Bing (Bing, 1966) di Samuel Beckett

 

Fantascienza? Non esattamente, questo è Samuel Beckett e tutto ciò che ha scritto è esclusivamente Beckett, anche quando i rimandi sono al versante alto della letteratura. Eppure... eppure se nel suo teatro gli scenari sono quanto di più post-atomico si sia mai visto nella fiction e qui, in Bing, uno dei suoi ultimi e più radicali testi, è difficile non sentirsi di fronte a una realtà aliena. Un essere viene descritto nello spazio in cui vive: un parallelepipedo di m. 1 x 1 x 2. L'essere è posizionato in piedi all'interno di questa sorta di bara verticale. In posizione eretta guarda fisso la parete bianca di fronte a sè e non compie nessun altro movimento. Non ruota neanche la testa: il soffitto e il pavimento del loculo gli sono ignoti. Il testo, costituito da un unico paragrafo con frasi separate da punti ma senza verbi e senza virgole. Vi prevale il bianco, il colore beckettiano per eccellenza. Il corpo dell'essere è completamente bianco, le pareti del parallelepipedo sono bianche. Non a caso Blanc era il titolo originale dell'opera, poi tramutato in Bing (Ping nella traduzione inglese). Bing potrebbe essere una storpiatura di being (essere, creatura), ma potrebbe essere anche un nome onomatopeico. Bing può essere considerato l'ultimo stadio di un lavoro di sottrazione e di parossistico raffinamento del materiale narrativo cui partecipano altri testi, da Lo spopolatore (Le dépleupleur, 1965) con le sue duecento persone chiuse in un gigantesco cilindro) alle due persone chiuse in una stanza in Quello che è strano, via (All Strange Away, 1964) e le due persone rannicchiate in una rotonda in Immaginazione morta immaginate (Imagination morte imaginez, 1965). Qui c'è un solo essere inscatolato in uno spazio che non gli consente alcun movimento. Oltre questo limite estremo non resta che un'opera senza personaggi. Beckett arriverà anche lì, ma attraverso il teatro, con Respiro (Breath, 1968) Nell’ultimo Beckett, i testi successivi a Come è (Comment c’est, 1961) abbandonano la prima persona e si disfano anche di quello straccio di corpo/identità che possedevano in passato, per quanto storpi, monchi, parzialmente sotterrati, incassati in vasi o giare, ecc.

A ben vedere, se c’è una cosa nella letteratura moderna che potrebbe rappresentare un capitolo aggiunto alla Divina Commedia essa è costituita da quella massa di personaggi, messi uno accanto all’altro, che sono spuntati dall’immaginazione di Beckett. Come se nell’impianto dantesco ci fosse un “girone” particolare a lui dedicato in cui ritrovare anime “in via di scontar pena” che ci somigliano tanto. Anime condannate, come le nostre, ad un tempo di attesa infinito. L’accostamento, del resto, non è arbitrario: Beckett si è occupato a lungo di Dante, concretizzando il suo studio nel  saggio Dante…Bruno.Vico…Joyce (1929), ma soprattutto adottando quel personaggio furtivo del Purgatorio, la cui presenza grava sull’intera opera: Belacqua, l’uomo accovacciato come un feto, che si abbraccia le ginocchia sulle quali appoggia il viso, guardando nel vuoto immagini che sono ora fuori ora dentro di lui. Da questo personaggio protagonista dei primi racconti di Beckett,raccolti in Più pene che pane (More Pricks Than Kicks, 1934), si originerà una folla di corpi simili a macchine da rottamare, resti dimenticati di un umanità che tuttavia rappresentano in pieno. Anzi, che in qualche modo sono condannati a rappresentare, muovendosi in paesaggi privi delle dimensioni estatiche del paradiso, senza neppure echeggiare l’atrocità delle pene dell’inferno. Scenari confinanti, piuttosto, con quel luogo intermedio che corrisponde al purgatorio. Caratterizzato, non tanto da un tempo eterno, segnato dal bene o dal male, ma dal tempo incerto dell’espiazione e dell’attesa

Samuel Beckett nacque nel 1906 in un quartiere periferico di Dublino. Dopo essersi diplomato al Trinity College di Dublino, viaggiò a lungo per l'Europa. A Parigi conobbe James Joyce. Le sue prime opere furono in inglese, i racconti e i due romanzi Murphy (1935). e Watt (1942-45). Nel 1938 si trasferì definitivamente a Parigi e dal 1945 adottò il francese come lingua d'elezione. I primi testi redatti in francese sono del 1946,  la novella Primo amore (Premier amour) e il romanzo Mercier e Camier (Mercier et Camier). Fra il 1951 e il 1953 vide la luce la grande trilogia narrativa composta da Molloy, Malone muore (Malone meurt) e L'innominabile (L’Innomable). Aspettando Godot (En attendant Godot, 1949) gli diede una fama mondiale: due vagabondi aspettano invano l'arrivo di un enigmatico personaggio Godot, appunto. Nel 1969 gli fu assegnato il Nobel per la Letteratura.