel contesto performativo che elegge la conversazione a forma emergano forti affinità, che garantiscono la riuscita dell’incontro. Il felice risultato finale, tuttavia, origina da ragioni diverse da quelle più facilmente prevedibili: infatti, se Smith si conferma un maestro del suono e dei silenzi, riuscendo con la loro sapiente alternanza a gestire il ritmo e a squarciare gli spazi, Iyer non si limita a una mera complementarità, nel riempimento degli spazi aperti o al sostegno della voce della tromba, seguendo invece una logica di conduzione testarda e paritaria del proprio metodo e della propria trama. Quest’ultima pure si riunisce mirabilmente, nella narrazione musicale, a quella del compagno. Ne è evidente esempio la lunga suite eponima in sette movimenti, dedicata all’arte grafica astratta di Nasreen Mohamedi, in larga parte improvvisata, ma di perfetta tenuta. In apertura una sospesa composizione di Iyer, Passage, mentre la chiusa è per l’assorta Marian Anderson di Smith. Un disco importante, benché mirato a una certa semplificazione delle forme espressive (sarebbe ben possibile per i due un approccio più radicale), che soprattutto consolida il percorso artistico del pianista.

In conclusione.

Vijay Iyer ha avuto un robusto e meritatissimo seguito di appassionati (sia tra i critici che tra i comuni ascoltatori) ben prima di approdare in casa Ecm e ha mostrato di saper costruire la propria carriera secondo un processo di incredibile chiarezza e decisione. Essa, sebbene multiforme, non perde per questo di incisività e anzi si segnala per una notevole capacità di metabolizzazione di alcune significative radici, valorizzate secondo una visione propria, e mai semplicemente mitizzate.

Sebbene si possano condividere alcune critiche all'attuale fase di conduzione artistica dell'etichetta bavarese, talvolta segnata da uscite discografiche che non rendono del tutto ragione all’importanza storica del catalogo, affogate come sono tra algori nordici e proiezioni formulari di stantio folk immaginario, ormai divenute puro stile, non sembra che siano gli album di Iyer a presentare particolari debolezze o cedimenti, anzi.

Tutto questo sebbene sia anche possibile sottolineare altre fasi di notevole pregnanza nella carriera pregressa del pianista (arrivato in casa Ecm forte di un formidabile palmarès, qualitativamente eccellente e folto di diciassette album), caratterizzato da collaborazioni più ardite o originali, in special modo quelle con Fieldwork, Rudresh Mahanthappa o Mike Ladd , che in un certo modo si contrappongono all’attuale fase di classicità, inseguita, fortemente costruita e forse per questo indice di una certa normalizzazione, del resto congruente alla politica produttiva dell’etichetta.

Certo sia, Iyer è fra i musicisti che oggi si propongono come particolarmente interessanti anche per l’espressione di una studiata consapevolezza culturale. Difficile dire qui e ora quanto essa sia studiata e quanto frutto di un genuino atteggiamento artistico ed estetico, ma il tempo porterà di certo con sé le spiegazioni necessarie. 

Considerando l’estrema intelligenza dell’uomo, il rischio della definitiva cristallizzazione di una formula (e del conseguente, definitivo, inaridimento creativo), sembrerebbe potersi escludere, almeno nel breve periodo. Può invece dirsi che Iyer ha (giustamente) imboccato una fase di deciso consolidamento del proprio linguaggio.

Sarà probabilmente decisivo verificare se e quanto egli deciderà di “esclusivizzarsi” nel rapporto con Eicher. In passato ciò non è avvenuto neppure con ACT, ove pure l’artista, unico statunitense dell’etichetta, ha goduto di un trattamento largamente personalizzato. Le abitudini pregresse di Iyer e le sue stesse affermazioni, parrebbero escludere il desiderio di rapporti (eccessivamente) totalizzanti: “Ecm non firma contratti di esclusiva ma li lega a singoli lavori. Non c’è scritto da nessuna parte che resterò in Ecm per sempre […]” (Prasad, 2015). Ma assai abilmente Eicher ha offerto sinora al pianista l’opportunità di percorrere un sentiero artistico estremamente vario e a lui gradito, che gli ha permesso di consolidare certi riferimenti culturali, saldando anche tributi di amicizia e di riconoscenza. Dunque i due sono tuttora in piena luna di miele e Iyer, compiacendosi del credito offertogli dal tedesco, lo sottolinea: “[…] Eppure in un solo anno abbiamo già portato a termine tre progetti” (ibidem).

Inoltre, proprio in ragione della perspicacia (anche artistica) dell’uomo, egli non può non aver colto che dentro Ecm può ragionevolmente aprirsi una fase di decisa transizione, che verosimilmente giocherà a suo favore. Anche in questo caso soltanto il tempo potrà dire se essa sia destinata o meno a risolversi nella metamorfosi dell’ex rising star in una feconda cash cow.

 


 

ASCOLTI

Fieldwork, Door, Pi Recordings, 2008.
Vijay Iyer, Memorophilia, Asian Improv, 1994.
Vijay Iyer, Panoptic Modes, Red Giant, 2000.
Vijay Iyer, Blood Sutra, Artist House, 2003.
Vijay Iyer, Tragicomic, Sunnyside, 2007.
Vijay Iyer, Solo, ACT, 2010.
Vijay Iyer, Mutations, Ecm, 2013.
Vijay Iyer, Break Stuff, Ecm, 2014.
Vijay Iyer & Mike Ladd, In What Language?, Pi Recordings, 2003.
Vijay Iyer & Mike Ladd, Holding It Down: The Veterans’ Dreams Project, Pi Recordings, 2013.
Vijay Iyer & Rudresh Mahanthappa, Raw Materials, Savoy Jazz, 2005.
Vijay Iyer Trio, Accelerando, ACT, 2011.
Vijay Iyer Trio, Historicity, ACT, 2008.

 


 

LETTURE

Gianni Morelenbaum Gualberto, Nascita e sviluppo delle etichette discografiche indipendenti, in AA. VV., Il Jazz degli anni ‘70, Milano, 1980.
Peter Margasak, An interview with MacArthur “genius”, jazz pianist, and composer Vijay Iyer, in Chicago Reader, ottobre 2014,
www.chicagoreader.com/chicago/vijay-iyer-humanities-festival-mutations-radhe-interview-darlene-patti
Anil Prasad, Vijay Iyer: Degrees of choice, in Innerviews, 2015, www.innerviews.org/inner/iyer2.html
Paolo Vitolo, Vijay Iyer: India, Monk e Duke, in Musica Jazz, 22Publishing, Milano, giugno 2015.
Paolo Vitolo, Ascoltare Vijay Iyer, in Musica Jazz, 22Publishing, Milano, gennaio 2016.
Alec Wilkinson, Time is a ghost. Vijay Iyer’s jazz vision, in The New Yorker, febbraio 2016,
www.newyorker.com/magazine/2016/02/01/time-is-a-ghost.
Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Firenze, 2011.

 


 

VISIONI

Vijay Iyer & Prashant Bhargava, Radhe Radhe. Rites Of Holi, Ecm, 2014.