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Federico Fellini,
disegno per Otto e mezzo:
la Saraghina balla la rumba
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Una crisi di inspiration?
E se non fosse per niente passeggera, signorino bello?
Se fosse il crollo finale di un bugiardaggio
senza più estro né talento? Sgulp!
(Guido a se stesso)

 

ottoemezzo_locPer spiegare il sogno nel (e del) cinema di Federico Fellini si dovrebbe usare una logica onirica a mezza via tra Franz Kafka e Moebius, passando per Winsor McCay, Milo Manara e Andrea Pazienza, Sigmund Freud e Jacques Lacan, e il più evidente Carl Gustav Jung, ma l’obiettivo di questo contributo, ovviamente, non può essere così ambizioso. Fellini è uno dei registi che meglio ha raccontato il cambiamento (anche drammatico) della nostra società all’indomani della Seconda guerra mondiale. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono i due decenni in cui si sono poste le basi per la costruzione della società italiana così come la conosciamo oggi, attraverso una complessiva dinamica di mutamento dove già allora emersero, per poi acuirsi, disuguaglianze strutturali, sociali, economiche e culturali. In questo processo, qual è il ruolo svolto da Fellini? Il regista di Rimini, come è stato osservato, non ha il “rigore morale” di un Roberto Rossellini, non ha il “respiro mitologico” di un Pietro Germi né la “lucidità antropologica” di un Alberto Lattuada (Frezza, 2012). Qual è allora, al di là della mitologia e delle facili agiografie, la specifica carica innovativa del nostro?

Uno degli aspetti più interessanti dell’opera di quello che negli Stati Uniti considerano “the best known of the post-war Italian directors” (Burke e Waller, 2002) è la potente capacità di innovazione tecno-mediale, attraverso il sogno, dell’immaginario occidentale. “Un film per me è veramente qualcosa di assai vicino a un sogno amico ma non voluto, ambiguo ma ansioso di rivelarsi, vergognoso quando viene spiegato, affascinante finché rimane misterioso” (Fellini, 1980). Dopo il successo incredibile donatogli da La dolce vita, il nostro non si guardò indietro e re-inventò il cinema, a partire da (1963), con cui ottenne il suo terzo Oscar. La critica dell’epoca in gran parte lo fraintese completamente. Si ricordino le stroncature di personalità come Franco Fortini, Goffredo Fofi, Mino Argentieri e Dino Buzzati; Guido Aristarco su La Stampa sottolineò “l’inconsistenza della visione felliniana” (cit. in Giori, 2006).

 

L’ottavo lungometraggio di Fellini, a cui si deve aggiungere, per ottenere il risultato del titolo, l’episodio Le tentazioni del dottor Antonio (nel lavoro collettivo Boccaccio ’70, 1962), racconta, primo di una lunga serie di opere simili, il disagio creativo di un regista. Il tutto attraverso una lente prospettica esplicitamente autobiografica e onirica. Esiste infatti una funzione nel cinema moderno e contemporaneo che andrebbe sviscerata in tutte le sue componenti mitografiche. Tra le opere più note, fortemente debitrici della carica innovativa del capolavoro felliniano, citiamo quantomeno: Effetto Notte di François Truffaut (1973), Stardust Memories di Woody Allen (1980), Sogni d’oro di Nanni Moretti (1981), Lo stato delle cose di Wim Wenders (1982), Il ladro di orchidee di Spike Jonze (2002). Come a suo tempo arguì Christian Metz, Fellini “è il primo ad aver costruito tutto il suo film, e ad averne ordinato tutti gli elementi, in funzione della messa in abisso”: con abbiamo un film quantomeno “raddoppiato”, poiché “non abbiamo soltanto un film sul cinema, ma un film su un film che a sua volta verte sul cinema; non soltanto un film su un cineasta, ma un film su un cineasta che riflette egli stesso sul proprio film” (Metz, 1972). E questo molto prima che il cinema nei decenni Ottanta e Novanta si autodefinisse, sulla scorta forse di premesse teoricamente sballate, postmoderno.

 

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In tale prospettiva, mette quindi in scena il cinema non solo come opera d’arte, o cinema commerciale, ma anche e soprattutto “come testo”, il che, in un certo senso, implica l’iscrizione nel meccanismo semiotico che lo sottende di un più o meno preciso “modello di spettatore, che si interroga sulla ricezione e sull’interpretazione che altri spettatori potranno dare di sé”. Detto in altri termini, il film “riflette su ciò che nel decennio successivo sarebbe divenuto norma chiamare istituzione” (Giori, 2006).

Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) è un regista in profonda crisi creativa che cerca di ritrovare l’ispirazione mentre si rilassa in un centro termale. Qui viene letteralmente assalito da immagini e suoni in forma di ricordi, fantasie, sogni e deliri più o meno (dis)organizzati. Guido cerca disperatamente di non farsene sopraffare, tentando inoltre di entrarvi proficuamente in contatto e di dialogare con essi. E lo fa attraverso una procedura che audiovisivamente è di grande interesse teorico, imbastendo un tessuto di suoni, rumori e voci in, off e over, intra ed extra-diegetici, dalle inedite e inaudite conseguenze.

 

Quando ormai è sul punto di abbandonare il progetto del suo nuovo film, come è noto, ha un improvviso insight e decide di raccontare la propria crisi artistica. è di fatto un film che racconta questo tormento, la conseguente agnizione, l’elaborazione del “lutto” e il suo superamento. Non è un caso che Fellini abbia scelto proprio questo film per appuntare il proprio nome, il nome dell’autore in crisi e in cerca di sé, sui titoli di testa dell’opera. Una dichiarazione di poetica, insomma, come il ritornello conoscitivo “Asa nisi masa” che risuona nel film è un po’ il corrispettivo di Rosebud del wellesiano Citizen Kane. E ancor di più del film di Welles, ma il parallelo finisce qui, il personaggio principale è davvero protagonista assoluto. Attraverso la focalizzazione interna, noi spettatori sappiamo e percepiamo solo quello che Guido percepisce e conosce, grazie a continue soggettive, anche emotive. Ha ragione Giori: “Fellini non solo parla di sé, ma è anche il proprio spettatore ideale”. E forse questo è il limite più grande del film. Il regista romagnolo ha una fantasia incontrollata, ma col limite di essere “fondamentalmente provinciale” – come notava guarda caso proprio Welles – mostrando “pericolosi segni di essere un artista superlativo che ha molto poco da dire”. Ma questo, è ancora Welles a parlare, “è anche la fonte del suo fascino”. “I suoi film”, insomma, “sono il sogno della grande città da parte di un ragazzo di provincia. Le sue sofisticherie funzionano perché sono la creazione di qualcuno che non è sofisticato” (Welles, 2005). D’altra parte, una certa finta modestia, o ingenuità, la si può leggere abbastanza chiaramente nelle parole dello stesso Guido: “Mi sembrava di avere le idee così chiare. Volevo fare un film onesto, senza bugie di nessun genere, mi pareva di avere qualcosa di così semplice, così semplice da dire. Un film che potesse essere utile un po’ a tutti, che aiutasse a seppellire per sempre tutto quello che di morto ci portiamo dentro. E invece io sono il primo a non avere il coraggio di seppellire proprio niente”.

Per quanto poi Fellini dicesse di non vedere opere di altri autori, è assodato che Il posto delle fragole (Bergman, 1958) fosse uno dei suoi film preferiti, mentre pare, stando sempre al suo biografo Kezich, che il romanzo di Svevo, che chiaramente viene in mente vedendo , non sia mai stato consultato (Kezich, 2007).

 

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Qualche anno prima, il nostro aveva iniziato a frequentare le teorie di Jung, leggendo alcune sue opere, attraverso la conoscenza diretta di Ernst Bernhard, il tramite e mediatore italiano dell’opera (assai controversa, a parere di chi scrive) dell’analista svizzero. Fellini si avvicina a Jung “da dilettante, da pasticcione, con una golosità tesa a cogliere sollecitazioni positive”, trovandovi “un punto d’incontro tra scienza e magia, tra razionalità e fantasia” che lo libera “dal senso di colpa e dal complesso di inferiorità” (Fellini, 1980). “Non ho letto Proust, non ho letto Joyce, non so un cazzo di niente”, ripeteva spesso il regista di Rimini, non senza una certa naiveté. “Non c’è bisogno che tu abbia letto Joyce o che tu vada a vedere i quadri di Picasso, ormai la vita è condizionata da quelle opere, quindi basta che tu vivi e per forza assorbi il contenuto di quelle opere” (si riporta da L’ultima sequenza, documentario curato da Mario Sesti nel 2004. Le dichiarazioni sono state raccolte proprio sul set di ). Argomento che può essere applicato senza tema di smentita al suo cinema. Felliniano è diventato infatti un aggettivo noto a tutti, che si conosca o meno davvero il suo cinema.

 

Ma torniamo a Jung. È a partire da questo incontro che Fellini dà vita al suo celebre Libro dei sogni. Egli preferisce Jung a Freud per l’interpretazione del simbolo che in Jung è un modo per esprimere l’inesprimibile (come il cinema per Fellini?). Freud e Lacan, sia detto en passant, non offrono invece soluzioni, ma lavorano sul sogno come rimando da un significante all’altro lungo la catena del simbolico, che è un concetto assai diverso dal simbolo junghiano.

Il fulcro di è dunque la triade sogno-fantasia-ricordo. Come individua bene Gilles Deleuze il film è puntellato da alcune macro-tipologie di immagini: “il ricordo d’infanzia, l’incubo, lo svago, la fantasticheria, il già vissuto” (Deleuze, 2004). Nel film si assiste ad una dinamica di reversibilità dello sguardo: guardante e guardato si confondono continuamente. Su questo asse portante si innestano il circo e l’esoterismo, l’ironia e un inarrestabile narcisismo, le ciarle di personaggi comuni o esageratamente colti, le ipocrisie e le repressioni della Chiesa. E ovviamente un harem sterminato di donne, dall’infanzia al presente. Amanti, mogli, amiche, madri, puttane, sante: Guido ne è letteralmente circondato. In questa chiave, ancora una volta sono assai rivelatrici le parole del regista stesso: “Il film dovrebbe essere anche la storia di questo interminabile favoleggiare sul continente donna, oscuro e affascinante. Protagoniste a parte, dovrebbero esserci molte altre apparizioni femminili, ho la sensazione che queste vaghe presenze profumino tutta la storia e che tutti gli avvenimenti convergano verso un unico problema, e cioè quell’intestardirsi del protagonista a chiarire se stesso attraverso queste magiche e indefinite proiezioni. La donna rispecchia e restituisce le nostre emozioni e i nostri bisogni, ce li restituisce con amicizia e comprensione, dà loro forma, ce li rivela. Il protagonista potrebbe anche dirle queste cose, magari comportandosi in maniera totalmente contraddittoria. Potrebbe dire che la donna è più sincera dell’uomo, che si rivela, si esprime e si consegna così com’è, non come vorrebbe essere, non ha la nostra finzione, la maschera del lavoro, dell’impegno, della ideologia, che inganna e copre la verità” (Fellini, 1980). È il personaggio della ninfa Claudia (la conturbante Cardinale) a fungere da hub tra l’integrazione delle realtà, i sogni e le visioni di Guido, aprendo “una via maestra all’inconscio del personaggio e creatore” verso il “suo oscuro abitatore” (Pintor, 2012). “Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita daccapo? Di scegliere una cosa, una cosa sola e di essere fedele a quella, riuscire a farla diventare la ragione della tua vita, una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita. Saresti capace?” le chiede Guido, non ricevendo, ovviamente, risposta.

 

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La via maestra dell’inconscio del cinema di Fellini si dispiega appieno nella triangolazione di con due opere non cinematografiche, due straordinari fumetti. Quello che Fellini fa, e che lo accomuna alla sua “controparte fumettistica”, ovvero agli autori citati in apertura, è la voglia matta e l’assenza di timore alcuno nello sporcarsi le mani con il propellente onirico di qualsiasi forma narrativa. Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet è considerato la pellicola non filmata più celebre della storia, un vero e proprio biglietto d’ingresso per un’esplorazione onirica di marca moebiusiana prima ancora che manariana. Un invito, quello del testo di Fellini, raccolto da Manara e trasformato in un capolavoro della nona arte. Il Viaggio di G. Mastorna di Fellini nasce nel 1965, quindi subito dopo , quando lo stesso cineasta ne scrive il primo copione cinematografico. Il regista aveva in mente parecchi attori a cui affidare la parte (tra i quali anche Totò), e ad un certo punto sembrò quasi certo che spettasse all’attore-feticcio Mastroianni, ma infine il film venne bloccato: solo quando il regista lo riprese, si convinse che Paolo Villaggio era il più adatto al ruolo, tanto da realizzare con lui una sessione fotografica. Fellini realizzò anche lo storyboard di tutta la prima parte, poi alla base del fumetto pubblicato nel 1992 e disegnato da Manara, riprendendo il protagonista con le fattezze di Villaggio. Si tratta di un autentico viaggio verso la conquista del regno dell’immaginazione. Il mago e i clown del finale di , così come tante altre citazioni dall’immenso universo immaginifico del regista di Rimini, si rifrangono nel fumetto firmato da Manara, attraverso quello che potremmo definire “un sapere montaggio” (Pintor, 2012). Quella che viene interrogata continuamente è la spazialità dell’opera audiovisiva felliniana, sia essa a fumetti o cinematografica. Viaggio a Tulum, da un altro soggetto di Fellini, è basato invece su una sceneggiatura di Fellini e Tullio Pinelli, Viaggio a Tulun, pubblicata sul Corriere della Sera in sei puntate consecutive, dal 18 al 23 maggio 1986. Il fumetto è stato pubblicato sulla rivista Corto Maltese a partire dal luglio del 1989 ed ha portato a numerose riedizioni in volume. Protagonista qui è un personaggio dalle stesse fattezze di Marcello Mastroianni chiamato Snaporaz, come lo stesso Guido viene chiamato in e in La città delle donne (1980). In uno dei momenti chiave del fumetto, viene esplicitato il debito contratto con l’immaginario di un certo fumetto a stelle e strisce: “Come invidiavo da ragazzino Flash Gordon e Mandrake… Adesso mi trovo davvero a volare come loro”. Volare, sognare, vivere come se si fosse in un sogno. Ma Guido, per tornare a , è il regista, e il regista è colui il quale deve risolvere problemi, deve rispondere a domande, dare un senso al caos. In tutto questo Daumier (Jean Rougeul), tra i pochi personaggi maschili interessanti del suo intero universo, sembra incarnare una critica preventiva al film stesso, ne mette in luce la vacuità, l’aspetto autobiografico, l’addizione di sequenze. E per quanto Guido lo desideri morto, allo stesso tempo Fellini gli mette in bocca discorsi sensati, soprattutto nel finale, ponendolo come contraltare razionale.

Non ci sono conclusioni definitive perché il processo creativo non ha mai fine. Per cui, vale la pena di aderire all’invito dello stesso Guido, e trasporlo sul piano del consumo delle immagini cinematografiche o fumettistiche del nostro: “È una festa la vita: viviamola insieme!”.

 


 

LETTURE

Benderson Albert E., Critical Approaches to Federico Fellini’s 8½, Arno Press, New York, 1974.
Burke Frank e Waller Marguerite E. (a cura), Federico Fellini. Contemporary Perspectives, University of Toronto Press,
Toronto, 2002.
Deleuze Gilles, Cinema 2. L’immagine tempo, Ubulibri, Milano, 2004 (ed. or. 1985).
De Santi Pier Marco, I disegni di Fellini, Laterza, Roma-Bari, 2004.
Fellini Federico, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980.
Fellini Federico, Il libro dei sogni (a cura di Tullio Kezich e Vittorio Boarini, con una nota di Vincenzo Mollica),
Rizzoli, Milano, 2007.
Fellini Federico, Il viaggio di G. Mastorna, Quodlibet, Macerata, 2008.
Frezza Gino, Fellini, disegnatore e cineasta, in Frezza Gino e Pintor Ivan (a cura), La strada di Fellini.
Sogni, segnacci, grafi, immagini e modernità del cinema, Liguori, Napoli, 2012.
Giori Mauro, 8½ e il cinema come istituzione. Il film “difficile” di Fellini e la cultura italiana del suo tempo,
in De Berti Raffaele (a cura di), Federico Fellini. Analisi di film: possibili letture, McGraw-Hill, Milano, 2006.
Kezich Tullio, Federico. Fellini, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2007.
Metz Christian, La costruzione “in abisso” in “Otto e mezzo” di Fellini, in Id., “Semiologia del cinema”,
Garzanti, Milano, 1972 (1968), pp. 304-308.
Minuz Andrea, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2012.
Pintor Ivan, Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini, in Frezza Gino e Pintor Ivan (a cura),
La strada di Fellini. Sogni, segnacci, grafi, immagini e modernità del cinema, Liguori, Napoli, 2012.
Welles Orson, It’s All True. Interviste sull’arte del cinema, Minimum fax, Roma, 2005.

 


 

VISIONI

Fellini Federico, , The Criterion Collection, 2010.
Manara Milo, Viaggio a Tulum – Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet, Il Sole 24 Ore, Milano, 2006.
Sesti Mario, L’ultima sequenza, Istituto Luce, 2008 (include anche La tivù di Fellini, di Tatti Sanguineti).