Remake. Se la fantascienza guarda al passato di Roberto Paura

 

L’amata cinepresa di Spielberg si concentra sulle vicende di una famiglia “qualunque”, quella del padre operaio impersonato da Tom Cruise e dei due figli turbati dal divorzio dei genitori. L’invasione aliena è un pretesto per analizzare le reazioni umane sulla piccola e grande scala, partendo dai tre protagonisti che fanno a gara a chi urla e delira di più e arrivando alle grandi masse di pecore/uomini che l’impotenza riduce all’autodistruzione. Il finale si concentra tutto sulle vicende private, sull’arrivo a Boston dove vive la moglie di Cruise e la madre dei due bambini e dove la famiglia divisa si riabbraccia e supera le diffidenze in nome della lotta al comune nemico. In tutto questo Spielberg vuole fare il verso ai film catastrofici oggi di moda senza rendersi conto di seguirne le orme, e crede di sperimentare usando la storia “sociale” di Wells per approfondire la psicologia degli americani post-11 settembre, senza rendersi conto che tutto è già stato sperimentato e ormai abusato. Soprattutto, si dimentica che tutto questo l’aveva già fatto lui stesso con Incontri ravvicinati del terzo tipo ed allora ci era riuscito in pieno. Ancora una volta si perde il senso originale della storia, la fantascienza si riduce a un pretesto per parlare di qualcosa di attuale lasciando andare l’insegnamento di Wells che, pur legato anch’esso alle vicende dell’epoca, trascendeva la storicità e raggiungeva l’universalità.

Discorso leggermente diverso può essere fatto per Planet of Apes (2001), il remake messo in scena dal talentuoso Tim Burton del Pianeta delle scimmie del 1968. Burton prova a mettere da parte lo storico film con Charlton Heston e ad avvicinarsi maggiormente al romanzo ispiratore del francese Pierre Boulle, dove il tema centrale è il rovesciamento dei ruoli e la satira dei mille difetti umani proiettati su una civiltà di scimmie dotate di raziocinio che trattano l’uomo come l’ultima delle bestie. Il film diretto da Franklin J. Schaffer, girato in un’epoca tra l’altro tumultuosa (quella dei conflitti generazionali sessantottini), riprendeva soprattutto le invettive di Boulle verso l’orgoglio dell’uomo nei confronti delle sue capacità tecniche e il conflitto tra visione creazionista e evoluzionista dell’essere umano. Il celebre colpo di scena finale fu ciò che rese notissimo il film, a dispetto del romanzo che invece ambientava la narrazione su un pianeta di un altro sistema stellare. Burton, trovandosi nel difficile compito di ricreare lo stesso effetto di sorpresa che colpì gli spettatori del ’68, si basa soprattutto sull’aspetto visivo dipingendo le scimmie in maniera ancora più antropomorfa di quanto era stato fatto da Schaffer; il risultato – al di là della superba qualità del trucco, che ovviamente supera il già ragguardevole livello del suo predecessore – diviene però grottesco, portando lo spettatore a sorridere piuttosto che a riflettere davanti a tali scene e non riuscendo a cogliere in pieno l’identificazione tra l’umanità e la civiltà delle scimmie. Il protagonista, il capitano Leo Davidson, non ha l’ingegnosità omerica del personaggio che dovrebbe interpretare e la superiorità umana sembra prevalere solo nel conflitto a campo aperto tra gli esuli umani e l’esercito delle scimmie nella parte clou del film: un gravissimo errore, che porta lo spettatore a vedere l’abilità umana sul solo piano bellico laddove la versione di Schaffer aveva insita una potente carica pacifista. La piattezza dei protagonisti, che a differenza dei remake prima citati non sono tratteggiati con molta cura così da accentuare la valenza del soggetto e non dell’interpretazione, non permette di affezionarsi a personaggi entrati nella storia del cinema come Zira, Cornelius, il dottor Zaius e lo stesso protagonista George Taylor interpretato da Heston. Non commuove l’animo dello spettatore né il nuovo bacio tra l’uomo e la scimmia, che in Burton sembra essere solo un omaggio forzato, né il nuovo colpo di scena finale che sembra solo un’umoristica parodia della società odierna (l’America come “repubblica delle banane”, se vogliamo) e non permette il collegamento tra la situazione di oggi e quella del lontano futuro descritto nel film, provocata dall’uomo stesso seconda l’interpretazione del film di Schaffer. Si perde insomma la valenza critica e il terribile pugno allo stomaco che lo spettatore provava di fronte alla Statua della Libertà distrutta e ritrovata da un annichilito Charlton Heston.

   

    [1] [2] (3) [4]