Il diavolo è morto
(The Devil Is Dead, 1971) di R. A. Lafferty
Anni luce separano
il diavolo protagonista di questo romanzo da quelli descritti da Arthur
C. Clarke in Le guide del tramonto (Childhood's End,
1953), dove, però, sono di scena extraterrestri, i superni, prelevati di
peso dall'iconografia classica di Belzebù. Qui invece l'aspetto è umano,
più che umano e più convincente come diavolo. Una distanza stellare poi
separa questo romanzo dalle storie di fantascienza, anche quelle della
stagione in cui questo lavoro di Lafferty vide la luce, tempo di new
wave, di rottura degli schemi sia nelle modalità narrative che nei temi
affrontati. In che cosa consiste questo scarto tra Il diavolo è morto e
il resto della produzione fantascientifica? Nella somma di due debolezze
che, genialmente, Lafferty trasforma in punto di forza. Il primo tallone
d'Achille è quello storico della sf, l'immagine che presenta ai non
lettori del genere, che la considerano una raccolta di panzane. In parte
è anche così, davvero. Quanti marchingegni tecnologici sono finiti nel
museo delle panzane? Tante. Così Lafferty decide che spararla grossa,
mentendo
spudoratamente, insomma comportandosi da bugiardo dichiarato, si ottiene
una deriva del senso in grado di scatenare una serie infinita di
interpretazioni. Idea maligna, è il caso di dirlo, ma riuscita. La
seconda debolezza ribaltata da Lafferty è relativa ai temi cosiddetti
impegnati da cui la sf venne investita sin dagli anni Cinquanta, quando
proliferò la corrente sociologica. Lafferty ci va giù pesante e chiama
in causa la figura del male per eccellenza in Occidente: il diavolo. La
storia è di fantascienza e quindi il diavolo appartiene ad un'altra
razza, ma, qui c'è il trucco: un'altra razza, sì, ma umana, un altro
popolo che in tempi remoti ha dominato la Terra. Quanto agli
sperimentalismi datati anni Settanta, Lafferty gli rifila una sonora
stoccata. Racconta, racconta, ma in fondo questa è solo la storia di un
viaggio e
praticamente non racconta nulla. Il protagonista non è neanche il
diavolo, ma un marinaio che tutti chiamano Finnegan (alter ego
dell’autore?, chissà, comunque Lafferty aveva origini irlandesi) e
ognuno dei personaggi tirati in ballo si ritrova continuamente a
slittare da una personalità ad un'altra. Anticipazione degli avatar che
oggi proliferano in rete? Forse, tutto è possibile in una storia che
storia non è, sin dalle prime battute, quando Lafferty al termine di una
breve introduzione, scrive che neanche lui ci ha capito un acca di
quello che ha scritto. Bugiardo. Nella sua bella e classica La storia
della fantascienza, Jacques Sadoul scrisse a proposito di un
precedente romanzo di Lafferty, Quarta fase (Fourth mansions,
1969): “È quasi impossibile riassumerne il tema in un numero di parole
minori di quelle impiegate dall’autore”. In Il diavolo è morto non
bastano neanche quelle di Lafferty.
Raphael Aloysius Lafferty nacque il 7 novembre
1914 nello Iowa (U.S.A.), da famiglia di origine irlandese, nella cittadina di Dubuque, sulle rive del
Mississippi.
Svolse l'attività di ingegnere elettronico fino agli inizi degli anni
Settanta. Il suo primo romanzo, Cantata spaziale, (Space
Chantey, 1966) altro non è che la trasposizione in chiave
fantascientifica dell'Odissea. Nel 1968 pubblicò Maestro del passato
(Past Master), con protagonista sir
Thomas Moore confrontato con l'utopia realizzata sul pianeta Astrobe.
L’anno successivo esce Quarta fase in cui racconta di un computer
alla ricerca di vita extraterrestre nella galassia. Su viaggi e marinai
ritornò nel 1989 con Il 13° viaggio di Simbad (Sindbad, the
13° Voyage) altro scherzo letterario a partire dalle Mille e una
notte. Funambolici i racconti, in parte antologizzati nelle raccolte
Associazione genitori insegnanti, Come si chiamava quella città? (Nine
Hundred Grandmothers, 1970), Strani fatti (Strange Doings,
1972), Dieci storie dell'altro mondo (Golden Gate and Other
Stories, 1982), La banda di Barnaby Sheen (Ringing Changes,
1984). Nel 1990 gli venne attribuito il premio alla carriera World
Fantasy Award. Dopo una lunga malattia che lo aveva colpito nel 1994,
mettendo fine alla sua attività di scrittore, si è spento nel 2002.
|