Ciak! Si suona

 

di Gennaro Fucile



Jean Robail è il regista Le Flic et la Fille, un film inguardabile nonostante  la presenza di Alain Delon e Annie Girardot. La visione è vietata da un peccato originale: è del tutto inesistente eccetto la musica, proposta nei panni di colonna sonora. L’unica voce autentica di un film immaginario, uno dei dodici inventati di sana pianta da un duo di Amsterdam, Gerry Arling e Richard Cameron, con tanto di locandine e note che motivano la natura del brano, ricostruendo ascendenze e derivazioni del genere musicale prescelto per il commento sonoro del film. Titolo del disco: Music for imaginary films.

Un tema frequente. Le colonne sonore fittizie non sono impostura dell’ultima ora. Forse sono il negativo del mondo interiore, che altri artisti preferivano esibire con sontuose creazioni (Sun Ra o Magma). O sono semplicemente gioco, genuina proiezione cinematografica dell’artificio letterario prediletto da Jorge Louis Borges, prodigo anche di magistrali istruzioni in materia: “delirio faticoso e avvilente quello del compilatore di grossi libri… Meglio fingere che questi libri esistano già, e presentarne un riassunto”. Procedere ellittico, soppressione di parte del raccordo tra elementi logicamente concatenati consueto nell’arte cinematografica, ad esempio nel montaggio. Oppure sono la variante concava del concept album. Il sospetto è fondato: quando iniziano ad estinguersi i concept prima maniera, mentre cominciano ad andare in onda i primi videoclip, vanno in scena anche le prime colonne sonore di film mai girati.

La trama più celebrata si svolge a metà anni Settanta, quando Brian Eno propone l’album Music for Films, titolo eloquente come per tutti i manifesti sonori elargiti dal non-musicista in quella stagione. Si affianca a Discreet Music e Music for Ambient, ipotesi altrettanto affascinanti, però meno seducenti all’ascolto. Opera fondamentale. Seguiranno altri due capitoli, trasformando l’evento in routine, senza nulla aggiungere alla musica, al concetto e alla fama dell’artista. Inutile remake.

Negli stessi anni, a San Francisco muove i primi passi una strana creatura sonica chiamata Chrome. Damon Edge e Helios Creed ne sono gli artefici principali. Il loro secondo disco si intitola Alien Soundtracks, musiche scritte per un film (mai girato) di pornofantascienza, che meglio di altri lavori espone la cifra stilistica del gruppo: ruvida elettronica, campionamenti selvaggi dalla televisione, distorsioni a tutto campo (voci, chitarre). Punto di raccordo tra il punk e l’industrial.

Spazio anche a una comparsa, il brano Film Music, un single del gruppo belga Family Fodder registrato nel 1978, leggiadro e dunque soffocato dalla raucedine punk dell’epoca. Tutt’altra musica quella proposta nello stesso anno dal jazzista inglese Keith Tippett, che ritorna a un organico di grandi dimensioni con il progetto Ark, orchestra meno ingombrante della precedente, circa la metà dei cinquanta di Centipede, ma pur sempre di dimensioni rispettabili. Frames, Music for Imaginary Films é l’album dato alla luce dall’ensemble e segna il ritorno a una scrittura più rigorosa, a un bilanciamento tra composizione e improvvisazione da parte del pianista di Bristol.

Insomma, un solido plot. Al contrario, bisogna improvvisare molto per immaginare il lungometraggio che questa musica potrebbe commentare.
Soundtrack
senza film sempre dall’allora nuovo jazz inglese: John Surman in compagnia di Stu Martin propone un Live in Woodstock, che non è un concerto ma il commento sonoro a un fantomatico film.

Natura che più si addice al grande schermo si ritrova, invece, nella musica del jazzista Mike Mantler, proposta in due dischi Movies (1978) e More Movies due anni dopo. Grande jazz per film fuori da ogni genere, tutti da fantasticare. Stacco e nuovo cambio di scena. Si torna nel Regno Unito, 1981, protagonisti i Cabaret Voltaire, un gruppo in prima linea nella rivoluzione (musicale) industriale, formato da Stephen Mallinder, Richard H. Kirk e Chris Watson. Insieme per l’ultima volta, i tre consegnano un altro importante contributo alla musica degli anni a venire. L’occasione è il nonfilm Johnny YesNo, di Peter Care. Suoni che faranno sentire la loro influenza su un’area meno grigia della corrente industrial. Watson emigra poi nell’Hafler Trio, formazione dedita a progetti sonori parimenti stimolanti e noiosi, sempre supportati da un poderoso armamentario teorico. Passione condivisa con un altro gruppo attivo nella medesima zona oscura dei suoni, i Clock Dva di Adi Newton, che nel 1992 propongono Digital Soundtracks, album che si avvale di rimandi a Crowley, Heidegger, e Mallarmé per sostanziare il concetto di inner cinema. Un pieno di citazioni e di ritmi incalzanti, auguranti buona visione. Interiore, s’intende.

  

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