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LETTURE / UN ROMANZETTO LUMPEN


di Roberto Bolaño / Adelphi, Milano, 2013 / pp. 119, € 14,00


 

Di letteratura, porci e puttane

di Livio Santoro

Nel 2003, appena superato il mezzo secolo di vita, metà del quale passato sulla costa catalana, il cileno Roberto Bolaño muore nella città di Barcellona, andando a rimpolpare le schiere già assai frequentate degli artisti passati prematuramente a miglior vita (prematuramente almeno nei nostri tempi medicalizzati, almeno nei nostri testardi ambienti senili). Da allora, come solitamente succede in casi come questo, s’inaugura la stagione editoriale postuma di un grande scrittore già piuttosto osannato in vita. Lo si scopre e lo si riscopre, lo si legge famelicamente, lo si traduce in giro per il mondo, si discute di lui e della sua opera, con una furia spesso abbastanza distante dal legittimo discorrere. Alcuni provano anche a dipingere il profilo di un artista maledetto, avocando l’aiuto in questi casi sempre fedele della droga e parlando addirittura, in certi fantasiosi casi, di un Bolaño consumatore di eroina (cosa peraltro smentita da voci più affidabili); altri raccontano di un buon padre di famiglia, che trascura la malattia epatica che ne causerà la morte per garantire un futuro buono, economicamente s’intenda, ai propri figli. Molti inneggiano al nome del narratore, forse il più grande che i tempi più recenti abbiano conosciuto, si dice. Fatto sta che tutto questo gran parlare, questo pullulare di testimonianze, di critiche, di pubblicazioni postume, di libri editi a pezzi e poi in unico volume, di maledizioni elargite alla malasorte e di approfondimenti dell’opera del cileno (assai vasta, a dire il vero) fonda quella tendenza giornalisticamente definita bolañomania che oggi, a dieci anni dalla morte del suo protagonista contumace, si rinnova con grande fulgore. Barcellona, per esempio, capoluogo della regione adottiva dello scrittore nonché suo immenso catafalco, gli dedica anche una grande mostra a pochi passi dalla casa in cui lo stesso Bolaño, anni prima, aveva vissuto (cfr. Arnoldi, 2013).

Da noi, più timidamente, gli si dedicano numeri di riviste, si pubblicano sue vecchie interviste, si propongono nuove traduzioni di suoi libri. È il caso di Una novelita lumpen, già tradotto da Angelo Morino per Sellerio come Un romanzetto canaglia (Bolaño, 2005) e adesso riproposto in una nuova traduzione da Ilide Carmignani, per Adelphi, con il più adeguato e fedele titolo di Un romanzetto lumpen (da Lumpenproletariat, sottoproletariato, la classe sociale dei protagonisti del romanzo). Si tratta di poco più di cento pagine tessute a trama larga che, a prima vista, stridono con la produzione più rinomata dello scrittore (non solo per l’agile dimensione, ovviamente). Il lettore bolañomane, infatti, quello innamorato del mondo vertiginoso di 2666 (2010), de I dispiaceri del vero poliziotto (2011, cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 37) e de I detective selvaggi (2009), nonché quello affascinato da personaggi iperbolici come per esempio il Carlos Wieder di Stella distante (2013), è bene dirlo subito, vi troverà ben poco di ciò che si aspetterebbe normalmente da Bolaño. Sì, perché Un romanzetto lumpen è un libro che con tutta probabilità, se non portasse in copertina il nome del suo autore, avrebbe di certo fatto meno fortuna. Brevemente, questa è la trama (non anticipiamo nulla, tutto quello che si dice è scritto anche nell’aletta di copertina del libro): Bianca e suo fratello, giovani romani, orfani sfortunati, vivono soltanto grazie allo stipendio da parrucchiera di lei; due amici di lui cominciano a frequentare prima la loro casa e poi le umide intimità ospitali di Bianca, che lascia fare indolente; il fratello di Bianca e gli amici decidono di derubare una vecchia gloria del cinema (un pettoruto Maciste, per la precisione): Bianca si guadagnerà la sua fiducia in qualità di puttana, tramite le sue prestazioni sessuali; Bianca fa l’amore con il vecchio Maciste a più riprese, per guadagnare la sua fiducia, e alla fine, più o meno innamorata, decide di mandare a monte il piano dei suoi tre complici; dopo questa palingenesi morale la ragazza decide di cacciare per sempre i due amici del fratello di casa, e di tornare a condurre una vita normale.

Leggere Un romanzetto lumpen soltanto alla luce della trama, quanto mai lineare, scarna ed addirittura elementare, restituirebbe forse quel classico magone esperito da chi viene frodato. Leggerlo soltanto cercando di riconoscervi il profilo dei personaggi, quanto mai inconsistenti, spesso prossimi addirittura ad una sorta di irragionevolezza da soap opera o da cinematografia di serie b (come quella dei film di Maciste, d’altronde), potrebbe forse causare irritazione. Si direbbe: Ma come, Bolaño, quel Bolaño? Scrive cosette così leggere, così attigue ai facili umori e al gusto del pubblico televisivo? Perché la trama di Un romanzetto lumpen è così volatile? Perché i suoi personaggi sono così passeggeri? Perché, in sostanza, Bolaño ha scritto questo libro?

La risposta fortunatamente c’è, e sta prima di tutto nell’epigrafe che riporta certe inequivocabili parole di Antonin Artaud; parole che serviranno allo spaesato lettore bolañomane da vero e proprio monito: “Tutta la scrittura è porcheria. Le persone che escono dal vago per cercar di precisare una qualsiasi cosa di quel che succede nel loro pensiero, sono porci. Tutta la razza dei letterati è porca, specialmente di questi tempi”.

Sì, perché Un romanzetto lumpen fa parte, inizialmente, di una serie di romanzi che l’editore Mondadori commissionò, all’inizio del Duemila, ad alcuni scrittori latinoamericani di alto profilo (oltre a Bolaño, José Manuel Prieto, Santiago Gamboa, Rodrigo Rey Rosa ed Héctor Abad Faciolince) con lo scopo di offrire al mercato una letteratura di scoperta e di confronto, di ibridazione e di meticciato, di contaminazione e di sguardi altri che osservano cose altre, una letteratura che, al sorgere del terzo millennio, avrebbe dovuto raccontare del mondo globalizzato ponendosi alla ricerca di chissà cosa (presumibilmente esotismi di maniera). Il progetto era ben sintetizzato da questo manifesto che campeggiava in quarta di copertina sulle prime edizioni dei libri della collana: “En el Año 0 del nuevo milenio una serie de escritores de habla hispana han viajado a conocer cómo son algunas de las ciudades mas importantes del mundo: el Moscú actual, fuertemente corrupto, el México D.F., magnético y disparatado, un Pekín de belleza oriental y miseria oriental, Nueva York, la ciudad de las ciudades. El cairo, Madras, Roma… Realidad y ficción se conjugan en novelas cortas y largas, crónicas caleidoscópicas o diarios de viaje. Los autores de Año 0 han abandonado el territorio de sus mentes para trasladarse a escenarios palpables. Y están de vuelta para contarlo”. Si trattava quindi di pubblicare storie più o meno lunghe che avessero un’ambientazione già definita, in una specie di narrativa geografica che, probabilmente, come detto, avrebbe dovuto rendere la letteratura un modo per confezionare cartoline ben fotografate e lavorate. Al cileno Roberto Bolaño toccò in sorte la città di Roma; sicché, riepilogando, Un romanzetto lumpen vede tre fattori atti a definirne il basilare concepimento: uno scenario necessariamente italiano, un’esigenza commercial-editoriale, una grande firma della letteratura ispanoamericana contemporanea. Fortuna ha voluto (s’intenda per noi) che a Bolaño toccasse Roma. Lo scrittore cileno (che pure conosceva la città), nel suo libro Año 0, strutturato su una trama come detto assai debole, di Roma non parla affatto, se non ricordandone svogliatamente soltanto qualche distratto riferimento toponomastico (isola Tiberina, ponte Garibaldi, stazione Termini, pizza Sonnino…) e traendone, con intento di certo forzoso e forse parodico, almeno a quanto si può intuire svestendo i panni inneggianti del bolañomane (o forse vestendoli fino in fondo), un’aria fiaccamente pasoliniana (da cui forse il lumpen del titolo) fatta in sostanza di stanche immagini che fanno il verso alla suburra (che è degrado, prostituzione, violenza più o meno domestica, silenzio, polvere e poesia) tanto amata dal nostro poeta.

Ecco che l’epigrafe tratta da Artaud, vista sotto questa nuova luce, restituisce uno scenario ben diverso da quello che si avrebbe se sulla copertina di Un romanzetto lumpen non ci fosse la firma di Bolaño. Sì, perché l’inconsistenza dei personaggi (cinque in tutto) che ne popolano le pagine, la leggerezza della trama e la prosa scorrevole e lineare, sembrano voler dire al lettore sostanzialmente una cosa. Lo scrittore dell’Año 0, il narratore del Duemila, è spesso una puttana; egli tradisce l’amore per la letteratura, fa mercimonio della sua penna (che per lui è senza dubbio più importante della carne) per assecondare strategie editoriali che affondano a piene mani nel mondo palustre del marketing. Ma questa cosa è forse inevitabile, talvolta. Ma che almeno lo si dica con chiarezza.

 


 

LETTURE

 Arnoldi Federica, Barcellona: Arxiu Roberto Bolaño, in “Doppiozero”, 2013 (http://www.doppiozero.com/materiali/cartoline-da/barcellona-arxiu-roberto-bolano).
Bolaño Roberto, Un romanzetto canaglia, Sellerio, Palermo, 2005.
Bolaño Roberto, I detective selvaggi, Sellerio, Palermo, 2009.
Bolaño Roberto, 2666, Adelphi, Milano, 2010.
Bolaño Roberto, I dispiaceri del vero poliziotto, Adelphi, Milano, 2011.
Bolaño Roberto, Stella distante, Adelphi, Milano, 2013.