VISIONI / AMERICAN HORROR STORY


di Ryan Murphy, Brad Falchuk / Fox satellitare (Italia), 2014


 

Serialità e orrori contemporanei


di Giulia Iannuzzi

 

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Cominciando a guardare American Horror Story, serie televisiva nata nel 2011 e giunta nell'ottobre 2014 al debutto della quarta stagione (sul canale via cavo FX negli Usa), nessun dubbio viene sulla pertinenza delle parole Horror e Story nel titolo. Una delle prime domande che può sorgere è invece questa, estremamente banale: “Perché American?”. È solo nel corso della visione, che, puntata dopo puntata, si può afferrare appieno tutta l'americanità di questa serie. Uno dei propositi delle righe che seguono è proporre una interpretazione di questo titolo.

Il secondo proposito è adoperare American Horror Story (AHS da qui in poi) come esempio di due fatti culturali tra i più interessanti degli ultimi anni e, crediamo, meritevoli di essere sostenuti e rimarcati nel contesto italiano, spesso ancora così scettico nei confronti dei prodotti della cultura di massa: la potenza del medium televisivo come veicolo di narrazioni contemporanee di ottimo livello creativo, e l'incredibile versatilità dell'immaginario horror come strumento di riflessione critica, con un grande potenziale engagé.

Qualcosa che invece non si troverà in queste pagine è un preambolo sulla difficoltà di adattare alla struttura della serialità televisiva l'armamentario dell'orrore: la fioritura di serie horror che si è avuta negli ultimi anni parla da sé, ci pare. Il fenomeno Walking Dead (2010-), serie sviluppata da Frank Darabont e legata a un ampio franchise transmediatico, è giunto nel 2014-15 alla quinta stagione, e si aggira rantolando sui nostri schermi assieme a compagni zombi come le britanniche Dead Set (2008) e In the Flesh (2013-), la francese Les Revenants (2012-), tra un gore sempre più inventivo, metafore della società dei consumi e contaminazioni dell'immaginario zombie con generi che vanno dal survival movie al reality show (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 47; "Quaderni d'Altri Tempi" n. 46; "Quaderni d'Altri Tempi" n. 44). La proliferazione vampiresca si muove entro una gamma molto ampia di possibilità, che va dal magistrale True Blood, creato da Alan Ball per la HBO nel 2008 e giunto nel 2014 alla settima e finale stagione, ai vari vampiri adolescenti – The Vampire Diaries (2009-), The Originals (2013), Valemont (2009) – cui il successo della saga Twilight ha fatto da volano, ma che certo riprendono l'eredità di serie horror-teen-drama ormai storiche come Buffy the Vampire Slayer (1997-2003), creata da Joseph Whedon o - ma il livello orroroso e qualitativo è qui imparagonabile - Charmed (in italiano Streghe, 1998-2006).

Non mancano, in questa festa di sangue, orrori meno soprannaturali ma non meno spaventosi, e di rilevante qualità autoriale – uno su tutti il serial killer Dexter (2006-2013, cfr. in questo numero), e le rivisitazioni di classici della letteratura di lingua inglese, da Dracula (2013) a Sleepy Hollow (2013).

Un elenco che potrebbe andare avanti e che speriamo basti quantomeno ad accennare l'estrema fortuna del genere sul piccolo schermo, e, insieme, l'estrema versatilità del suo repertorio. È chiaro infatti che l'etichetta e le marche del genere – la presenza ad esempio di zombie e vampiri – sono impiegate in creazioni per il resto molto diverse, nei significati che si propongono di veicolare, nel pubblico a cui si rivolgono, nella loro riuscita narrativa e artistica e così via.

Nei suoi esempi migliori, l'horror fa parte di quella stagione di adultità artistico-creativa che è già stata chiamata seconda età dell'oro della televisione americana, laddove la prima si identifica normalmente con il primo grande sviluppo della fiction catodica tra anni Quaranta e fine del decennio Cinquanta-inizi Sessanta, segnata da grandi autori-scrittori come Robert Serling.

Anche oggi, in molti casi, torna in voga il concetto di autorialità, quasi fosse il presupposto necessario affinché una patente di artisticità venga rilasciata, e dunque da individuare e sottolineare anche nel caso di prodotti seriali che dal punto di vista creativo e produttivo, restano decisamente collettivi. Per riprendere solo qualche esempio tra quelli citati sopra, hanno fama di autori-artisti il creatore di True Blood Alan Ball, già acclamato creatore di Six Feet Under (2011-2005), e Joseph Whedon, la mente dietro a diverse altre serie importanti oltre a Buffy, non tutte ugualmente fortunate ma alcune diventate di culto, e in cui spicca anche una vena fantascientifica, Angel (1999-2004), Firefly (2002), Dollhouse (2009-2010), Agents of S.H.I.E.L.D. (2013-).

La firma di un autore, anzi, di due, va citata anche nel caso della nostra AHS: quelle di Ryan Murphy e Brad Falchuk, già associati nella creazione e produzione di due serie di grande successo come Nip/Tuck (2003-2010) e Glee (2009-) quest'ultima insieme a Ian Brennan.

E sicuramente in AHS si trovano alcuni caratteri che quei due illustri precedenti annunciavano chiaramente, seppur declinati in generi diversi. Ad esempio l'importanza della colonna sonora e dell'ingegneria del suono, o il gusto, quasi un'estetica, per la carne e il sangue – in AHS presente come ovvio nelle sue molte declinazioni orrorose, in Nip/Tuck spiazzante, camp e patinato nel contesto della chirurgia estetica.

Vale la pena però a questo punto cominciare a menzionare, almeno a grandi linee, dove sta l'horror in AHS, ossia quali storie la serie ci racconta e come. Un motivo di originalità e almeno in parte chiave del buon funzionamento di AHS nel suo complesso può essere individuato nella scelta di una formula narrativa a mezza strada tra serialità forte e formula antologica. Sono compresenti, come in molte serie contemporanee, elementi di intreccio verticale e orizzontale, come si suol dire, cioè vicende che percorrono un'intera stagione o diversi episodi (orizzontali) e vicende che caratterizzano ciascun episodio (verticale), ma, più oltre, ciascuna stagione si comporta come una miniserie a sé stante, consentendo un rinnovamento radicale nell'ambientazione, nel sistema dei personaggi, nei motivi tematici portanti, laddove fili comuni tra le stagioni saranno invece da ricercarsi nell'approccio estetico, nel casting e – ovviamente – nell'orribile mosaico che una dopo l'altra le stagioni costruiscono dell'America d'oggi e del suo recente passato.

Che la formula antologica si trovi in secondo piano più per un fatto di costi produttivi che per un problema di resa artistica è già ampiamente dimostrato dall'importanza storica delle grandi anthology series degli anni Cinquanta, The Twilight Zone sopra tutte (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 51), o le drammatiche come Playhouse 90, ma anche fantascientifiche, come Science Fiction Theatre, con i suoi 78 episodi trasmessi tra 1955 e 1957. Verso la fine del decennio Cinquanta questa formula declina, soprattutto a causa dei costi molti alti che comporta, in fase di produzione, rinnovare per ogni episodio il set e il cast, ma le serie antologiche non scompariranno mai del tutto nei decenni seguenti, per arrivare a dare, ancora negli anni Duemila, risultati di grande qualità; uno per tutti: il recente e compianto Masters of Horror tra 2005 e 2007.

Il fattore antologico in AHS caratterizza non ciascun episodio, ma, come accennavamo, ciascuna stagione: la prima, nata come miniserie a sé e solo in un secondo tempo sottotitolata Murder House – che segue le vicende della famiglia Harmon appena trasferitasi in una nuova casa a Los Angeles, la seconda, Asylum, il cui filone narrativo principale è ambientato nel 1964 nell'ospedale psichiatrico di Briarcliff; la terza, Coven, in una scuola molto particolare di New Orleans, e infine la quarta e corrente, Freak Show, che sviluppa attorno a un circo itinerante, installato in una cittadina in Florida, nel 1952.

Come salta all'occhio, la scelta dei quattro titoli è ricaduta su quattro spazi, fisici e sineddotici, per dir così: una casa, un ospedale psichiatrico, una scuola (coven signifca in effetti “congrega di streghe”, ma anche “covo”), un circo. I titoli indicano subito come questi luoghi siano in effetti potenti catalizzatori e al contempo fili conduttori delle vicende, punti focali delle forze centripete che riescono a tenere assieme sistemi di personaggi e sotto-trame anche molto articolati.

Questa dinamica è esemplarmente evidente nella prima stagione, in cui il luogo è quello di un sinistro maniero di inizio secolo, degno erede della lunga tradizione di case infestate che uscite dalle pagine di Edgar Allan Poe e Howard P. Lovecraft sono state portate sui grandi schermi americani da The Haunting (1963) in poi, con imperitura fortuna (si pensi solo ai recenti Sinister, 2012, Oculus e The Conjuring, 2013 o, ancora, The Quiet Ones – Le origini del male, 2014).

Gli Harmon – Ben, Vivien e la figlia Violet (rispettivamente un magistrale Dylan McDermott, Connie Britton, e una Taissa Farminga che si può vedere crescere, attorialmente, durante la stagione) – si trasferiscono per tentare un nuovo inizio, dopo che un aborto naturale e il tradimento di Ben hanno minato le fondamenta del piccolo nucleo famigliare. Anziché una possibilità di ricominciare, troveranno, nella nuova casa, le presenze oscure che vi sono rimaste imprigionate, generazione dopo generazione, omicidio dopo omicidio, spiriti e ossessioni dei precedenti abitanti. Questi ritornanti, che lo spettatore scopre essere tali solo gradatamente, in una dimensione in cui vivi e morti interagiscono spesso senza soluzione di continuità (un'idea che tornerà, variata e altrettanto forte in Coven), intrecciano nella casa le loro storie, ricostruite in ciascun episodio attraverso flashbacks che intersecano il presente narrativo.

Così la disfunzionalità della famiglia borghese moderna, portata sullo schermo dal terzetto principale, è riecheggiata e variata dall'infedeltà nella coppia di Chad (Zachary Quinto) e Patrick (Teddy Sears), dalla clinica abortiva clandestina avviata dai primi proprietari della magione, dalla storia di tradimento e omicidio di Constance (una magistrale Jessica Lange) e Moira O'Hara (la cameriera che gli uomini vedono con le conturbanti fattezze di Alexandra Breckenridge, le donne in quelle della bravissima Frances Conroy), e così via.

Agli orrori che infestano la famiglia, se ne intrecciano altri, di non meno pregnante attualità: dal bullismo giovanile vissuto da Violet, alla strage di compagni innocenti compiuta dal ragazzo Tate (Evan Peters) anni prima, che certo riecheggia episodi neri della storia statunitense recente, già portati sullo schermo (Elephant di Gus Van Sant nel 2003), dai crimini sessuali – Vivian violentata da un misterioso uomo in latex – all'omicidio seriale, e così via. Uno dei sotto-temi più interessanti, oltre a quello sessuale, è la presenza della psichiatria: Ben è uno psichiatra, uno psichiatra con la malaugurata idea di stabilire il proprio studio in una stanza della casa. La sua incapacità di svolgere un ruolo di capofamiglia tradizionale è più che evidente, ma è interessante e certo voluto che sia lui, prima e più della moglie e della figlia, a scivolare in una zona crepuscolare dove la distinzione tra realtà e allucinazione diventa pericolosamente inafferrabile, con il simbolico smarrimento del suo registratore, mezzo di riproduzione tecnica eloquentemente inutile.

Il tema della sanità/insanità mentale, da co-abitante in Murder House, diventa protagonista in Asylum: la zona residuale dove si annidano i mostri della modernità non è tanto, nella seconda stagione di AHS, da ricercarsi in figure soprannaturali di lunga tradizione folkloristica, quanto piuttosto in quel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, che ha, nel corso degli anni, tracciato la linea di demarcazione tra esseri umani con status di cittadini, dotati di diritti, ed esseri umani maciullati nell'istituzione concentrazionaria del manicomio. E così in Asylum, più ancora che in Murder House, l'orrore è in molta parte squisitamente – si fa per dire – umano.

Non manca in Asylum una cornice narrativa ambientata nel nostro presente, dove una coppia entra nell'ospedale psichiatrico ormai abbandonato in cerca di emozioni a buon mercato, mettendo in scena tra l'altro la moda dell'autoscatto, prima di fare – va da sé – una brutta fine.

L'ambientazione principale è però storica, come accennavamo: i primi anni Sessanta diventano osservatorio privilegiato su un'America che, dopo aver fatto fuori John Kennedy da poco, persiste nel reprimere crudelmente e con ausili scientifici le tendenze sessuali considerate devianti, nel tenere la donna lontana da un'autonomia umana e professionale pari a quella dell'uomo, nel nascondere in seno alla sua società sadici fuoriusciti nazisti e serial killers.

Laddove Murder House attingeva a piene mani al bacino dell'oscuro individuale – il feto, l'allucinazione, il suicidio – e a quello del nucleo familiare borghese – il tradimento, l'aborto, lo stupro –, Asylum sembra voler mettere in scena i lati oscuri della società novecentesca nella sua dimensione collettiva: il manicomio, la psichiatrizzazione, l'elettroshock, la repressione della “devianza”, su cui si proietta già alla terza puntata, l'ombra dell'eredità di Auschwitz, del nazismo, del genocidio.

Il personaggio protagonista, la giornalista Lana Winters (una bravissima Sarah Paulson, che non deluderà anche nelle stagioni successive) è una donna che tenta una carriera giornalistica incontrando difficoltà eccezionali, che dipendono dalla sua appartenenza di genere. All'apertura della stagione, Lana sta cercando di realizzare un servizio su Kit Walker, arrestato per i delitti del serial killer Bloody Face (Walker è interpretato da Evan Peters, che attraverso tutte e quattro le stagioni di AHS non smette di provare le sue capacità). L'omosessualità di Lana diventa il facile strumento di ricatto con cui la direttrice di Briarcliff, Sister Jude (un'indimenticabile Jessica Lange), la fa interdire e rinchiudere nell'ospedale psichiatrico.

Tra le scene forse più forti dell'intera serie resta quella della aversion therapy per la “cura” dell'omosessualità, cui Lana viene sottoposta dallo psicologo Oliver Thredson (Zachary Quinto vincitore di un Emmy per il ruolo): allo stimolo visivo costituito da immagini di donne provocanti viene associata la somministrazione di apomorfina adoperata come potente emetico, con l'obiettivo di stabilire una reazione irriflessa di rigetto: a ricordare quanto poco ci separi in termini di tempo e di contesto culturale da questo genere di pratiche, Thredson spiega che si tratta di un metodo scientifico impiegato nelle migliori scuole, ad Harvard, Brigham Young, Cornell. Thredson si scoprirà poi essere nientemeno che il serial killer Bloody Face.

Un modello di scienziato se possibile anche peggiore è costituito dal medico residente di Briarcliff, Dr. Arthur Arden (James Cromwell, Emmy per la parte), un ex SS rifugiatosi negli Usa sotto falsa identità, che ha trovato nella clinica psichiatrica – laddove i non desiderati della società, sono vittime senza nessuna tutela o possibilità di difesa – la protezione e le cavie necessarie a continuare i suoi mengheliani esperimenti. È il personaggio di Arden a fungere da veicolo e snodo per una serie di temi che declinano il male a vari livelli: dalla memoria storica del nazismo, alla carne del corpo martoriato, fino al male soprannaturale e demoniaco.

La presenza – caratterizzante, iconica sullo schermo – di un repertorio legato alla cristianità, più che fungere da motore dell'azione, come accade per l'esorcismo da manuale del secondo episodio, resta un serbatoio di immagini, motivi estetici e stimoli che accendono sessualità ritorte. Arden, sadico e impotente, eccitato dall'idea della purezza, fa vestire una prostituta come una suora e conserva, per eccitarsi, una collezione di immagini che vanno dall'ammiccante calendario da barbiere, alle foto osé, via via fino al cadavere maciullato. E d'altronde Sister Jude offre il personaggio speculare di una suora dalle conturbanti fantasie e tendenze sadiche, e dal passato decisamente oscuro.

L'ambientazione storica del filone narrativo principale è d'altronde un serbatoio di materiali e repertori dell'immaginario che non smettono di interessare, e fare inorridire. In particolare attraverso il personaggio di Kit Walker e la sua storia, vengono messi in scena il tema della segregazione razziale (il matrimonio con una afroamericana tenuto segreto per timore di una persecuzione da parte della comunità), e quello dei rapimenti alieni, già portato sul piccolo schermo proprio nei suoi legami con la storia del secondo Novecento americano da Spielberg con Taken (miniserie del 2002).

Razzismo, schiavitù e segregazione razziale diventano temi centrali nella terza stagione di AHS – Coven. Ambientato a New Orleans, Louisiana, il filone narrativo principale si svolge questa volta nuovamente nella contemporaneità, dove la Miss Robichaux Academy raccoglie l'eredità della congrega stregonesca di Salem. Nella stessa cittadina, Marie Laveau (Angela Bassett) è la potente sacerdotessa voodoo a capo di una congrega rivale. Laveau ha guadagnato eterna giovinezza e poteri straordinari in cambio di anime innocenti, stringendo un patto con il demone Papa Legba (Lance Reddick).

Un controcanto storico costruito attorno alla figura di Delphine LaLaurie, dama della società benestante bianca ottocentesca, sadica serial killer e mutilatrice di schiavi (portata sullo schermo da Kathy Bates, che vince un Emmy nel ruolo), condannata alla vita eterna da Laveau dopo che ne aveva mutilato l'amante.

La stagione si apre sulle vicende dell'adolescente Zoe Benson (ritroviamo nella parte Taissa Farmiga), che scopre di avere un potere mortifero uccidendo il ragazzo con cui aveva deciso di perdere la verginità. Zoe viene mandata alla scuola per giovani streghe diretta dalla mite Cordelia Foxx (una sempre ottima Sarah Paulson). Qui trova le sue nuove compagne, e fa la conoscenza della “Suprema”, la strega più potente e capo della congrega, Fiona Goode (Jessica Lange, con una nuova serie di nomination e premi vinti per la parte).

Come nelle altre stagioni, si compone via via un reticolo complesso di storie e vicende, grazie alla presenza di trame secondarie, dislocate su vari piani temporali, che intersecano la principale, come quella della strega figlia dei fiori Misty Day (Lily Rabe). D'altronde, lo stesso piano degli eventi principale, ricco di co-protagonisti, fa anche di questa stagione, una narrativa autenticamente corale (nonostante lo spessore dato dalla Lange al suo personaggio tenda a far impallidire gli altri).

Senza ripercorrere nel dettaglio le varie sotto-trame, si può accennare qui alle direttrici tematiche più interessanti: accanto a quella già menzionata della schiavitù e del razzismo, non c'è dubbio che il tema del femminile, della solidarietà e rivalità tra donne, sia tra i più evidenti. La congrega e più in generale la stregoneria sono oggetti collettivi tutti femminili, in cui gli uomini sono relegati in posti significativamente subalterni e strumentali (maggiordomi, serial killer impiegati come armi), scomposti e ricomposti come poveri oggetti (novelli mostri di Frankenstein, minotauri), o rappresentano minaccia e pericolo (cacciatori di streghe).

Sarebbe d'altronde un errore leggere in Coven una magnificazione senza ombre della cooperazione tra donne: la Suprema, condannata a decadere quando emergerà la giovane strega destinata a succederle, non ha scrupoli nell'uccidere la concorrente, e chiunque altra le sbarri la strada; i rapporti tra madri e figlie sono covi di risentimento e orrori (per non parlare delle rivoltanti violenze e molestie sessuali che caratterizzano quelli tra madri e figli maschi); i rapporti tra pari sono fonti di competizione e rivalità spietate, nel caso delle più giovani alunne come in quello delle streghe adulte, e così via. E d'altronde molte di queste streghe pagano salato lo scotto delle scorrettezze compiute.

Notevole è anche, in questa stagione, la rappresentazione del tema adolescenziale, che certamente non ignora i successi di altre scuole di magia e high schools – dalle saghe di Harry Potter a Twilight, fino all'ironico e sottovalutato Vampire Academy (2014) – ma, come di consueto in AHS, trasforma i suoi precedenti in un'ampia enciclopedia di elementi a cui attingere o fare riferimento in piena e spregiudicata autonomia creativa.

È da poco cominciata la messa in onda anche in Italia (al momento in cui esce questo articolo, ndr), della quarta stagione – Freak Show, giunta negli Usa alla sesta puntata. Nel cast molti dei nostri beniamini danno ottime prove: non deludono ad esempio Peters, Bates e Denis O'Hare; magistrale l'interpretazione della Paulson (entrambe le teste!) e quella di Frances Conroy (come nelle precedenti stagioni in un ruolo di supporto egregiamente svolto). Giganteggia come sempre Jessica Lange, che dà corpo qui a Elsa Mars, la tenutaria di origine tedesca del circo di freaks che funge da centro focale della storia, i cui sogni di fama non si sono spenti nonostante l'età e la sordida deriva della sua vita. Si aggiunge al cast ricorrente un ottimo Finn Wittrock nella parte del giovane, viziato e squilibrato Dandy Mott, un personaggio il cui vuoto interiore riempito di violenza riprende quello dei vari Funny Games che conosciamo. Pleonastico citare i Freaks di Tod Browning (1932) tra i riferimenti principali di Freak Show (un Browning che già, tellurico, percorreva le precedenti stagioni).

Abbondano i motivi di riflessione in questa quarta America degli orrori: la mutazione fisica, la deformità in primis – da usare per demarcare la linea tra “noi” e “loro” (chi dei due siamo noi?), da esporre in un gabinetto delle curiosità, da adoperare per reificare l'alterità o rimarcare i concetti di classe o ceto; il sesso e la libertà dei comportamenti sessuali, il travestitismo e la queerness, il palco scenico e la musica intra-diegetica (Elsa e i freaks si esibiscono per il pubblico), il dissidio tra interesse economico ed etica, e così via.

Ma le ultime righe di questo articolo vogliono tornare sulla coralità produttiva oltre che narrativa di AHS. La qualità della serie non sarebbe quella che è se ai due creatori e produttori non si affiancasse una squadra di professionisti e artisti impegnati a curare ciascun aspetto creativo del prodotto.

Non è nostro scopo qui elencare tutti coloro che hanno lavorato alla serie lungo le stagioni realizzate sinora. Ci limiteremo a menzionare alcuni ruoli e nomi-chiave, sufficienti a dare un'idea della moltitudine di apporti professionali e creativi necessari a mettere insieme un prodotto tanto complesso. Ricorrono ad esempio, tra i registi degli episodi, alcuni di spicco: da David Semel (Angel, Buffy, Person of Interest) ad Alfonso Gomez-Rejon (vincitore di un Emmy per il lavoro fatto con Coven), da Michael Rymer (il regista della miniserie-pilot di Battlestar Galactica) a Howard Deutch (True Blood), da Michael Uppendahl (Mad Men, Glee), a Jeremy Podeswa (Six Feet Under, Nip/Tuck) assieme ad altri.

Le messe in scena, che hanno nella costruzione dell'identità visiva della serie e di ciascuna stagione un peso fondamentale, devono tutto all'abilità di product designer e set decorators come Mark Worthington ed Ellen Brill. Eccezionalmente importante e riuscito il contributo sul fronte della colonna sonora e in generale del sound engineering (tra l'altro, le variazioni della sigla di apertura sono tra i più bei panorami sonori che sia capitato di ascoltare nella televisione recente). Qui compaiono nomi come quello del compositore James Levine (già all'opera non a caso in Glee e Nip/Tuck), e di Cesar Davila-Irizarry (autore del tema), mentre il sound editing del primo episodio di Asylum, coordinato da Gary Megregian, ha vinto un Emmy.

A proposito delle sigle di apertura, sono magistrali creazioni di Kyle Cooper (creatore anche delle aperture di Walking Dead): per Freak Show la sigla è stata realizzata in stop motion e varie altre tecniche, e offre una sequenza ricca di deformità e contenuti sessuali piuttosto espliciti.

Per chiudere sull'apertura, i critici, gli operatori culturali, gli accademici che ancora sostenessero l'escapismo e il disimpegno dell'horror e che fossero pronti a inorridire davanti ai propri errori: guardino AHS.

 


 

VISIONI

  Tod Browning, Freaks, Dcult, 2011 (home video).
 Scott Derrickson, Sinister, Koch Media, 2013 (home video).
 Mike Flanagan, Oculus, M2 Pictures, 2014 (home video).
 John Pogue, Le origini del male, Keyfilms Video, 2014 (home video).
 Steven Spielberg, Taken, DreamWorks Television, 2002.
 Gus Van Sant, Elephant, Bim, 2013 (home video).
 James Wan, L’evocazione, Warner Home Video, 2013 (home video).
 Mark Waters, Vampire Academy, Preger Entertainment-Reliance-Angry Films, 2014.
 Robert Wise, The Haunting, Metro Goldwyn Mayer, 1963.