ASCOLTI / PAINTINGS


di Peter Kowald, Barry Guy / Fmp – Destination out – Bandcamp, 2015


 

Il contrabbassista semplice e complesso


di Sandro Cerini

 

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* L’uomo nelle due fotografie (prima e quarta di copertina d’un libro) pedala su un triciclo per adulti: una cinghia a bandoliera sul torace assicura solidamente la custodia di un contrabbasso. La consuetudine del comportamento è espressa dalla specularità dei due ritratti, diversi nel fattore tempo: nel primo – la bicicletta a procedere in discesa – la stagione consente un abbigliamento più leggero; nell’altro, invece – la strada e il luogo sono i medesimi (ne fanno fede la ringhiera in primo piano e un segnale stradale), cambia soltanto la direzione, stavolta in salita –, il clima è decisamente meno favorevole: il ciclista indossa guanti, cappello e un pesante giaccone.

Il ciclista è il contrabbassista tedesco Peter Kowald (Masserberg, 21.4.1944 – New York, 21.9.2002); la città è Wuppertal; la strada è Luisenstraße, ove al numero 116 v’è tuttora l’abitazione che fu la sua dimora. Il libro è Almanach der »365 Tage am Ort«, realizzato da Kowald insieme alla fotografa Nicole Aders: cronaca narrativa, documentaria e fotografica dell’anno sabbatico che l’artista – simbolo musicale di una vita itinerante, consacrata e spesa coerentemente in nome della ricerca di materiali improvvisativi “altri” – si concesse nell’anno del proprio cinquantesimo compleanno, dal 1° maggio 1994 al 30 aprile 1995. Così trasformò la casa di Wuppertal – di solito base per le numerose partenze – in un porto stanziale di tranquillo approdo, il “luogo” (Ort) ove tutti i sabati alle 19:00 musicisti famosi o meno, artisti visuali, danzatori, artisti senza altra patente di specializzazione, interessati o semplici curiosi si riunivano per condividere un’esperienza di vita. Lo strumento funge quasi da estensione corporea: Fabrizio Spera (attivo da anni come musicista e organizzatore nell’ambito delle musiche di ricerca) ha riferito che Kowald, invitato al festival Controindicazioni, avrebbe preferito sostenere il lungo viaggio in treno da Wuppertal piuttosto che privarsi del proprio contrabbasso (la morte, poi, vanificò ogni progetto). Proverbiale, infine, la determinazione dell’uomo: Franco D’Andrea (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 53) condivise con lui un tour che vedeva il Perigeo – insieme al duo composto da Keith Tippett (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 34) e Kowald – in appoggio ai Soft Machine, ancora oggi si dice ammirato della decisione con cui il tedesco affrontava un pubblico avvezzo soprattutto al progressive, con null’altro che la propria musica, reale espressione di sé. 

L’occasione per ripensare la figura di Kowald (ogni intento biografico che non potesse contare sulle dimensioni del trattato suonerebbe scioccamente velleitario, avendo praticamente Kowald preso parte a tutte le formazioni più importanti nell’area dell’improvvisazione europea, per un totale di circa centocinquanta titoli discografici) era già stata offerta dalla pubblicazione del cofanetto Discography, nel 2014. Qui basterà ricordarne la presenza angolare nel quartetto del pianista Alexander von Schlippenbach e nella Globe Unity Orchestra, della quale fu condirettore, per un lustro, dal 1973 (suonandovi anche la tuba).

Ora la possibilità si rinnova, per la ristampa in files digitali di tre storici album per duo di contrabbassi, originariamente editi dalla FMP. Si tratta di: Die Jungen: Random Generators, con Barre Phillips (in origine Fmp 0680, 1979); Paintings con Barry Guy (Fmp 0960, 1981) e Two Making a Triangle, con Maarten Van Regteren Altena (Fmp 0990, 1983), tutti riediti integralmente per la prima volta in formato digitale, seppur “liquido”, dopo che degli estratti erano stati pubblicati nel cd della Fmp Bass Duets nel 1999.

Tre partner di tutto rispetto: Guy è tuttora “sicuramente tra i maggiori esponenti del jazz inglese, come emerge anche solo da un rapido sguardo alla sua carriera, tutta sotto il segno del doppio, che vede convivere l’improvvisatore e il compositore, il solista e il direttore d’orchestra, il leader e il partner, il contrabbassista e il violoncellista, il jazz e la musica barocca, il jazz e la musica contemporanea, quest’ultima e il barocco” (cfr. Ancore/Ascolti in "Quaderni d'Altri Tempi" n. 51).

Altena è figura altrettanto di spicco della scena olandese fiorita intorno all’Instant Composers Pool nel segno della totale anti convenzionalità e l’amico americano, Phillips non è da meno quanto a sconfinamenti dalla tradizione. Fu anche membro del Trio con John Surman e Stu Martin di cui si parla in questo numero (cfr. Ancore/Ascolti).

Riconsiderare la figura di Kowald non appare tanto indispensabile in vista dell’arduo cimento d’una “rilettura” integrale della sua discografia, ma piuttosto per individuare alcuni elementi caratteristici e ricorrenti nel suo pensiero, che ne rivelano la profondità e insieme la visione globale. In ciò risultano di estrema utilità sia il corposo dialogo tra Kowald e Michael Heffley, sia l’ultima intervista rilasciata dal musicista, subito prima della morte, al Monastery Bullettin (Peter Kowald: Musical Refugee).

“Act local, think global”: tutto sembra ruotare attorno a queste due dimensioni e alla loro tensione immanente. L’aspirazione alla globalità è connaturata all’essenza kowaldiana di viaggiatore instancabile: tale “attitudine” viene dichiarata e spiegata come un’aperta reazione alla mancanza di ogni possibile radicamento culturale popolare, retaggio dell’esperienza vissuta dalla Germania e dal popolo tedesco con il nazismo: “ogni tradizione tedesca fu usata da Hitler, per il fascismo, sicché negli anni Cinquanta noi siamo cresciuti come bambini che non potevano cantare canzoni. Perché Hitler le aveva prese tutte, per i suoi scopi e così, improvvisamente, dopo Hitler, tutte le nostre radici sono cadute in disuso e non abbiamo potuto avere radici di alcun genere” (Monks, 2001). Questo da un lato spiega la ricerca bulimica dell’altro, dei materiali locali più disparati, di tutte le radici possibili; tuttavia sempre condotta nel tentativo di trasformare quanto raccolto – guardato sempre attraverso il “filtro del rispetto” –, nel riviverlo in maniera propria e come qualcosa di diverso, non limitandosi a utilizzarlo come un oggetto importato e riproposto. Ciò è possibile se si coltiva la piena consapevolezza che non esiste un solo centro, ma una molteplicità di avvenimenti indipendenti che si producono nello stesso momento. Kowald sottolinea con forza (cfr. Heffley) che tradizioni, prassi e strumenti locali (lo shakuhachi piuttosto che il bandoneon, i tamburi africani o l’ascolto dei monaci che cantano i Sutra), posseduti in origine o raccolti, possono essere lasciati dal musicista alle proprie spalle, facendo un passo oltre, entrando in quello che Kowald chiama “die Moderne”. Da ciò può nascere una condizione nuova, la globalità delle situazioni musicali “[…] that makes another global village, not the Coca-Cola global village […] Here it's possible to have the mix without making it a soup” (Heffley). Durante l’anno trascorso nell’Ort Kowald – come in tutta la sua vita – ha approfondito il tema delle interazioni di tipo locale, al servizio dei musicisti più giovani, cercando di chiarire il concetto di “identità locale” e la sua importanza.

Un altro esploratore di suoni italiano, Marcello Magliocchi ha riferito dell’assoluta disponibilità di Kowald a improvvisare con qualsiasi altro musicista, purché come forma di condivisione d’una manifestazione della vita, entro il comune perimetro della musica improvvisata come “relazione sociale”. Spera ha confermato la totale apertura verso i giovani, ricordando che Kowald – ponte tra due generazioni di musicisti – portava di solito con sé non soltanto i propri dischi, ma anche quelli di giovani musicisti di Wuppertal da far conoscere. 

Il tema si ricollega anche a quello dello sviluppo di una propria identità, di una propria voce. Come detto, un forte aspetto identitario è nella simbiotica relazione di Kowald con lo strumento, che può spiegare la sua naturale tendenza a suonare in solo (ma nella sterminata produzione discografica, i dischi in solo sono soltanto quattro). Essa per altro verso trova una possibile causa nell’altra tendenza costante: conciliare l’antitesi semplice-complesso (“I want to play simple and complex at the same time”).

Il “formato del duo”, d’ogni genere, era certamente prediletto. Ciò è in parte spiegato dalla coltivazione di un pungente paradosso (che dimostra ancora una volta la curiosità dell’artista): se la formazione minima è il trio, allora il duo è una non-formazione, che crea una situazione particolare, virando in direzione della conversazione, con tutti i rischi a essa connessi (anche nel senso del mancato sviluppo) e mette totalmente in gioco le personalità, i linguaggi e le attitudini stilistiche differenti.

In favore dello specifico duo di contrabbassi militano una certa tradizione e la notevolissima capacità di estensione (e di espressione) degli strumenti: ciò che offre ai musicisti la possibilità di condividere o contrapporre porzioni differenti degli stessi e dello spettro sonoro.

Questo e molto altro emerge dai tre album ristampati: ciascuno di essi si propone come estremo sviluppo delle tecniche performative, convenzionali e non, e delle stesse possibilità “fisiche” dello strumento. Nello storico duo con Phillips di Die Jungen: Random Generators vengono esaltati maggiormente aspetti ritmici e strutturali, che conducono alla edificazione di un vero e proprio discorso, mentre il duo con Maarten Altena di Two Making A Triangle, vira verso un senso di maggiore rarefazione e apertura spaziale.

Ma è probabilmente il duetto con Guy, Paintings, quello dei tre capace di generare il maggiore impatto immediato: esso spicca per la sua energia tumultuante e scura, sempre priva di cadute di tensione, e per la dimensione di costante confronto/scontro quasi corporeo. Di ciò è riprova, in particolare, il lungo magnifico brano eponimo di chiusura, vera summa dell’esperienza.

 


 

* Questo articolo non sarebbe stato scritto senza l’amichevole condivisione di spunti, ricordi e materiali da parte di Franco D’Andrea, Marcello Magliocchi e Fabrizio Spera, cui va il ringraziamento dell’autore e della rivista. In ciò è la migliore riprova che la musica improvvisata è una realtà sociale, che presuppone un senso di comunità e di condivisione e la creazione nel tempo di una rete umana, come pure l’educazione al saper comunicare. Peter Kowald lo ha testimoniato in vita (nda).

 


 

ASCOLTI

  Globe Unity Orchestra and Guests, Pearls, 1977, destination-out.bandcamp.com/album/pearls.
Peter Kowald, Duos: Europa – America – Japan, Fmp 1991.
Peter Kowald, Duos 2: Europa – America – Japan, Fmp 2003.
Peter Kowald, Discography, Jazzwerkstatt, 2014.
Peter Kowald, Barre Phillips, Die Jungen: Random Generators, 1979,
destination-out.bandcamp.com/album/die-jungen-random-generators.
Peter Kowald, Maarten Altena, Two Making A Triangle, 1983, destination-out.bandcamp.com/album/two-making-a-triangle.
Schlippenbach Quartett, Three Nails Left, 1975, destination-out.bandcamp.com/album/three-nails-left.

 

LETTURE

  Larry Appelbaum, Interview: Peter Kowald (larryappelbaum.wordpress.com/2011/01/17/interview-peter-kowald/),
gennaio 2011.
Michael Heffley, Peter Kowald, www.academia.edu/4914378/Peter_Kowald
Vanita & Joe Monks, Peter Kowald: Musical Refugee (Antwerp, Saturday August 4, 2001)
(intervista al Monastery Bullettin www.monastery.nl/bulletin/kowald/kowald.html).

 

VISIONI

  Ebba Jahn, Rising Tones Cross, A Jazz Film By Ebba Jahn, FilmPals (home video).
Peter Kowald, Almanach der «365 Tage am Ort» Luisenstraße wuppertal, König, Colonia, 1998.