VISIONI / THE MAN IN THE HIGH CASTLE


di Frank Spotnitz / Amazon Studios, 2015


 

Nel peggiore dei mondi adiacenti


di Giovanni De Matteo

 

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La sensazione che si ricava fin dalle primissime immagini di The Man in the High Castle è di profondo straniamento. Chi già conosce il romanzo che valse a Philip K. Dick l’unico Premio Hugo della sua carriera potrebbe credersi pronto per ciò che lo aspetta, eppure la serie coprodotta da Ridley Scott per Amazon Prime riesce ad aprirsi un varco e a sorprendere la sua guardia. A partire dalla sigla, ipnoticamente scandita dalle bobine di un proiettore, un espediente che anticipa il congegno narrativo al cuore della serie; e che viene ripreso già nella prima scena, dove in un’eco della sigla assistiamo alla proiezione di una pellicola di propaganda che culmina in una bandiera a strisce in cui una svastica ha sostituito le stelle nel quadrante blu, mentre tra le poltrone si conclude una consegna che mette in moto gli eventi; la successiva scena, la prima in esterni, ci catapulta per le strade notturne di una New York City profondamente “aliena”, in cui il volto dell’Ur-Führer Hitler campeggia sui cartelloni pubblicitari e i vessilli del Terzo Reich dominano Times Square. È una progressione che insinua nello spettatore un disagio crescente, che è quello che ogni valido racconto di storia alternativa si prefigge di ottenere. E che a Dick riuscì in maniera egregia con il suo romanzo del 1962, pubblicato a più riprese in Italia sia sotto il titolo ormai leggendario de La svastica sul sole che con quello più aderente all’originale de L’uomo nell’alto castello, e che, sebbene preceduto di dieci anni da Sarban con il suo Il richiamo del corno, resta a oggi il termine di paragone insuperato per ogni storia che voglia confrontarsi con l’ipotetica vittoria nazista nella Seconda Guerra Mondiale.

Nel 2015, sulla scorta degli ottimi riscontri raccolti dall’episodio pilota, gli Amazon Studios hanno messo in lavorazione questa stagione da dieci episodi che rappresenta la prima serie tratta dalla produzione di Dick, già ampiamente sfruttata dalle major hollywoodiane. La mente dietro il progetto è di Frank Spotnitz, che vanta all’attivo diverse collaborazioni con Chris Carter, prima come sceneggiatore di X-Files, poi in veste di produttore per Millennium e quindi come ideatore e produttore esecutivo della sfortunata The Lone Gunmen. Sulle orme di Dick, Spotnitz ci sbalza in un’America del Nord che non somiglia nemmeno lontanamente a quella che abbiamo imparato a conoscere attraverso le rappresentazioni artistiche, letterarie e cinetelevisive dell’ultimo mezzo secolo. Siamo nel 1962, la Seconda Guerra Mondiale è finita da quindici anni e il mondo è diviso tra le rispettive sfere d’influenza delle potenze uscite vincitrici dal conflitto, che in questo universo parallelo sono la Germania e il Giappone. Il Terzo Reich ha preso il controllo della costa orientale, mentre l’Impero del Sol Levante ha instaurato un governo fantoccio negli Stati Americani del Pacifico. Tra le due entità si estende una zona neutrale corrispondente agli Stati delle Montagne Rocciose, in larga parte disorganizzati e non soggetti a nessun controllo giuridico, che funge da cuscinetto tra i due blocchi.

Il what if è alla base del filone narrativo dell’ucronia, che giocando con gli sbocchi alternativi degli eventi nodali della storia ne segue gli sviluppi fino alle estreme conseguenze. Cosa sarebbe successo se gli Usa non avessero avuto alla guida Franklin Delano Roosvelt durante la Grande Depressione? Questa è la premessa della storia parallela di Dick, con gli Stati Uniti fiaccati dalla crisi economica che si chiudono in un miope isolazionismo di fronte all’avanzata delle potenze dell’Asse, fino a essere messi in ginocchio dall’attacco giapponese a Pearl Harbor, costretti ad assistere impotenti allo sterminio della popolazione sovietica da parte delle truppe naziste e infine costretti alla resa e all’umiliazione della sconfitta, rappresentata non solo dalla sottomissione ma addirittura dalla spartizione del proprio territorio tra i vincitori. Nell’operazione di Dick è evidente il gusto per il paradosso: La svastica sul sole prende gli effetti della guerra sulla Germania e opera un ribaltamento, applicandoli agli Stati Uniti. La costruzione del muro di Berlino, non dimentichiamolo, risale al 1961, mentre il romanzo era in fase di elaborazione. La serie, se vogliamo, si spinge ancora oltre, ipotizzando che gli Usa abbiano ricevuto il colpo di grazia dal bombardamento atomico di Washington, arrivando così a instaurare un analogo parallelo anche con l’epilogo della guerra sul fronte del Pacifico.

Ciò che resta degli Stati Uniti sono soprattutto macerie, specie nell’ovest, ridotto a una colonia da terzo mondo di un conquistatore tecnologicamente non particolarmente avanzato come il Giappone imperiale; ma la serie ha il merito di mostrarci anche cosa accade sulla East Coast, che il romanzo suggerisce solo attraverso riferimenti indiretti. Qui l’assoggettamento al Reich ha portato uno sviluppo industriale e una qualche ricaduta economica, ma la classe media è di fatto espressione univoca dell’apparato di partito. Nella New York sottomessa ai nazisti il potere è amministrato da uomini in divisa, che vivono nelle villette con giardino dei suburb, salutano cordialmente i vicini al grido di “Sieg Heil!” e celebrano la festa nazionale del V-A Day (Victory over America), anche noto come “il giorno della liberazione”. In questa provincia monocolore dell’Impero, “liberata” dall’ingombro di ebrei e afroamericani, non c’è margine di tolleranza per le diversità: gli anziani e i malati sono visti come pesi inutili o minacce alla purezza della razza, e destinati all’eutanasia di stato e alla cremazione nelle strutture deputate presso i presidi ospedalieri, seguendo implacabili palinsesti settimanali. Il terrore si insinua nelle relazioni tra i cittadini, in un clima di sospetto e paranoia diffuso soprattutto nelle classi sociali più basse, soggette a un controllo che si esercita attraverso l’infiltrazione di spie per raccogliere informazioni e disinnescare sul nascere ogni possibilità di insurrezione. Agenti sotto copertura vengono anche usati dalle stesse organizzazioni del potere nazista per controllare potenziali rivali nella scalata al potere, in una internecine che prelude alla guerra tra bande che si scatenerà in tutta la sua violenza alla morte del Führer.

Nella serie il popolo americano non è tuttavia stato definitivamente ridotto alla cieca e vile obbedienza. Qualcuno tiene ancora in vita una forma tutto sommato abbastanza tenace, per quanto evanescente, di resistenza. Gli ultimi patrioti hanno le loro basi operative nelle Montagne Rocciose, ma l’organizzazione si ramifica fino a raggiungere le città costiere, New York da una parte, San Francisco dall’altra. La città di Canon City, in Colorado, crocevia delle loro trame, offre anche una delle ambientazioni più suggestive della serie, richiamando alcuni dei migliori capitoli della serialità americana, nella fattispecie Un medico tra gli orsi (con cui condivide la location di Roslyn, nello stato di Washington) e Twin Peaks, esplicitamente richiamato in uno scambio di battute tra due personaggi.

L’introduzione dei ribelli rappresenta un altro significativo scostamento dal romanzo di Dick, che non contemplava nessuna forma di resistenza all’occupazione dei nazisti e dei giapponesi se non quella di natura prettamente intima, spesso in effetti relegata alla dimensione privata, dei singoli individui. Nel tempo si sono succeduti diversi tentativi di portare The Man in the High Castle sul grande o sul piccolo schermo, e tutti si sono incagliati in qualche fase intermedia del processo produttivo. Secondo Spotnitz e la produttrice esecutiva Isa Dick-Hackett, figlia dello scrittore nonché sua erede e amministratrice dei diritti di sfruttamento della sua produzione, l’inclusione di questa traccia è stata indispensabile per la riuscita dell’operazione: la visione di un’America non solo piegata, ma addirittura incapace di organizzare qualsiasi forma di opposizione a invasori tanto crudeli e inumani, sarebbe stata “critica” da proporre sul mercato domestico. Con un tocco di ironia che non sarebbe dispiaciuto a Dick, i membri di questa organizzazione segreta che vediamo operare tra i boschi e le città abbandonate dell’entroterra, come pure nei bassifondi delle metropoli, sono quasi tutti uomini di colore e donne, due “minoranze” discriminate che nella nostra linea temporale proprio in quegli anni rivendicavano il proprio ruolo nella società americana, attraverso il movimento per i diritti civili e la seconda ondata del femminismo.

Le differenze tra romanzo e serie non si fermano qui e instaurano una fitta rete di rimandi che riesce a rinvigorire le corrispondenze e consente in questo modo di apprezzare ancora più a fondo l’impegno e le scelte della produzione. I personaggi principali ideati da Dick, per esempio, sono tutti presenti, ma quasi tutti sono il risultato di un processo di riscrittura più o meno radicale. Come accade spesso ai protagonisti dell’autore americano, nella loro versione originale sono – per usare un eufemismo – figure incapaci di ispirare simpatia nel lettore: persi nelle loro manie e ossessioni, oscillano tra l’egoismo, l’egocentrismo e varie forme di sociopatia, e nei casi più fortunati solo alla fine del loro arco narrativo, una volta compiuto il percorso che li ha portati a un qualche tipo di redenzione o illuminazione, riescono a riscattarsi anche agli occhi del lettore. Ovviamente personaggi simili non avrebbero avuto la minima speranza di reggere la prova dello schermo, e così vediamo Juliana Crain, Frank Frink e Joe Blake (nel romanzo Cinnadella) assumere tutto un altro spessore. In particolare Juliana, interpretata da una magnetica Alexa Davalos, si ritaglia con bravura lo spazio che spetterebbe a una primadonna, pure in una storia corale com’è The Man in the High Castle; Frank (Rupert Evans), che nel romanzo è l’ex-marito di Juliana, qui è ancora il suo compagno, anche se le loro storie si sviluppano su binari paralleli per tutta la parte centrale della serie, condividendo fisicamente la scena solo nella prima e nell’ultima puntata, le più drammatiche; Joe, infine, perde ogni connotazione mediterranea (nel romanzo era un sicario svizzero che si fingeva italiano) e, con le fattezze di Luke Kleintank, da semplice ruolo secondario diventa un agente doppiogiochista del Reich, che va acquisendo progressivamente consapevolezza degli orrori su cui si fonda il regime totalitario al cui servizio agisce. Da una costola di Joe Cinnadella sembra derivare il personaggio del Marshall, il cacciatore di taglie che semina il terrore lungo le strade delle Montagne Rocciose, inseguendo i fuggitivi ed eliminando i ricercati per conto del governo di occupazione nazista. Tra gli altri personaggi presenti nel romanzo, l’antiquario Robert Childan e il nazista pentito Rudolph Wegener, che cerca di scongiurare un attacco nucleare tedesco ai danni delle Isole Patrie, vengono forse un po’ sacrificati per lasciare spazio ai nuovi arrivati, figure del tutto assenti nel romanzo come l’ispettore capo Kido della Kempeitai di San Francisco e soprattutto il gerarca nazista John Smith, interpretato da Rufus Sewell in una performance che ricalca a tratti l’istrionismo di Christoph Waltz nel capolavoro tarantiniano Bastardi senza gloria. Conserva invece la sua statura Nobusuke Tagomi (interpretato da Cary-Hiroyuki Tagawa), che se nel romanzo è un funzionario del governo giapponese, qui viene promosso a Ministro del Commercio dei Pacific States of America, e persegue in maniera ancora più consapevole e attiva che nel libro la propria missione segreta in difesa della pace. È interessante notare come Tagomi, che era un po’ l’alter ego dell’autore, di tutti i personaggi originali nella trasposizione rimanga l’unico a consultare sistematicamente l’I Ching, l’oracolo cinese che ricorre ripetutamente nei momenti cruciali del romanzo e a quanto pare servì anche da ispirazione e guida per lo stesso Dick durante la sua stesura.

A muovere la girandola degli eventi è la caccia a un reperto che potrebbe rivelare al mondo una verità sconvolgente. Nella dittatura del pensiero unico instaurata dal Terzo Reich non c’è niente di più minaccioso di un punto di vista alternativo, e quest’alternativa è rappresentata da una collezione di pellicole che documentano una realtà diversa: un mondo in cui le potenze dell’Asse sono uscite sconfitte dalla guerra, un mondo in cui l’America è libera. Se nell’opera di Dick questa alternativa era rappresentata da un libro che dipingeva questo scenario ucronico, The Grasshopper Lies Heavy (La cavalletta più non si alzerà), in un gioco di specchi squisitamente dickiano appare come una soluzione narrativa filologicamente ineccepibile la scelta di trasformare il libro clandestino in un film illegale. Ne viene tuttavia alterata la natura in maniera significativa: questi artefatti, per dirla con Dick, non sono originari del mondo dei personaggi, ma sembrano provenire da una linea temporale parallela, quello che l’autore avrebbe definito, negli appunti del progettato seguito del romanzo e nelle stesure provvisorie dei suoi primi capitoli, Nebenwelt, ovvero “universo adiacente”. Sulle tracce di queste pellicole si muovono gli uomini della resistenza, nelle cui trame finiscono coinvolti Juliana, dopo aver assistito accidentalmente all’uccisione della sorellastra da parte degli agenti della Kempeitai, e il funzionario del Reich John Smith con il suo uomo sul campo Joe Blake. E se nel libro “l’uomo nell’alto castello” altri non era che Hawthorne Abendsen, l’autore de La cavalletta più non si alzerà, l’adattamento di Spotnitz opera un’ulteriore slittamento e ribalta il ruolo della sorgente (in termini di teoria della comunicazione) in quello del destinatario, facendone il “collezionista” che sguinzaglia i suoi agenti per il mondo a caccia dei preziosi reperti, che assume inoltre i connotati di un personaggio che nel libro non entra mai in scena, pur allungano la sua ombra sinistra su ogni pagina e su ogni riga.

Un’altra modifica intelligente adottata dalla produzione riguarda infine il rapporto tra le pellicole e la realtà. Già nel romanzo l’universo parallelo immaginato da Abendsen non combaciava con il nostro: nella storia della Cavalletta, la guerra era sì stata vinta dagli Usa, ma solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica, con il risultato che a contendere l’egemonia americana sul mondo nel dopoguerra era l’Impero Britannico. Questo elemento apriva così, dopo la biforcazione della storia, la prospettiva su una moltiplicazione delle realtà possibili, di cui la nostra era solo una delle tante alternative – non l’unica – al mondo da incubo di Juliana, Frank e Tagomi. Nella serie si scopre ben presto invece che ogni pellicola documenta un universo diverso. La domanda inevitabile sulla provenienza delle pellicole, siamo costretti a rilevare, resterà purtroppo inevasa. Ma solo per il momento, visto che il finale lascia aperto lo spiraglio a una seconda stagione che Amazon ha già messo in produzione.

Sottolineato dalla presenza di origami e omaggi a Stanley Kubrick, il nome di Ridley Scott tra i produttori si conferma una garanzia in abbinamento con il visionario autore americano. Più di trent’anni dopo Blade Runner, questo nuovo “sodalizio” spazza via le incertezze delle ultime prove cinematografiche del regista e produttore inglese (si veda alla voce Prometheus), regalandoci un nuovo autentico gioiello fantascientifico. The Man in the High Castle valorizza al massimo tanto il potenziale emotivo e intellettuale del romanzo quanto i requisiti del formato seriale. Le dieci puntate di questa prima stagione offrono uno spazio più che sufficiente, come dimostrato anche da altri successi recenti della nuova serialità anglosassone, per sviluppare con efficacia l’arco narrativo dei personaggi e scavare a fondo nelle pieghe delle trame e dei mondi che vengono portati sullo schermo. Specie di fronte all’implacabile standardizzazione delle pellicole hollywoodiane, ci sembra che sia sempre più questo il formato più adatto per un racconto complesso, articolato, al passo coi tempi e soprattutto rivolto a un pubblico maturo e consapevole: serie antologiche come le americane True Detective e Fargo, o produzioni britanniche come Life on Mars, Ashes to Ashes, Torchwood, Sherlock, Black Mirror, con le rispettive peculiarità riescono a testimoniarcelo.

Mentre gli eventi precipitano in una spirale di violenza e terrore, i personaggi di The Man in the High Castle cercano di mantenere un precario equilibrio sul filo del rasoio. La tortura e l’inganno sono solo due delle prove più subdole a cui il destino li sottoporrà ripetutamente. Subiranno perdite, riceveranno ferite che avranno difficoltà a rimarginarsi. L’importanza della scelta, già sostenuta da Dick, viene qui più volte rimarcata, in una critica al conformismo, all’adesione per convenienza, alla rassegnazione, come pure alla schiavitù della paura. Perché sono tutti questi atteggiamenti a favorire l’avvento di regimi totalitari abominevoli. E di fronte alla moltiplicazione dei “mondi paralleli”, è impossibile non pensare alle versioni alternative di noi stessi e dei nostri cari, che tra gli infiniti possibili universi adiacenti al nostro potrebbero essere nate e cresciute in un mondo dominato dal Reich Millenario. Cosa avremmo fatto noi se ci fossimo trovati nei panni di Juliana, Frank, Tagomi, Joe, oppure dello stesso Obergruppenführer John Smith?

“Il fato è mutevole”, ripete il signor Tagomi, “il destino è nelle mani degli uomini”. E in questo ci sembra di riscontrare la maggiore e più sincera aderenza della serie allo spirito originario. I personaggi di The Man in the High Castle riescono a elaborare un piano di riscatto attraverso la fiducia reciproca, un elemento che era del tutto assente nel romanzo di Dick, e così facendo la serie prospetta una sua soluzione al dilemma morale posto dall’autore californiano. Ma il gioco del what if impone a ciascuno di noi di trovare una risposta appropriata. In attesa della seconda stagione, possiamo tenerci occupati pensando a una soluzione.

 


 

LETTURE

Charlie Jane Anders, It’s a Freaking Miracle That We Got a Man in the High Castle TV Show, 19-11-2015,
(io9.gizmodo.com/it-s-a-freaking-miracle-that-we-got-a-man-in-the-high-c-1743627196).
Philip K. Dick, La svastica sul sole, Fanucci Editore, Roma, 2015.
Michael A. Elliott, American Nostalgia, 8-1-2016, Los Angeles Review of Books (lareviewofbooks.org/essay/american-nostalgia).
Sarban, Il richiamo del corno, Adelphi Edizioni, Milano, 2015.

 

VISIONI

  Mark Frost e David Lynch, Twin Peaks – I segreti di Twin Peaks – Serie Completa, Paramount, 2014 (home video).
Ridley Scott, Blade Runner, Warner Home Video, 2008 (home video).
Quentin Tarantino, Bastardi senza gloria, Universal Pictures, 2010 (home video).