VISIONI / COSMOS. ODISSEA NELLO SPAZIO


di National Geographic Channel Italia / Fox, Sky, 2014


 

Il più grande spettacolo dopo il Big Bang

di Roberto Paura

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Tra tutti i grandi documentari scientifici – o, per meglio dire, serial scientifici – della televisione, la nuova serie di Cosmos, sottotitolata A Space Odissey, e condotta dall’astrofisico americano Neil deGrasse Tyson, è stata probabilmente la più attesa e la più mastodontica nella produzione e nei costi (la Fox Entertainment non li ha resi noti, ma dato che solo nella creazione degli effetti speciali sono state coinvolte tre grandi aziende, si può immaginare che siano stati molto alti). Una gigantesca operazione commerciale, naturalmente, realizzata seguendo le regole dei serial televisivi più affermati – tra i produttori c’è Brennon Braga, che si è fatto le ossa con il franchise di Star Trek e successivamente con FlashForward – e con l’ambizione delle produzioni del grande schermo – direttore della fotografia è Bill Pope della saga di Matrix e Spider-Man, mentre la colonna sonora e la sigla, vincitori dell’Emmy Award, sono state firmate da Alan Silvestri, autore delle soundtrack di Ritorno al futuro, Forrest Gump, Contact solo per citarne alcuni. Ma anche una grande operazione “culturale”: lo era stata senz’altro la prima serie, trasmessa nel 1980 e condotta da Carl Sagan, astrofisico entrato nella leggenda della divulgazione scientifica. Il primo Cosmos, che pure non difettava di spettacolarità (la colonna sonora, indimenticabile, era firmata da Vangelis), aveva colpito l’immaginazione di mezza America ed era stato un grande strumento di divulgazione, capace di far appassionare alla scienza le giovani generazioni e spingerle allo studio delle materie scientifiche all’università. Sagan aveva un taglio personale nel suo modo di raccontare la scienza (il sottotitolo di quella serie, del resto, era A personal voyage), che toccava le corde dell’emozione e ribadiva messaggi come l’unità della specie umana – tema particolarmente sensibile negli anni della Guerra fredda – e il valore del metodo scientifico.

Non a caso la nuova serie è stata introdotta, negli Stati Uniti, dal presidente Obama, che ha sottolineato l’importanza di Cosmos come mezzo per avvicinare le nuove generazioni alle meraviglie della scienza. In una nazione leader della comunità scientifica mondiale, e che crede in questa leadership, l’obiettivo di non perdere posizioni, soprattutto nel confronto con la Cina, di cui sono ben noti gli spettacolari passi da gigante compiuti negli ultimi anni nel settore scientifico, ricorda molto lo sforzo che gli Usa fecero negli anni Cinquanta e Sessanta per recuperare il gap nella corsa allo spazio dopo lo schiaffo drammatico del lancio dello Sputnik da parte dell’Urss. Scrittori come Isaac Asimov lasciarono di botto la fantascienza per buttarsi a capofitto in un’imponente opera di comunicazione della scienza, che ebbe il merito di far crescere la generazione che nel 1969 avrebbe mandato il primo americano sulla Luna. Asimov lo faceva con i libri e gli articoli, qualcuno – era Frank Oppenheimer, fratello di Robert, il padre della bomba atomica – lo faceva costruendo grandi musei interattivi della scienza (oggi li chiamiamo “science centre”, il primo fu l’Exploratorium fondato da Oppenheimer a San Francisco nel 1969), ma già all’epoca era ben nota l’importanza del mezzo di comunicazione per eccellenza, la televisione, nella battaglia per la comunicazione della scienza. La televisione permetteva infatti di trasformare i discorsi in immagini, che potevano essere diffuse in tutte le case, senza dover costringere gli americani ad acquistare un libro, magari anche costoso: bastava accendere il televisore e si potevano vedere la Luna, Marte o Saturno grazie a una telecamera che s’imbucava nel telescopio dello U.S. Naval Observatory, o il sangue scorrere nelle vene di un topo grazie a una telecamera in grado di guardare dentro un microscopio: erano queste le immagini del primo programma di divulgazione scientifica, anno 1948 (LaFollette, 2012). Numerosi programmi servivano per raccontare i benefici dell’energia atomica, allo scopo di colmare quel divario che si era creato tra comunità scientifica e opinione pubblica dopo che le bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano rivelato al mondo i lunghi anni di segretezza del progetto Manhattan.

In comune, tutti i programmi di divulgazione scientifica televisiva hanno però qualcosa: un modo particolare di raccontare la scienza. Per capire quale sia, è importante guardare al passato, all’epoca precedente l’avvento dei mass media. Gli spettacoli scientifici esistevano già nel XVIII secolo e divennero di moda nel XIX. L’Illuminismo e il positivismo portarono all’attenzione del grande pubblico i grandi successi della scienza. Guglielmo Marconi trasformò i suoi esperimenti con le onde radio in grandi spettacoli, ai quali assistette anche la regina Vittoria. Spettacolari dimostrazioni del potere dell’elettricità e del magnetismo si tenevano quotidianamente nelle grandi capitali europee. Le grandi invenzioni e scoperte occupavano la scena delle Esposizioni universali. La spettacolarizzazione della scienza serviva a celebrare i trionfi dell’industrializzazione e, in generale, i successi della civiltà moderna. Non c’è molta differenza tra quegli spettacoli e quelli di oggi. I grandi serial scientifici sono imponenti celebrazioni dei trionfi che la scienza ha ottenuto e sta ottenendo negli ultimi anni e decenni. Servono a divulgare una visione fiduciosa della scienza come motore del progresso e della superiorità della civiltà: guardandoli, i giovani spettatori dovrebbero essere stimolati a imbarcarsi nella grande impresa scientifica non solo per far avanzare la conoscenza umana, ma per consolidare il prestigio della propria nazione. Era questo lo scopo della divulgazione scientifica americana negli anni Cinquanta e Sessanta, e resta ancora lo stesso nel XXI secolo.

“Tipico dei documentari scientifici televisivi è la mistificazione del processo di ricerca in una storia dell’inevitabile progresso della scienza… Il risultato sono storie che assomigliano a dei polizieschi, che raccontano di come la scienza realizzi nuove scoperte, inventi nuove tecniche e strumenti, sconfigga malattie… I documentari televisivi presentano un’immagine della scienza estremamente idealizzata” (Valiverronen, 1993). Cosmos in parte soffre di questo problema. Nell’offrire allo spettatore lo stato dell’arte delle conoscenze scientifiche, principalmente (ma non solo) nel campo dell’astrofisica e della cosmologia, utilizza tutta una serie di strumenti retorici che spettacolarizzano la scienza, la trasformano in un’eccitante avventura e, spesso, nascondono differenze di vedute nella comunità scientifica. I grandi serial scientifici televisivi, infatti, fanno a meno delle interviste agli scienziati. Al centro dello schermo c’è solo il conduttore, in questo caso Neil deGrasse Tyson. Un illuminante studio sulle tecniche del documentario televisivo spiega il suo ruolo: “Il narratore-presentatore gioca un ruolo molto importante nel documentario televisivo, dal momento che la sua voce e le sue dichiarazioni alla telecamera costituiscono l’ossatura del programma. Il narratore deve avere una credibilità di partenza data dalla sua reputazione morale (personaggio) e dalla conoscenza della materia (competenza). Ma entrambe queste dimensioni possono essere rinforzate nel programma. In primo luogo, dobbiamo tenere a mente che i documentari non hanno riferimenti a fonti scientifiche o note a piè di pagina, che possono rinforzare la competenza del presentatore. In qualche modo egli crea l’impressione di aver scoperto i fatti scientifici di cui sta parlando” (Léon, 2004).

La scelta di Sagan o di deGrasse Tyson deriva proprio da questa consapevolezza: lo scienziato in televisione viene in qualche modo idealizzato, e ciò che dice dev’essere preso per verità, anche se molto probabilmente egli non ha lavorato proprio nel settore a cui è dedicata la puntata. Nel conduttore/presentatore devono essere sintetizzate tutte le conoscenze scientifiche da divulgare; la sintesi opera una sorta di “cristallizzazione” della conoscenza scientifica, che non ammette incertezze. Parlando del Big Bang, è difficile poter citare il dibattito ancora in corso sul tema, per evitare che il fatto scientifico divulgato perda di credibilità. Secondo il sociologo della scienza Massimiano Bucchi, con questa semplificazione “la scienza finisce davvero con l’assomigliare alla magia nel senso antropologico descritto da Malinowski… L’uso di terminologia ed elementi «scientifici», il proclamarsi «scientifico» in simili e diffusi contesti e situazioni, diviene una sorta di «bollino di garanzia», né più né meno come «fatto in casa» o «prodotto artigianale» sul menu di alcuni ristoranti” (Bucchi, 2010). Forse consapevoli di questo problema, i produttori di Cosmos hanno però adottato un espediente: il cartone animato. L’utilizzo del cartone animato nella divulgazione scientifica ha una lunga storia (basti pensare alle fortunate animazioni di Bruno Bozzetto per la serie italiana Quark), ma nella nuova serie di Cosmos ha un’altra funzione: serve per raccontare fatti storici, adeguatamente drammatizzati, così da raccontare la storia dietro la scoperta scientifica. Anche qui, a volte, il rischio è nell’idealizzazione. Nella prima puntata il cartoon porta in scena la vicenda di Giordano Bruno, estremamente banalizzata nel suo rapporto con la religione, in una riproposizione un po’ stucchevole della vecchia contrapposizione tra religione e scienza. Anche in questo caso il rischio è di presentare la “Scienza” (con la S maiuscola) come un blocco omogeneo fatto di scienziati uniti dal razionalismo. Questo problema è ben sottolineato da Matteo Merzagora, studioso di comunicazione della scienza: “In effetti, praticamente tutti gli scienziati di cinema e televisione sono accomunati da una caratteristica, che poi riguarda qualsiasi personaggio cinematografico: si trovano in conflitto con la società o con la natura… Lo scienziato è per definizione progressista e rivoluzionario (se si resta a un’interpretazione letterale dei termini)… il [suo] sapere sarà indirizzato contro una natura violenta (è il caso dei film «catastrofici») o contro una società ottusa e oscurantista (è il caso degli scienziati «cassandre» o delle biografie, dove viene sovente messa in scena la lotta dell’uomo di scienza contro l’establishment, per l’affermazione della verità” (Merzagora, 2006). Oltre al caso di Giordano Bruno si potrebbe citare il cartoon di Henrietta Leavitt, la scopritrice delle cefeidi, e di Cecilia Payne, che per prima dimostrò che le stelle erano composte principalmente da idrogeno: le scienziate sono raffigurate come eroine perseguitate dall’establishment accademico maschilista dell’epoca, finché la loro verità non riuscì a trionfare.

Sono espedienti narrativi e semplificazioni inevitabili nella divulgazione della scienza, soprattutto quella televisiva, che soffre del problema del poco tempo a disposizione e della necessità di raccontare quanto più possibile attraverso le immagini. Ciò conduce all’altro problema: quello della drammatizzazione. Cosmos è principalmente un grande spettacolo, reso drammatico dalle spettacolari immagini – reali o in computer-grafica – e dalla colonna sonora, che enfatizza determinati passaggi, per esempio l’apparizione di un buco nero, con un tema ad hoc. Non tutta la scienza può essere spettacolarizzata in televisione. Certo non può esserla la matematica, ma nemmeno la chimica, due tra le materie meno trattate, non a caso, dalla divulgazione scientifica. L’astronomia invece si presta particolarmente. “No pictures, no story” (come spiega bene Carrada, 2005). Le immagini dell’universo costituiscono, di per sé, uno spettacolo, come ben sapeva Sagan nella serie originale di Cosmos. Neil deGrasse Tyson ha dalla sua la capacità di saper agganciare ai suoi temi di riferimento – l’astrofisica e la cosmologia – altre materie scientifiche, allo scopo di creare una narrazione corale della scienza. Lo fa attraverso l’Astronave dell’Immaginazione, un artificio scenografico che gli permette di viaggiare nello spazio a velocità superiori a quelle della luce, o ridursi fino alle dimensioni di un atomo. Uno dei problemi principali della divulgazione scientifica è infatti quello di dover trattare fenomeni a dimensioni diverse. Un capolavoro insuperato di Asimov come L’universo invisibile (Asimov, 1994) riesce a far viaggiare il lettore dai quark all’universo con rara nonchalance. Nella televisione il precursore più importante è Life on Earth (1979) di David Attenborough, forse il primo grande serial scientifico, che anticipò di un anno Cosmos di Sagan. Fu lì che venne introdotto per la prima volta un celebre dispositivo divulgativo: il “calendario cosmico”. Nel primo episodio compare infatti un calendario che comprime in 365 giorni tutta la storia della Terra, rivelando che l’apparizione dell’uomo risale al 31 dicembre. Pescando a piene mani dalla serie di Attenborough, Piero e Alberto Angela nel loro libro La straordinaria storia della vita sulla Terra (1992) utilizzano lo stesso calendario, riassumendo anche la storia umana negli ultimissimi minuti prima della mezzanotte del 31 dicembre. Lo stesso fa Neil deGrasse Tyson che, muovendosi su un bellissimo, gigantesco calendario in computer-grafica, spazia con agilità dal Big Bang fino alla nascita dell’uomo. In quel libro, inoltre, Piero Angela immaginava di viaggiare sul pianeta Terra della preistoria utilizzando una specie di astronave in grado di rimpicciolirsi, esattamente come l’Astronave dell’Immaginazione di deGrasse Tyson. Questo espediente, ripreso dai serial scientifici americani, fu portato sul piccolo schermo in Italia per la prima volta nel 1990 con La macchina meravigliosa, che conduceva lo spettatore all’interno del corpo umano viaggiando in una navicella microscopica, riprendendo le suggestioni del famoso film del 1966 di Richard Fleischer, Viaggio allucinante (Fleischer, 2011). Il successo fu tale che la RAI investì in due altre serie analoghe: Il pianeta dei dinosauri (1993), che sfruttava l’ondata mediatica di Jurassic Park e vedeva Piero Angela tornare nel passato all’epoca dei grandi rettili, e Viaggio nel cosmo (1998), in cui il conduttore, con tanto di tuta da astronauta, viaggiava a bordo del “Noos” (l’immaginazione che dà anche il nome all’astronave di Cosmos) in diversi angoli dell’universo.

Questo strumento di spettacolarizzazione si associa a quello del presentatore che si sposta continuamente in diversi scenari. In Cosmos, deGrasse Tyson può, in una stessa puntata, passare dal Wyoming alla campagna toscana fino al deserto australiano. Anche in questo caso, il precedente risale a Life on Earth: “La prima delle megaserie di Attenborough, Life on Earth, creò un nuovo format per i documentari naturalistici, nel quale il presentatore viaggiava intorno al mondo, per mostrare esempi diversi del mondo della natura. Poteva iniziare una sequenza in una foresta europea e, alcuni secondi dopo, apparire nel mezzo del deserto americano. Nel 1979, quando la serie fu trasmessa, questo era uno degli elementi più sorprendenti. Attenborough pensava, in qualche modo, che il presentatore fosse visto come una figura mitologica che potesse «saltare», in una manciata di secondi, da un continente all’altro” (Léon, 2004). Questo espediente oggi è comunissimo, e non ci facciamo nemmeno più caso, ma fu una rivoluzione nel passaggio dal documentario scientifico al serial spettacolare. Nel primo caso, tipico dei servizi di SuperQuark, gli argomenti sono spiegati attraverso esperimenti ideali o analogie. Ancora Piero Angela spiegava spesso la fissione nucleare con l’esempio di un salvadanaio che viene rotto, e le monete al suo interno separate, o con quello delle palle da biliardo separate da abile colpo di stecca (Angela, 1998). Nel secondo caso non si tratta di lasciare campo libero all’immaginazione, ma di visualizzare esattamente il fenomeno scientifico. DeGrasse Tyson ci porta all’interno di una stella come il Sole e ci mostra come avviene la fusione nucleare, non si accontenta di spiegarcelo con un esempio.

Cosmos, in definitiva, ci racconta di una scienza trasformata in un gigantesco spettacolo, grande quanto l’universo. Ci rassicura sulle capacità della specie umana di risolvere problemi e interrogativi, di spingere avanti le frontiere della conoscenza. Sprona – si spera – i giovani e i meno giovani ad approfondire i temi trattati. Non presenta la scienza vera, ma una sua rappresentazione ideale. Eppure, per quanto molti scienziati possano criticare il serial per la sua semplificazione, Cosmos non è per certi versi molto dissimile a quanto accade nella comunità scientifica. La spettacolarizzazione della scoperta ha contagiato anche il rigido establishment accademico. Nel 1996 il presidente Clinton in un discorso alla nazione presentava evidenze di batteri extraterrestri in un meteorite marziano. Nel 2011 il fisico italiano Antonio Ereditato sbalordiva il mondo annunciando che i neutrini violavano il limite della velocità della luce. Nel 2012 al CERN, nel corso di una grande diretta mondiale, venne annunciata la scoperta del bosone di Higgs; una delle scopritrici, Fabiola Gianotti, è diventata una star internazionale, a cui sono state dedicate copertine sulle più famose riviste generaliste e partecipazioni televisive. In due dei tre casi citati, tuttavia, le scoperte annunciate si sono rivelate errate a un’analisi più attenta. Le scoperte annunciate tramite grandi conferenze stampa, anticipate da lanci d’agenzia che parlano di “big announcements” e realizzate con l’uso di spettacolari animazioni, stanno soppiantando il tradizionale mezzo di pubblicizzazione di una scoperta, quello del paper scientifico. Anche gli scienziati spettacolarizzano la scienza, quindi. Molti scienziati stanno soppiantando anche i giornalisti nell’esercizio della divulgazione. Stephen Hawking ha presentato ben quattro serial scientifici sul piccolo schermo, diventando una star mondiale. Quest’anno sul grande schermo uscirà un film sulla sua vita. La scienza, insomma, si fa sempre più spettacolo.

 


 

LETTURE

Piero Angela, Raccontare la scienza, Pratiche editrice, Milano, 1998.
Piero e Alberto Angela, La straordinaria storia della vita sulla Terra, Mondadori, Milano, 1992.
Isaac Asimov, L’universo invisibile. Storia dell’infinitamente piccolo dai filosofi greci ai quark, Mondadori, Milano, 1994.
Massimiano Bucchi, Scientisti e antiscientisti. Perché scienza e società non si capiscono, il Mulino, Bologna, 2010.
Giovanni Carrada, Comunicare la scienza, Sironi, Milano, 2005.
Marcel Chotkowski LaFollette, Science on American Television. A history, University of Chicago Press, Chicago (Usa), 2012.
Bienvenido Léon, Science popularization through television documentaries: a study of the work of British wildlife filmmaker David Attenborough,
  in “The Pantaneto Forum” n. 15, luglio 2004, http://www.pantaneto.co.uk/issue15/front15.htm.
Matteo Merzagora, Scienza da vedere. L’immaginario scientifico sul grande e piccolo schermo, Sironi, Milano, 2006.
Esa Valiverronen, Science and the media: changing relations, in “Science Studies” vol. 6 n. 2, 1993.

 

VISIONI

Piero Angela, La macchina meravigliosa, RAI/DeAgostini, 1990.
Piero Angela, Alberto Angela e Dale Rusell, Il pianeta dei dinosauri, RAI, 1993.
Piero Angela, Viaggio nel cosmo, RAI, 1998.
David Attenborough, Life on Earth, BBC/Warner Bros., 1979.
Richard Fleischer, Viaggio allucinante, Koch Media, 2011.
Adrian Malone, Carl Sagan, Cosmos. A personal voyage, PBS, 1980.