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di Fiorenza Gamba

 

La società contemporanea sembra essere condizionata da alcuni imperativi, tra cui uno dei più diffusi è senza dubbio il piacere in tutte le sue forme. Così la nostra vita sociale e individuale è disseminata di piaceri da raggiungere necessariamente: piaceri dei sensi certo, ma anche piacere dello spirito così come dell’anima. In questa tensione verso la felicità, la sofferenza che deriva dal dolore è dichiarata scomparsa? O è dimenticata, soltanto nascosta alla vista? Oppure, a dispetto dell’estensione della felicità e del piacere, il dolore e la sofferenza sono una presenza costante, anche se spesso invisibile nella vita umana? Abbiamo chiesto a David Le Breton, che nel suo Esperienze del dolore, pubblicato in Italia da Raffaello Cortina Editore, indaga il rapporto tra dolore e sofferenza, di rispondere a qualche domanda su questo tema.

 

m02 In un contesto che insegue il piacere ad ogni costo, in cui ogni aggressione all’integrità della persona come la morte e la sofferenza è respinta con forza all’infinito, cos’è la sofferenza?

Il dolore appartiene alla condizione umana, nessuno vi sfugge prima o poi, quale che sia la sua età, la sua condizione sociale e culturale o il suo livello di salute. Esso colpisce in modo provvisorio o duraturo secondo le circostanze. Ma generalmente non ha altra conseguenza che un disagio di qualche ora, presto dimenticato una volta ottenuto sollievo. Il dolore rimanda sempre a un contesto personale e sociale che ne modula la percezione. È impossibile nella vita sfuggire un giorno o l’altro a un mal di schiena, un’emicrania, un mal di pancia, un mal di gola, una carie, un taglio, una bruciatura, un colpo contro una porta, una caduta, oppure a un incidente. I miti culturali che davano un senso al dolore non esistono più. Le antiche rappresentazioni culturali associate al dolore sono scomparse, rimpiazzate da una visione puramente tecnica che dismette qualsiasi iniziativa dell’individuo al riguardo e lo priva di ogni controllo. Una soluzione tecnica, una molecola appropriata è tenuta a dare sollievo. Egli non è che indirettamente sollecitato in questa lotta. Ma il fatto di affidarsi agli altri considerandosi alla fine come estraneo a se stesso accentua la sofferenza se la medicina non ha una risposta appropriata. Il dolore è diventato un fatto privato, al giorno d’oggi non è più inscritto in una rappresentazione comune in grado di attribuirgli un senso che superi l’individuo. Infelicità personale, esso non è più tenuto a sollecitare le risorse dell’individuo per combatterlo, e questi deve affidarsi ai medici per esserne liberato. Nel mio libro cerco esattamente di mostrare che il dolore non esiste che attraverso il significato che ha per l’individuo. Che non è mai completamente privo di risorse davanti ad esso.

 

Il dolore è un’esperienza ambigua, ma anche se si ha la tendenza ad assimilare la sofferenza legata ad esso a un’accezione negativa, possiamo considerarlo in un’accezione più vasta in cui la separazione tra positivo e negativo diventa confusa o in ogni caso relativa?

Se il dolore è scelto o accettato, anche se è percepito, è investito di una dimensione morale che ne trasforma il senso e ne erode la pena, esso diventa anche un vettore di sperimentazione su di sé ed è collegato all’immensa soddisfazione di averlo superato. Non è più associato alla sofferenza. È una via all’esplorazione di sé, alla ricerca dei limiti di senso che formano il sentimento di sé. L’esperienza dei segni corporei o dei riti di sospensione, della body art, dei riti di virilità, rimette profondamente in questione il dualismo tra piacere e dolore. Allo stesso modo il sado-masochismo. O ancora i dolori del parto di cui numerose donne non trovano parole per definirli perché li percepiscono molto vicini al piacere, in una combinazione che risulta ambigua ma esaltante. Il dolore accettato riannoda i frammenti sparsi del sé. Procura un sentimento di realtà che manca ad alcuni individui che sentono sfuggire la propria esistenza. Il paradosso del dolore è di suscitare il sentimento urgente di esserci e di essere vivi. Soltanto la sofferenza, vale a dire l’aumento del dolore fino all’intollerabile, la sensazione di vivere una violazione di sé, potrebbe strapparli da questa sensazione di ritrovarsi. In quel caso saremmo su un versante esclusivamente negativo, quello che distrugge la persona, che mutila le sue possibilità d’azione. Se il dolore scelto, quello che fa male senza indurre sofferenza, è quasi sempre associato al fatto di riunire frammenti di sé, a un richiamo del fatto di essere vivi, reali, presenti a se stessi (sport, body art, modificazioni corporee, etc.), effettivamente il dolore imposto dalla malattia o dalle conseguenze di un incidente, soprattutto se duraturo, infrange le frontiere dell’individuo, le frammenta. Esso è unicamente sofferenza e si impone come pura violenza che l’individuo vorrebbe respingere da tutto il suo essere. Rompe la coincidenza del sé. La sensazione di unità della persona è invalidata. Il dolore acuto smantella provvisoriamente l’individuo che può in seguito riprendersi una volta sollevato dalla sua pena, ma per chi è colpito dal dolore in maniera cronica esso dura e prosegue il suo lavoro di scavo lungo le ore, i giorni, i mesi, gli anni, ed intacca nel tempo il sentimento della sua identità. Egli non sa più distinguere l’interno e l’esterno della sua persona, tanto la sofferenza sembra creare una zona di turbolenza nel suo corpo attraverso la quale ha la sensazione che il suo essere gli sfugga e che delle energie negative non smettano di penetrarlo. Se il dolore scelto dà una coscienza acuta di sé, un dolore imposto dalle circostanze rovina il sentimento di sé. È questione di circostanze, è per questo che «esperienze del dolore» si declina al plurale.

 

Qual è il senso delle esperienze del dolore, insomma qual è il senso della sofferenza, ammesso che ci sia?

Non c’è né senso né non senso del dolore o di una prova personale, esso c’è e richiede subito la replica dell’individuo, se questi riesce a attribuirgli un significato lo sopporta meglio. Per il paziente la spiegazione causale del suo dolore o della sua malattia deve trovare una qualche comprensione del suo significato. La medicina non è soltanto una scienza naturale dei disturbi organici, essa deve cogliere questi ultimi nella singolarità della persona sofferente. Il dolore chiuso nell’organismo considerato soltanto attraverso un registro neurofisiologico, attraverso l’effetto sul sistema nervoso centrale di un’eccitazione dolorosa non ci dice molto della sofferenza percepita dall’individuo. Il paziente si deve comprendere nella sua malattia o nel suo male, trovarvi un richiamo di senso. La spiegazione causale, centrata sulla biologia, non disarma mai completamente la richiesta di senso della persona sofferente: perché è successo a me? In questo momento della mia vita? Un atteggiamento puramente tecnico del medico provoca la sensazione che sia indifferente, per nulla coinvolto dal dramma che annuncia o che accompagna, il paziente non si sente né ascoltato, né capito, né rispettato. Quest’ultimo allora restituisce al medico la sua mancanza di coinvolgimento non tenendo che parzialmente conto delle sue prescrizioni o dei suoi consigli. Sollecita sovente altri professionisti della salute per sentirsi finalmente riconosciuto e compreso. Il paziente cronico ha spesso la convinzione che la determinazione di una causa al suo dolore, cioè l’accertamento di una diagnosi, renda efficace il sollievo al dolore, anche se spesso non è che una prima tappa seguita da un periodo più o meno lungo di tentativi. Penso che il compito del medico non sia solo quello di curare, alleviare o guarire, ma sia anche di integrare la malattia in una logica di senso, di eliminare il disordine di significato vissuto dall’individuo restituendolo in una trama di significato che rinvia simultaneamente alle avventure del suo corpo (della sua biologia) e del suo stile di vita, della sua storia personale. Il paziente possiede così gli elementi per proseguire il racconto della sua esistenza, riprendere la propria biografia e comunicarla alle persone che gli sono vicine. Il racconto che l’individuo fa del proprio dolore l’autorizza a diventare nuovamente soggetto della propria storia allorché la malattia o la sofferenza l’hanno estromesso ad un certo momento dalla sua esistenza per obbligarlo a un’identità ferita, mutilata. Ben inteso, il senso che per esempio un individuo sofferente cronico attribuisce al suo dolore non riguarda che lui e nessuno è nella posizione di giudice per denunciarlo o incensarlo, è personale. In questo modo, alcuni credenti attribuiscono un senso al loro dolore convincendosi di partecipare alla sofferenza di Cristo o di sottomettersi a un decreto di Dio. Altri si calmano trovando nella saggezza stoica o buddista le risposte alla propria situazione. Queste convinzioni non impediscono loro in nessun modo di cercare l’aiuto dalla medicina per alleviare i loro mali. Ma il ricorso spirituale sembrerebbe un’ultima soluzione quando il dolore persiste malgrado gli sforzi professionali. Ancora una volta, la dimensione del senso ha sempre una dimensione antalgica, gioca sulla dimensione del senso e quindi sull’intensità del dolore.

 

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Il corpo è il campo d’azione del dolore e il luogo dove si produce la sofferenza – lei scrive che non c’è dolore senza sofferenza, ciò che presuppone che non ci sia una cesura tra la dimensione fisica e quella emotiva, spirituale oppure morale del dolore. Secondo lei ciò vale in un doppio senso? In altri termini, se a partire dal corpo il dolore può raggiungere ogni dimensione umana, il processo inverso è possibile, cioè che una sofferenza morale o emotiva, come ad esempio il lutto, arrivi a manifestarsi come dolore fisico?

Il dolore è il confronto di un evento corporeo con un universo di senso e di valore. La percezione dolorosa non è la registrazione di un’affezione, ma una traduzione, è la risonanza in sé di un’attesa reale o simbolica. L’affettività è sempre la prima a percepire il dolore, ne misura l’intensità e la tonalità. Il dolore non influenza il corpo, ma sconvolge l’individuo, interrompe lo scorrere della vita quotidiana e trasforma le relazioni con gli altri. Non c’è male fisico che non comporti delle conseguenze nella relazione dell’uomo con il mondo. Il mal di denti non è nel dente, è nella vita, altera tutte le attività dell’uomo, anche quelle che predilige, impregna i gesti, attraversa i pensieri: contamina il rapporto con il mondo nella sua totalità. Se il dolore restasse rinchiuso nel corpo, non avrebbe quasi conseguenza sulla vita quotidiana. Necessariamente, esso contamina l’esistenza, sconvolge la vita quotidiana, la sessualità, le relazioni con gli altri, colonizza anche il rapporto con il mondo. L’uomo soffre in tutto lo spessore del suo essere. Non si riconosce più e le persone che gli sono vicine scoprono con sorpresa che egli ha smesso di essere se stesso. Il dolore “non dà gusto più a nulla”, strappando l’uomo alle sue antiche occupazioni e obbligandolo a vivere a fianco di se stesso senza potersi raggiungere, in una sorta di lutto di sé. La sofferenza attribuisce questa estensione del male a tutta l’esistenza. Non c’è dolore senza ripercussione sul rapporto al mondo, la sofferenza ha inizio quando questa risonanza mutila la vita.

 

Il rapporto tra il dolore e l’arte è un tema che a interessato molti specialisti e ha caratterizzato l’opera di diversi artisti, per esempio il pittore Francis Bacon. Esistono delle manifestazioni rappresentative di questo rapporto nel cinema, nella letteratura, nell’arte contemporanea, e quali sono secondo lei gli esempi più interessanti?

La performance nell’universo artistico è sovente un patto simbolico con il dolore. In questo caso sono gli artisti che fanno del loro corpo un’opera. L’intenzione non è più l’affermazione del bello ma la provocazione, il rovesciamento del corpo, l’imposizione del disgusto o dell’orrore, il ricorso alla ferita. Il corpo entra in scena nella sua materialità, e in maniera talvolta radicale. Le performance interrogano l’attualità politica, l’identità sessuale, i limiti corporei, la rappresentazione del maschile o del femminile, etc., tramite la provocazione, la crudeltà, l’oscenità, il pericolo, le ferite, il dolore, il travestimento ... Si tratta di interrogare un corpo segnato dalle rappresentazioni morali e politiche. Negli anni Settanta del Novecento la body art si radicalizza e conosce una diffusione internazionale, una manciata di artisti usa sistematicamente la ferita o il mettersi seriamente in pericolo, come Chris Burden, Gina Pane o Michel Journiac. Sono sensibile da moltissimo tempo alle performance di Gina Pane, le ho ancora dedicato parecchie pagine in questo libro. Gina Pane ha usato il pericolo, la ferita, il sangue, il dolore come materia prima di molte sue creazioni. La ferita dell’artista supera la propria persona. Ella si affida alla performance affinché il turbamento del corpo diventi per gli altri  il turbamento del pensiero. Mira a sconvolgere lo sguardo, frantuma le convenzioni sociali denunciandone l’arbitrio. Per esempio l’imposizione della bellezza per le donne. Una donna non si trucca soltanto per un suo completamento personale, ma per non perdere il suo potere di seduzione agli occhi degli uomini. E se la seduzione si cancella, il suo viso e il suo corpo si trasformano in ferite. Da qui la scena di una famosa performance in cui inginocchiata per terra su uno specchio, Gina Pane tenta invano di riprodurre la sua immagine con dei pastelli a cera. Ma in seguito incide le sue arcate sopracciliari per svelare una sorta di non detto della relazione della donna con lo specchio. Si trucca con una lama di rasoio per dire la violenza non detta di questa ingiunzione di bellezza. Le azioni di Gina Pane non sono mutilazioni, ma dei richiami al senso. Impossibile per lo spettatore non essere sopraffatto per ciò che egli immagina del dolore dell’artista e della violenza di un gesto che infrange una serie di tabù: far colare il sangue, incidere la propria pelle, giocare con la morte. Agendo in questo modo ella annulla tutta la distanza dall’opera, obbligandolo spettatore a entrare nella logica della performance. Tanto più una ferita valorizza il corpo di un uomo, affermando la sua virilità, quanto più sul corpo di una donna essa traduce la sua infinita vulnerabilità. Nelle sue performance Gina Pane fa della ferita un gesto di comunione paradossale. C’è in Gina Pane una volontà di scongiurare la sofferenza sociale (la guerra, l’oppressione delle donne, etc.) prendendola su di sé. Cerimonia segreta, intima, pensiero per cambiare qualcosa del mondo, anche in modo sottile. Nessuna brutalità, nessuna violenza in questa liturgia lenta e calma dove lo scorrimento del sangue contrasta con la tranquillità della performance. Gina Pane ha spesso detto di non provare nessuna sofferenza durante le sue performance, decide delle sue ferite e del suo dolore, esse sono le condizioni della sua opera, le sceglie.

 

Il dolore e la sofferenza sono generalmente percepiti come un’esperienza passiva, subita o inevitabile – la malattia, la tortura, la violenza. Ma la passività non è la condizione esclusiva del dolore. Quando il dolore diventa una scelta?

È la dimensione del senso che è in gioco e che dà al dolore la sua intensità, la sua sofferenza, e non lo stato reale dell’organismo, poiché non esiste in sé, come se fosse separato dall’individuo. La sofferenza è graduata da semplice fastidio a lacerazione di sé. Se essa è un sisma sensoriale, non colpisce che in proporzione della sofferenza che implica, vale a dire del senso che riveste in un particolare contesto. Un dolore scelto e controllato da una disciplina personale avente come fine il mettere alla prova se stesso o la ricerca dei limiti (sport, body art, sospensioni, etc.) non contiene che una particella risibile di sofferenza, anche se fa male.

D’altronde l’individuo sa che in ogni momento può ritirarsi dalla prova. Ciò che non accade con il dolore subito nel contesto di una malattia grave, di un incidente o della tortura, che è pura sofferenza, demolizione di sé.

Se il dolore scelto produce una coscienza acuta di sé, un dolore imposto dalle circostanze distrugge il sentimento di sé. Penso tuttavia che anche in un contesto di dolore cronico, che quindi espugna l’identità, la persona non è mai completamente priva di risorse, non solo è in cerca di soluzioni terapeutiche, ma dispone anche di risorse di senso fornite dalle immagini mentali, dalla sofrologia, dall’ipnosi, dal rilassamento, in qualche modo tecniche di distrazione per amministrare i momenti di tregua.

 

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* traduzione dal francese di Fiorenza Gamba