orienta59

 

di Gennaro Fucile

L’idea è divina, come tutte quelle che lasciano il segno. Almeno, stando a quanto ci racconta la fiaba dei fratelli Grimm, Il ricco e il povero. “Nei tempi antichi, quando il buon Dio errava ancora sulla terra, fra gli uomini, una sera che era stanco gli accadde di essere sorpreso dalla notte prima di poter giungere a una locanda”. Nei paraggi ci sono due case, una di fronte all’altra. Il loro aspetto racconta tutto riguardo ai suoi abitanti: una grande e bella, quanto basta per i ricchi, miserella l’altra, degna dimora di gente povera. Il buon Dio, anch’egli con l’aria di chi non se la passa proprio bene, bussa prima alla porta del ricco che, diciamo, lo manda a quel paese, poi rimedia con il povero che gli offre ospitalità. Quando il ricco capisce di essersi fatto sfuggire una ghiotta occasione per cavarne qualcosa di vantaggioso, tenta di rimediare, ma la punizione giunge puntuale per le classiche vie insondabili della provvidenza. A dir la verità, quello di apparire sotto mentite spoglie è una furbata alla quale spesso è ricorso il diavolo, ma proprio per essere una divina eccezione, la favola è memorabile al di là del corredo di insegnamenti che si trascina dietro. Proprio il diavolo, probabilmente, ci deve aver messo lo zampino nel rovesciamento di parecchie certezze che si erano consolidate nel corso della civiltà industriale, prima fra tutte la differenza tra padroni e lavoratori, secondo una vetusta terminologia. Un sospetto rimescolamento di carte si era ammirato in una fiaba moderna, quella che ha per protagonista in mille sventurate vicende il ragionier Fantozzi. Nel primo film nel quale Paolo Villaggio interpretò il suo impiegato piccolo piccolo, con la regia di Luciano Salce (1975), un insolitamente coraggioso Fantozzi si scopre comunista, si fa crescere i capelli e lancia un sasso contro la facciata dell’edificio aziendale, rompendone una vetrata. Viene immediatamente convocato dal Mega Direttore Galattico. Accolto in un ambiente ovattato che sa di paradiso, si sente rivolgere un discorso diabolico nell’anima: “Ma caro Fantozzi, è solo questione di intendersi, di terminologia. Lei dice «padroni» e io «datori di lavoro», lei dice «sfruttatori» e io dico «benestanti», lei dice «morti di fame» e io «classe meno abbiente». Ma per il resto, la penso esattamente come lei”.

Una svolta epocale. Basta finalmente con quegli schieramenti che si fronteggiano a muso duro, con quel braccio di ferro tra bene e male (salvo poi farne grande abbuffata, nel nome dell’Anello e della sua Compagnia), fine dell’opposizione capitale/lavoro e soprattutto delle insopportabili ideologie fonti di confusione, disordine, male all’economia, alla produttività, alla nazione, agli utenti e chi più ne ha più ne metta. Non è questione liquidabile in poche battute, certo, ma una breve premessa è necessaria per qualche considerazione su una trasmissione televisiva giunta in Italia alla sua terza stagione, nata da un originale format inglese, Undercover Boss. Il successo della versione originale ha prodotto diversi cloni in Usa, Spagna, Israele, Norvegia, Germania, Francia, Canada, Australia e Italia, almeno questi risultano a tutt’oggi. Titolo rimasto fedele in italiano, Boss in incognito, anche se a prima vista suona come quello per un inedito sceneggiato sul tema criminalità organizzata, per via di quel Boss che da noi rimanda (per ora) a quel mondo e non ai dirigenti di aziende che operano alla luce del sole nel pieno rispetto della legalità. I protagonisti sono tutte persone oneste, ci mancherebbe, che oltre alle vicende di ogni singola puntata, tutte insieme raccontano di un grande passaggio epocale. Piaccia o meno, sia veritiero oppure no, poco importa. Qui, l’interessante è tutt’altro. Intanto, come funziona il programma? In ogni puntata un imprenditore, truccato come nemmeno Tom Cruise in Mission Impossible, si infiltra tra le maestranze spacciandosi per neo assunto, seguito da una troupe televisiva, che a sua volta si presenta in azienda sotto copertura, ovvero con il pretesto di dover girare documentari sulla crisi e sul lavoro (nelle prime due stagioni) e di lavorare per un talent show nella terza edizione tuttora in corso. In questo modo la presenza delle telecamere risulta più che giustificata. Ogni puntata si conclude con il giudizio finale: la maschera cade e i dipendenti che lavorano gomito a gomito con il finto collega vengono esaminati ed eventualmente premiati dal Boss. Tutto qui.

 

 

Tutto qui?

Bisogna premettere che di clienti misteriosi in giro per supermercati e ristoranti ce ne sono in giro da decenni, sguinzagliati per verificare onestà, professionalità, qualità di dipendenti del commercio ed esercenti della ristorazione; quindi il dirigente che si cela sotto mentite spoglie vanta precedenti a ripetizione, anche se qui si è molto più parte in causa di chi trova mal fatta una paella. 

Anche in materia di inattendibilità non è certo Boss in incognito a lasciare più perplessi di altri reality e tantomeno scandalizza l’iniziativa di product placement sottesa al concept stesso del programma. Men che mai stupisce il ricorso al più fruttifero strumento di marketing di questi tempi, lo storytelling aziendale, declinato oramai in tutte le salse. I vincitori da sempre scrivono la storia.

Un primo elemento distintivo rispetto alla galassia del factual show, prodotti tutti in realtà ibridi l’uno rispetto all’altro, è che in questo caso si è dentro le realtà del lavoro contemporaneo. Quindi non cucina, fai da te, giardinaggio, moda, trucco, auto, animali domestici, rapporti genitori-figli, tutti ambiti pertinenti al tempo libero, ma un’incursione nel tempo del lavoro. Qui scopriamo che le aziende sono fatte da uomini, non da semplici pedine da far trottare sullo scacchiere della lotta di classe, come erroneamente ipotizzato tempo addietro. Ammiriamo la sensibilità dell’imprenditore, la sua capacità di osservazione e di giudizio, veniamo insomma finalmente a conoscenza del carico di responsabilità di cui si fa carico chi conduce un’impresa e di come venga soppesata ogni singola scelta, anche dolorosa, come sanzioni e licenziamenti, nei confronti delle proprie maestranze (i collaboratori, il capitale umano dell’azienda, come si insegna all’Università Bocconi). Sfilano sullo schermo ritratti di gente che lavora, che sbaglia, che ci mette passione, sente l’azienda come propria, esattamente come il Boss, che dickensianamente elargisce infine doni, premi ed elogi. 

Quello che marca davvero la differenza in questo programma è la posizione dell’osservatore che al contrario di quello del celebre Panopticon benthamiano non resta nella torre d’osservazione, ma in compagnia di un nugolo di telecamere i cui fini sono truccati così come il Boss, scende e osserva da vicino che più da vicino non si può gente che lavora, bene o male, ma che lavora. Uno sguardo troppo ravvicinato si sa deforma, altera, ricrea l’oggetto osservato, lo rende anche irriconoscibile rispetto a come lo percepiamo di norma, riesce talvolta a promuoverlo esteticamente, oppure ad alienarlo del tutto. Niente di nuovo, certo. Sono le logiche sottese alla pornografia e anche qui, non c’è scandalo, anche perché questo è il vero segno dei tempi, la produzione di esibizioni a mezzo di esibizioni, le une che alimentano le altre. L’osceno come dimensione quotidiana. Assenza di margini, di pareti divisorie, di differenze (come è simile quel Boss alla sua gente). Palestre, ristoranti, parrucchieri e barbieri, ovunque i clienti sono in vetrina, come lo sono nei social network i loro ricordi o qualsiasi altro dato ritenuto degno di essere mostrato (tutto, nei fatti). Boss in incognito è però un passo avanti (?), perché varca la soglia del mondo del lavoro, o meglio è il mondo del lavoro che apre la porta e fa il suo ingresso definitivo nella società dello spettacolo. Appare un passo radicale, perché mutati sono i lavoratori ma anche i datori di lavoro. Una prova? Chi vedrebbe il Mega Direttore Galattico truccarsi per osservare da vicino Fantozzi, Filini e la signorina Silvani? Lui, il Duca Conte Giovanni Maria Balabam, preferiva fingersi una signora anziana per insidiare gli allievi della scuola svizzera. Meno osceno, a ben vedere…