VISIONI / IL DOTTOR JEKYLL E MR. HYDE


di John Stuart Robertson / Dynit DCult, 2015


 

Lo strano caso della pagina e del suo doppio


di Andrea Sanseverino

 

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“L’unico modo per liberarsi di una tentazione è abbandonarsi ad essa” (Wilde, 2014). L’esortazione espressa dal personaggio di Lord Henry Wotton, indirizzata al cedimento di ogni atto volto a contrastare un qualsivoglia capriccio, compare anche fra le didascalie che accompagnano una delle più note trasposizioni al cinema del celebre racconto di Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Siamo nel 1920, ad appena un quarto di secolo dalla prima proiezione dei fratelli Lumière, quando John Stuart Robertson dirige Il Dottor Jekyll e Mr. Hyde ed è un anno molto particolare nella storia del “Paese delle libertà”, proprio sotto il profilo della lotta alle tentazioni, poiché, nel gennaio di quell’anno, entra in vigore il Proibizionismo, preceduto nel 1919 dal National Prohibition Act, solitamente ricordato come Volstead Act, dal nome del parlamentare repubblicano che si batté per la sua emanazione. Casuale o meno che sia con l’inizio di quel complesso periodo storico, il regista canadese si misura con un testo che ha molto affascinato i registi di ogni tempo, soprattutto quelli di lingua inglese, la lingua della cui letteratura Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è unanimemente riconosciuto un classico. Confrontandola con l’opera di Stevenson, il film di Robertson accentua l’atteggiamento filantropico di Henry Jekyll rispetto ai notabili da cui è circondato: il medico interpretato da John Barrymore si mostra più propenso a fare del bene di quanto lo sia quello letterario, che, nella confessione scritta di suo pugno, manifesta apertamente la consapevolezza di aver vissuto sin dalla giovinezza nella necessità di “nascondere i [propri] piaceri [fino a trovarsi] incamminato in una vita di profonda doppiezza [dal momento che] l’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due […] È una maledizione per l’umanità […] che queste due incongrue metà si trovino così legate, che questi gemelli nemici debbano continuare a lottare così, nel fondo di una sola e angosciata coscienza” (Stevenson, 1983). Non si tratta dell’unica differenza fra pagina scritta e pellicola, dato che, rispetto al testo, i personaggi secondari assumono rilievi notevolmente differenti, pur sempre ruotando attorno al tema centrale del conflitto fra le due nature. Come accade anche in altre trasposizioni cinematografiche successive, infatti, la figura chiave, nel libro, di Utterson, è relegata, nel film, a una parte marginale, ed è questa una scelta radicale: nel testo, infatti, oltre ad espletare il ruolo di narratore della vicenda, il notaio amico di lunga data di Jekyll assurge a vero elemento narratario, attraverso i suoi atteggiamenti che sembrano accostarlo a un investigatore che tenta di acclarare fatti sempre più inspiegabili. Carlo Fruttero e Franco Lucentini, curando un’efficace traduzione del testo, corredandola con scrupolose annotazioni, evidenziarono come Utterson assurgesse a idealtipo vittoriano, incarnandone i valori, compreso quello di assicurare la garanzia della propria indipendenza attraverso il rispetto di quella altrui, anche se ciò avesse voluto significare astenersi perfino dalla più benevola delle azioni nei riguardi del prossimo (cfr. Fruttero, Lucentini, 1983). Per certi versi, in questi atteggiamenti sembrano echeggiare gli insegnamenti di Lord Henry, per il quale “non esistono buone influenze, signor Gray. Ogni influenza è immorale […] perché influenzare qualcuno significa dargli la propria anima” (Wilde, 2014). Il fatale ascendente esercitato nel capolavoro di Wilde da parte del cinico lord sul dandy dalle belle sembianze, nel film di Robertson è delegato alle frequentazioni di Jekyll con Sir George Carew, suo anfitrione nei locali nei quali, in seguito, Edward Hyde potrà appagare i suoi sordidi piaceri. Al nome di Carew non è legata solo la via della perdizione, dal momento che nella vita del Jekyll di Robertson compare un amore, corrisposto e, potenzialmente, salvifico, quello con Millicent, figlia di Sir Carew. Tra gli elementi originali inseriti nella propria pellicola, il regista canadese pare omaggiare il nostro paese, proponendo il personaggio di Gina, la ballerina italiana che turba il dottore durante una delle visite in compagnia del nobile accompagnatore e che successivamente mostrerà ad Hyde il suo antico anello, anch’esso italiano, fatto apposta per conservare veleni e propinarli in segreto, allusione alle trame rinascimentali di casa nostra, evocate in una breve ma eloquente sequenza.

Per quanto riguarda il doppio ruolo del protagonista, questi è John Barrymore, esponente di spicco di una famiglia che per più di una generazione ha incrociato il proprio destino con quello delle grandi produzioni di Hollywood. L’attore, alla sua prima prova importante davanti alla macchina da presa, si destreggia efficacemente tra le raffinate fattezze di Henry Jekyll e quelle abbrutite di Edward Hyde, definito nelle pagine di Stevenson uno Juggernaut, dispregiativo con il quale, ai tempi della regina Vittoria, erano additati quanti eccedevano nell’abuso di alcolici. Tale debolezza travolse lo stesso Barrymore, tormentato dal suo rapporto con la recitazione, tanto che il suo amico Orson Welles, che lo chiamava confidenzialmente Jack, affermò: “Ai suoi (e ai miei) tempi nessun attore di lingua inglese fu mai grande… o cane… come lui. Quel che ho veramente in comune con Jack è la mancanza di vocazione. Anche lui recitava la parte dell’attore perché gli era stata assegnata dalla vita” (Welles, Bogdanovich, 1999). In riferimento a questa conflittualità sentiremo venticinque anni dopo, recitare “Sono John Barrymore prima che lo strangolasse il cinema!”: a dirlo sarà Ray Milland, nei panni di Don Birnam nel suo monologo in cui inneggia ai pregi dell’alcol sulle capacità di uno scrittore in Giorni perduti, film di Billy Wilder tratto dall’omonimo romanzo di Charles Jackson. Tornando al film di Robertson e all’interpretazione di Barrymore, forse a suscitare maggiore interesse, è la figura di Hyde, legata a una toccante rappresentazione della trasformazione, resa possibile dagli effetti che il cinema di quegli anni poteva concedersi: con il suo aggirarsi sinistro per le strade e con quelle inquietanti dite tanto lunghe quanto sgraziate, Hyde sembra anticipare la raccapricciante sagoma di Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau, che compare nelle sale nel 1922, sebbene due anni prima il maestro dell’espressionismo tedesco abbia portato sul grande schermo una storia ispirata al romanzo di Stevenson dal titolo La testa di Giano, pellicola di cui restano pochi fotogrammi. Il mister Hyde di Barrymore possiede un’aura terrificante, che ne riflette l’interiore malvagità, lontanissimo, insomma, dal fascino del Buddy Love di Jerry Lewis che parodiava la vicenda narrata dallo scrittore scozzese ne Le folli notti del dottor Jerryll, ma che fu il primo a dare al cattivo sembianze decisamente più seducenti rispetto al buono.

Un’altra chiave di lettura dell’interesse esercitato dal personaggio di Hyde potrebbe però ricercarsi in quell’influenza esercitata dalla combinazione di quei due meccanismi complementari, quello della identificazione e quello della proiezione, che agiscono sullo spettatore, in genere, e su quello cinematografico, in particolare, e, tirando le somme, concludere che “sullo schermo i maledetti hanno la loro rivincita o meglio, ce l’ha il nostro lato mascherato” (cfr. Morin, 1982). Tra l’altro, Hyde, in quanto personificazione sia dell’impulso di sopraffare il prossimo sia di quello di appagamento della propria libido, incarna quei due istinti che, secondo Sigmund Freud, la Kultur aveva tentato di arginare, senza mai eliminarli completamente, per rendere possibile la coesistenza fra gli uomini (cfr. Vigetti Finzi, 2002): l’alter ego di Jekyll non solo sottrae il medico dalle catene di una repressione a cui lo aveva ancorato la rigida società vittoriana, ma dà modo al lettore, prima, e allo spettatore, poi, di giovarsi dell’effetto catartico di vivere per procura la soddisfazione di impulsi istintivi che soggiacciono nella sfera inconscia individuale (cfr. Bourdon, 2001; Musatti, 2000). Per certi versi, la condizione di Jekyll non è poi lontana da quanti affollavano le sale al momento dell’uscita della pellicola di Robertson, dal momento che per la cinematografia statunitense, ossia una delle cinque industrie più importanti della nazione a quel tempo, gli anni Venti erano caratterizzati da una spietata guerra tra le case produttrici di Hollywood che indirizzano i loro film a un pubblico costituito da individui che sono in fondo ancora espressione della conflittuale dicotomia tra temperamento ed educazione, vale a dire tra la spontaneità, che può tradursi in febbrile foga, da un lato, e il rigore puritano in cui riverberano le tracce del settarismo di Inghilterra e Scozia, dall’altro (cfr. Paolella, 1956).

“La vita morale dell’uomo è materia dell’arte, ma la moralità artistica consiste nell’uso perfetto di un imperfetto strumento”, aveva scritto Wilde nella prefazione de Il ritratto di Dorian Gray (Wilde., 2014): un concreto esempio di quanto lo scrittore irlandese aveva affermato è di certo Il Dottor Jekyll e Mr. Hyde di Robertson, realizzato nell’imperfetto linguaggio accreditato da alcuni al cinema prima del sonoro, un cinema che della potenza evocativa espressa dalle proprie immagini aveva fatto il suo punto di forza.

 


 

LETTURE

 Jérôme Bourdon, Introduzione ai media, Il Mulino, Bologna, 2001.
Carlo Fruttero, Franco Lucentini, Note, in Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde, Einaudi, Torino, 1983.
Charles Jackson, Giorni perduti, Nutrimenti, Roma, 2014.
Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli, 1982.
Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde, Einaudi, Torino, 1983.
Cesare Musatti, Psicologia degli spettatori al cinema, in Dario Romano (a cura di), Scritti sul cinema, Testo & Immagini, Torino, 2000.
Roberto Paolella, Storia del cinema muto, Giannini, Napoli, 1956.
Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi. Autori opere teorie 1895-1990, Mondadori, Milano, 2002.
Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, Baldini&Castoldi, Milano, 1999.
Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Feltrinelli, Milano, 2014.

 

VISIONI

 Jerry Lewis, Le folli notti del dottor Jerryll, Universal, 2004.
Friedrich Wilhelm Murnau, Nosferatu, Ermitage Cinema, 2011.
Billy Wilder, Giorni perduti, A & R Productions, 2011.