VISIONI / LEI


di Spike Jonze / Annapurna Pictures, 2014


 

Il sex appeal dell'incorporeOS

di Roberta Iannarone

 

image

Theodore Twombly per lavoro scrive lettere per conto di altri: le persone gli inviano le informazioni e lui simula sentimenti ed emozioni e li mette su carta per loro. La sua vita è un normale alti e bassi, un matrimonio, un divorzio, gli amici. E poi un giorno arriva Samantha, che sembra proprio essere la donna della sua vita: intelligente, spiritosa e dolcissima, Theodore non può far altro che perdere la testa per lei. Ma anche Samantha si innamora perdutamente di lui, e così ha inizio la loro splendida storia d'amore. Fin qui l'impianto narrativo di Lei, l'ultima opera di Spike Jonze, sembra essere uno di quelli che più classico di così non ce n'è. Se non per un piccolo particolare: Samantha è un OS, un Sistema Operativo. Vale a dire, un’intelligenza artificiale progettata per simulare la mente umana. E come vediamo poi nel corso della narrazione, lo fa anche fin troppo bene.

Non si fa fatica a credere come il capolavoro di Jonze, che oltre ad essere regista ne è anche sceneggiatore, possa aver conquistato l'Oscar per la migliore sceneggiatura originale. Sentimentale e a tratti tragicomico, pseudo-fantascientifico quanto basta, l'immaginario allestito da questa pellicola assume tuttavia contorni inquietanti: ciò che infatti colpisce fin dalla prima sequenza è la totale assenza di rapporti umani diretti. Gli unici rapporti "reali" (ma qui la percezione del reale è sempre subordinata al principio di realtà a cui fa riferimento, per cui se ciò che accade nella realtà virtuale ha effetti sul reale allora essa stessa è reale) si contano sulla punta delle dita di una mano. C'è una sola occasione in cui Theodore è impegnato in una normale relazione di coppia – di quelle che non hanno bisogno di supporti elettronici per poter funzionare – ed è il matrimonio con la sua ex moglie: attraverso i ricordi, scopriamo la loro vita di coppia, i loro momenti più belli e le loro piccole crisi. Una “normale” relazione tra uomo e donna, a cui però fanno da contrappunto due episodi abbastanza singolari. Il primo, la telefonata notturna nella chat erotica (dagli esiti alquanto esilaranti), in cui Theodore è impegnato in un (finto) amplesso con una (vera) ragazza dall'altro capo del telefono, di cui possiamo sentire solo la voce; il secondo, un catastrofico appuntamento con una bellissima donna (interpretata dalla splendida Olivia Wilde) troppo ansiosa di sistemarsi con un potenziale “uomo della sua vita”, al punto da trasformare la loro serata in un disastro totale.

Jonze è un autore sui generis, che gioca sempre con effetti di straniamento dello spettatore (come, ad esempio, in Essere John Malkovich del 1999). Lei è un testo complesso, strutturato su vari livelli di lettura: storia d'amore e di fantascienza, è principalmente un film sull'impossibilità di gestire le relazioni con l'altro – nel senso etimologico del termine, il "diverso da me" – ed è al tempo stesso una riflessione su come l'invasività delle intelligenze non biologiche a cui siamo sottoposti rischia di mettere in discussione i principi basilari del vivere sociale.

Sebbene l'estetica di Lei sia intrisa di un mood vagamente nostalgico – dagli arredamenti, agli abiti, fino al design dello stesso smartphone di Theodore (imitazione in scala della mitica Polaroid), tutto sembra essere tornato agli anni Settanta – lo spettatore si trova di fronte al racconto di un futuro molto prossimo, talmente prossimo da essere quasi già il nostro presente. Samantha sembra infatti una “pronipote” di Siri, l'intelligenza artificiale della Apple installata sugli ultimi modelli di iPhone lanciati sul mercato. E se un gruppo di ricercatori brasiliani ha messo a punto una macchina ispirata alle empathy boxes dei romanzi di Philip K. Dick, in grado di leggere il livello di empatia dei soggetti in analisi, da qualche mese in Italia è in commercio il primo androide domestico, Robi (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 48), che finalmente realizza uno dei sogni più ambiti dagli appassionati di fantascienza (e non).

Nella letteratura e nell'immaginario sci-fi i robot e in generale le intelligenze artificiali (anche quelle non dotate di un “corpo”) sono sempre stati connotati da un'aura di ambiguità e da un continuo altalenare tra il bene e il male, tra fascinazione e turbamento. Per placare le ansie dei suoi lettori, Isaac Asimov elaborò nel 1941 le famose tre leggi della robotica, che presto divennero una convenzione globalmente accettata da tutti gli autori successivi, basate sul principio per cui prima di ogni altra cosa viene l'incolumità dell’uomo:

I. Un robot non deve recare danno ad alcun essere umano e non deve permettere, rimanendo inattivo, che un essere umano compia del male.

II. Un robot deve ubbidire agli ordini impartitigli dagli esseri umani, a patto che questi ordini non contrastino con la Prima Legge.

III. Un robot deve proteggere la propria esistenza a patto che ciò non contrasti con la Prima o la Seconda Legge.

Ora che le macchine sono entrate a far parte così prepotentemente nelle nostre abitudini – tanto che a volte nemmeno ci accorgiamo della loro presenza – i cervelli bionici non sono più tanto perturbanti quanto settanta anni fa; eppure a fine anni Novanta era ancora troppo presto per fidarci di loro. Era il 1999 quando sul grande schermo apparvero i cattivissimi software senzienti di Matrix: allora i computer ci facevano ancora paura, una tecnologia che per molti era ancora misteriosa e di difficile comprensione; non esistevano gli smartphone, i prodotti della Apple erano ancora rivolti ad un target di nicchia e in generale i pc venivano considerati apparecchiature complicate, oscure e dotate di un'aura di misticismo che scatenava nell'immaginario collettivo ogni sorta di fantasia e di inquietudine. Lo scenario post-apocalittico di Matrix ammanta di un alone di malvagità creature nate per essere al servizio dell'uomo e che invece riducono in schiavitù il loro creatore, in una rivisitazione in chiave contemporanea del mito di Frankenstein.

L'opera di Jonze si colloca in una posizione diametralmente opposta rispetto ai fratelli Wachowski e le intelligenze artificiali che incontriamo non sono spietati dominatori della razza umana, ma figure molto più friendly, che spesso e volentieri finiscono col diventare amici e persino amanti dei propri utenti. E se ad un certo punto sembra quasi che Spike Jonze ci dica "attenzione, guardate che le macchine possono prendere il sopravvento, perché sono molto più sveglie dei loro padroni!", l'idea di un mondo in cui le nostre vite siano interamente gestite da OS smette di essere così spaventosa. Anzi, è quasi rassicurante.

Lei è il punto d'arrivo di un percorso di crescita, è lo stadio ultimo dell'evoluzione del nostro rapporto con le macchine e in quanto tale rivela quale sia (da sempre) la vera natura di questo rapporto: quella di un ménage di coppia. Nella storia del cinema di certo non mancano pellicole sulla “promiscuità” tra circuiti elettrici ed esseri di carne, che spesso si manifesta come la realizzazione di una fantasia erotica di sottomissione totale e accettazione incondizionata della volontà del dominatore.

Un esempio emblematico è Blade Runner (1982) di Ridley Scott, tratto dal romanzo di Philip K. Dick Gli androidi sognano pecore elettriche? (1968): nell'opera cinematografica simbolo del cyberpunk la storia della caccia agli androidi ribelli si intreccia alla controversa relazione amorosa tra Rick Deckard, poliziotto della squadra speciale con il compito di “ritirare” i Nexus6, e Rachael, un avanzatissimo modello di replicante dalle sembianze umane – o piuttosto, dalle sembianze di una conturbante e sensuale Sean Young. Se nel libro di Dick andare a letto con un “andy” era un'idea raccapricciante (pari a fare sesso con il proprio frigorifero), negli anni Ottanta dell'avvento della cyber-era le pulsioni sessuali di Deckard verso una donna fatta di circuiti elettrici risultano più socialmente accettabili.

Le cose vanno un po' diversamente in Io e Caterina (1980), dove Enrico Melotti (Alberto Sordi, che è anche regista del film) viene letteralmente braccato dalla possessiva domestica elettrica innamorata di lui, che esige dal proprio padrone il rispetto e la dedizione che chiederebbe una donna vera. Tuttavia ciò che aveva spinto Melotti/Sordi ad acquistare questa grande innovazione tecnologica era la necessità di avere un “essere” (e qui le virgolette sono d'obbligo) femminile che potesse soddisfare i suoi bisogni senza creare i problemi e i grattacapi di un rapporto sentimentale.

Ciò non toglie che, se i robot (e gli OS) fossero programmati per servire e obbedire al proprio padrone e che quindi per definizione si comportassero come un corteggiatore pazzo d'amore per l'oggetto del proprio desiderio, anche i proprietari possono cedere a tali e tante lusinghe e innamorarsi senza remore dei propri adulatori, proprio come accade a Theodore. Se Walter Benjamin fosse ancora tra noi, rimarrebbe basito nel vedere fin dove abbia potuto spingersi quello che in un suo famoso saggio aveva definito "il sex-appeal dell'inorganico" (cfr. Benjamin, 2000): l'Ottocento delle grandi esposizioni universali aveva dato origine ad un vero e proprio feticismo della merce, teso a sottolineare non tanto le funzioni di utilità degli oggetti, quanto piuttosto le funzioni edonistiche e di investimento affettivo e passionale che attribuiamo a questi ultimi. Il valore d'uso passa in secondo piano rispetto al valore simbolico e il portato emozionale della merce prende il sopravvento, specialmente nel secolo successivo, il Novecento, nell'era della digitalizzazione del mondo (la “terza rivoluzione industriale”) che ha connotato la merce di un'ulteriore stratificazione emotiva: i personal computer e tutto ciò che deriva dalla tecnologia del transistor hanno subìto un processo evolutivo, spinto dal desiderio di creare oggetti e strumenti sempre più simili all'uomo, macchine che hanno la pretesa di agire e pensare come noi. Le nostre protesi mediali, gli strumenti del comunicare e in generale le nostre estensioni tecnologiche non diventano altro che la nostra immagine riflessa, e come insegna il mito di Narciso, gli esseri umani sono inevitabilmente soggetti alla fascinazione di ogni estensione di sé che sia la riproduzione di se stessi in un materiale differente da quello di cui sono fatti. Per questo, come Narciso, siamo destinati fatalmente ad innamorarcene. L'amore narcisistico per la merce e per le proprie estensioni raggiunge la sua accezione più ampia e la sua estrema declinazione proprio in Lei, in cui il sex-appeal dell'inorganico lascia il posto al sex-appeal dell'incorporeo: nel momento in cui Theodore e Samantha hanno il loro primo rapporto sessuale – reso straordinariamente da Jonze con una dissolvenza in nero, mentre le voci ansimanti dei due personaggi colti nell'apice del loro momento più intimo avvolgono lo spettatore nel buio della sala.

 


 

LETTURE

  Abruzzese Alberto, Borrelli Davide, L'industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Carocci Editore, Roma, 2001.
Frasca Gabriele, L'oscuro scrutare di Philip K. Dick, Meltemi, Roma, 2007.
McLuhan Marshall, Capire i media. Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2011.
Benjamin Walter, I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino, 2000.

 


 

VISIONI

  Spike Jonze, Essere John Malkovich, Universal Pictures, 2004.
Ridley Scott, Blade Runner, Warner Home Video, 2008.
Alberto Sordi, Io e Caterina, Iif Home Video, 2005.
Andy Wachowski, Lana Wachowski, Matrix, Warner Home Video, 2002.