VISIONI / THE BABADOOK
di Jennifer Kent / Causeway Films, Smoking Gun Productions, 2014
Il buio in fondo alle scale
di Francesca Fichera
“Tutti i bambini vedono mostri”, dicono gli adulti, e sarebbe estremamente corretto, oltre che un dato di fatto, se non fosse che nella storia di The Babadook la stessa condanna tocca anche ai grandi. E non soltanto in quella. D’altronde, ci troviamo di fronte all’ennesimo caso di orrore che parla di orrore - il genere scrive e riscrive sempre su di sé - indagando e mettendo a nudo i medesimi meccanismi che sono alla base della paura, e della curiosità del proibito che l’accompagna, finendo spesso con il toccare, anche solo in un accenno, i legami diretti che questi - la paura e il desiderio - intessono con la psiche. A cominciare dalle sue origini: non c’è nulla di più atavico dell’infanzia e dei suoi terrori, del timore del buio, delle ombre, delle porte socchiuse e degli spazi scuri celati dai letti, come di quella facoltà, squisitamente umana, di inventare soluzioni all’ignoto auto-raccontandosele, regalandosi forme da dare alle cose che ne sono prive e che, per tal ragione, sfuggono al nostro controllo gettandoci nel panico più cieco. Quel che accade da tempo immemore nel mito e nelle favole, per le cosiddette storie di paura rappresenta il fuoco, la miccia al centro che irradia l’effetto domino su ciascun piano della narrazione, che dà corpo al racconto da cui scaturisce un altro racconto, e un altro, e un altro ancora.
In The Babadook tutto questo è raffigurato in modo esplicito: il fulcro è un libro - the book of the Babadook, che al mostro è affine anche per assonanza, oltre che nel ruolo; non per niente è un anagramma di “the bad book”, il libro cattivo - da cui entra ed esce, modificandosi, la storia di Amelia e di suo figlio Samuel. Una madre sola, con un bimbo difficile a carico, su cui aleggia il peso implosivo di un trauma mai veramente elaborato; e a cui una storia di carta, all’apparenza innocua, dona l’illusione di poter eludere l’ennesima notte fatta d’insonnia. Ma quegli stessi mostri che tutti i bambini vedono vanno da loro tenuti lontani il più possibile, e fino a che è consentito: così un libro di cartone, che è tutto fuorché fiabesco, sfogliato in una sera qualsiasi, svela ogni mistero e distrugge ogni equilibrio, diventando l’inconsapevole tramite di un anatema, nonché specchio di una tragedia familiare quasi del tutto consumata.
“Vedere è credere”, diceva il megalomane Carl Denham nel King Kong del 1933, e quello che si scorge tra le pagine di The Babadook diviene non soltanto credibile ma anche, e soprattutto, reale: il male è un presagio d’incubo nascosto nei dettagli, tracce di un passaggio materiale - e perciò innaturale - dal sogno alla veglia come dal libro al mondo, che l’appassita e spaventata Amelia si trova, per una pura e indesiderata fatalità, a scoprire. Una figura nella penombra, un suono disumano, un indumento familiare abbandonato in luoghi estranei: il diavolo, parafrasando il vecchio detto, abita i particolari, che inquietano proprio perché appaiono insignificanti a un primo sguardo. Allo stesso modo, nell’horror concepito dalla regista australiana Jennifer Kent - sulla base di un suo precedente lavoro, cortometraggio risalente al 2005 dal plot simile ma intitolato, non casualmente, Monster - agiscono le citazioni – al contrario, significanti e significative - tratte dal multiverso del genere horror. Nel film di The Babadook il cliché profetico viaggia su due livelli: la narrazione e la meta-narrazione. In quest’ultima, il gioco di riferimenti ha luogo prima di tutto nella cornice dello schermo dentro lo schermo: nella televisione. L’autrice, narratrice - e, per l’appunto, giocatrice - interviene a carte scoperte, rivelando la prossima mossa attraverso la sua messa in scena, l’estratto dal film I tre volti della paura di Mario Bava (1963), di cui riprende sia l’habitus che parte dei contenuti, sia lo stile di regia che l’intreccio degli eventi. Così Amelia, protagonista del racconto, ne vive l’inquietudine anche in veste di spettatrice, preparata dalle visioni di George Méliès (Il libro magico, 1900) e dal ghigno di Lon Chaney (Il fantasma dell’opera, 1925), come pure da falsi telegiornali contenenti versioni future, tanto angoscianti quanto assolutamente possibili, della sorte sua e del piccolo Samuel.
The Babadook dimostra così di essere memore delle lezioni del passato quanto delle nuove necessità espressive del genere dell’orrore, portando a compimento queste ultime mediante un’operazione di profondo adattamento e rinnovamento delle prime; di conseguenza, giace in una zona di confine fra il più canonico esempio del filone haunted house e l’horror psicologico di recente influenza orientale, il quale a sua volta non ha dimenticato le maledizioni dei grandi protagonisti d’autore á la Jack Torrance del kubrickiano - e, prima, kinghiano - Shining. Quello che manca, nella metafora elaborata dalla Kent, è l’eccesso gore, la decomposizione in evidenza, il mostro che si lascia colpire dalla luce a costo di sembrare ridicolo o - per dirla sempre con Stephen King (cfr. Danse Macabre, 2006) - rivelare la cerniera sul retro del costume: cause ed effetti percorrono circuiti astratti, lovecraftiani nella loro dichiarata preferenza per il non-vedo piuttosto che per la chiarezza, dove la linfa vitale della narrazione proviene esclusivamente dalle suggestioni insite nelle potenzialità del mezzo cinematografico - le immagini, le modulazioni del suono - e dalla violenza delle passioni umane - solitudine, frustrazione, rabbia, colpa, madri e figli disadattati - rappresentate sullo sfondo.
Mr. Babadook non si vede, s’intravede, ed è ciò che lo rende più spaventoso. Ma c’è altro ancora, e sta nel fatto che le parti nascoste della sua mostruosità - essenzialmente il volto, ma anche alcune porzioni del corpo - non sono del tutto inedite, nascoste: a occuparsene è, ancora una volta, la narrazione nella narrazione, attraverso il libro e i suoi disegni, via d’accesso secondaria, e di nuovo lovecraftiana, al lato malvagio del potere immaginifico. L’espediente meta-narrativo ottiene qui il ruolo di tramite per l’immaginazione e per un aspetto della significazione: le sembianze di Mr. Babadook hanno un che di terribile proprio perché capaci di infinite possibilità di composizione, di resa scenica, nella mente estesa del pubblico, cui le immagini cartonate del libro forniscono anticipatamente i particolari da combinare insieme. Ne vien fuori un concetto di mostro paradigmatico, simbolico, incontenibile nella sua illimitatezza. E non a caso, perché in The Babadook l’orrore s’allinea al dolore, all’incontenibilità di ciò che non si è ancora trovato il coraggio - per l’appunto - di affrontare, guardare in faccia: un male antico, come la fitta a un vecchio osso rotto quando il tempo peggiora, destinato a non andarsene. La novità della visione della Kent risiede qui, in quest’assenza di speranze comunicata senza l’aiuto di eclatanti colpi di scena conclusivi. Come per Danny Torrance e suo padre - sebbene più nel sequel del romanzo che nella sua versione filmica, il recente Doctor Sleep (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 48) - così per il piccolo Samuel e la sua mamma, la sola cura a un certo tipo ferite, paure, malignità, sta nel conviverci; per di più, in uno stato di totale isolamento rispetto a una società sempre più impacciata e intollerante nei confronti di quel senso di disordine e imbarazzo cui relega l’umano soffrire. Si è dunque costretti a tenere a bada il mostro - e la sofferenza di cui si è fatto sintesi - senza disturbare, accettando di tornare a spaventarsi tutte le volte in cui prova a risalire il sottoscala di un mondo chiuso e intimo; non di rado, recandosi a cercarlo, volontariamente. Perché fa parte del gioco, ed è un gioco anche raccontarlo, per quanto viverlo sia tutta un’altra storia.
LETTURE
— Stephen King, Danse Macabre, Sperling & Kupfer, Milano, 2006.
— Stephen King, Doctor Sleep, Sperling & Kupfer, Milano, 2013.
— Stephen King, Shining, Bompiani, Milano, 2001.
VISIONI
— Mario Bava, I tre volti della paura, Cecchi Gori Home Video, 2014 (home video).
— Merian C. Cooper & Ernest B. Shoedsack, King Kong, Sony Pictures, 2005 (home video).
— Rupert Julian, Il fantasma dell’opera, 20th Century Fox Home Entertainment, 2010 (home video).
— Stanley Kubrick, Shining, Warner Home Video, 2013 (home video).
— George Méliès, Il libro magico in Méliès - L'Illusionista - Le Origini Del Cinema 1896-1903, Ermitage Cinema, 2009 (home video).
— James Wan, L’evocazione, Warner Home Video, 2013 (home video).