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ASCOLTI / MOLLY DRAKE


di Molly Drake, Squirrel Thing Records, 2013


 

Lessico familiare

di Livio Santoro

Probabilmente ci sono delle localizzazioni in cui certi sentimenti ed emozioni restano nell’aria come una leggera bruma senza sostanza, appiccicandosi alle pareti e lì rimanendo per sempre. Come quei castelli vetusti della letteratura gotica i cui abitanti sono sempre stati e sempre saranno crudeli, al di là del tempo, e come quelle cittadine o quelle dimore costruite su vendicativi cimiteri indiani nel cinema di bassa lega (con la doverosa esclusione di Shining, d’accordo) in cui succede e sempre succederà qualcosa di brutto. Probabilmente ci sono degli ambienti in cui la malinconia aleggia volatile e si fa respirare, entrando in tal modo nell’anima della gente che questi ambienti frequenta. Probabilmente ci sono dei posti nati per uno specifico obiettivo che non ci è manifesto, usciti fuori dal disegno del caso o di chissà quale divinità distratta perché da lì possano emergere particolari moti dello spirito, magari trasformandosi in parole ed in musica. Sono luoghi senza dubbio fantastici e soprannaturali, come quelle crepe nelle cose del mondo, quei “tenui ed eterni interstizi di assurdità” nel reale, per dirla con Jorge Luis Borges (2002), che ci fanno immaginare e supporre l’esistenza di un disegno superiore alle cose nostre, un disegno che non riusciremo mai ad afferrare, nonostante i nostri sforzi. E proprio in quanto tali, ossia proprio in quanto fantastici, i luoghi di cui stiamo parlando possono occupare più coordinate nello stesso momento, o possono spostarsi nello spazio. Possono anche non essere luoghi fisici e materiali, bensì morali, come una famiglia per esempio. Esattamente così, il focolare di casa Drake è uno di questi luoghi, materiale ed immateriale allo stesso tempo; itinerante, forse. Lì, per discendenza matrilineare, si è riprodotta quella malinconia che stava chissà dove nell’aria, quella che non sappiamo da quale andito del mondo sia venuta fuori. Lì si è condensata e sedimentata una sottile brina che ha coperto, nemmeno troppo nascostamente, il paesaggio tutt’attorno.

Chiunque (o almeno buona parte di noi) conosce le gesta di Nick Drake. Chiunque sa del suo folk umbratile e delicato e dei suoi tre dischi compiuti incisi tra il 1969 ed il 1972, della sua inadeguatezza alle cose della fama e della musica da stadio, della sua vita riservata e alla lontana da tivù e giornali e della sua morte in solitaria all’amaro sapore del Trypizol (suicidio consapevole o meno poco c’importa). Pochi, invece, sanno della madre di Nick. Molly Drake. Musicista come Nick, prima di Nick, e in grado di sentire tutte quelle increspature di lieve tristezza che stanno nell’aria e di farsene carico magari trasmettendole al figlio nei giorni di autunno, con la pioggia di fuori, il tepore di dentro ed il pianoforte nel salone a mediare tra questi due ambienti (il dentro e il fuori) che bene o male fanno il mondo.

Proprio suonando quel pianoforte Molly ha inciso, con l’aiuto tecnico del marito, le diciannove tracce che oggi rivivono nell’album che porta il suo stesso nome, Molly Drake, appunto. È la Squirrel Thing Records a donarci questo piccolo ma sensazionale prodigio, la stessa etichetta che qualche anno fa ha dato alle stampe How Sad, How Lovely di Connie Converse (2009), domestica cantautrice statunitense sparita dalla sua casa e dal nostro mondo un giorno nel 1974 e da allora mai più riapparsa, lei che cercava un’altra vita e che forse ha attraversato (ci piace pensarla incolume) quelle increspature della realtà che ci appartiene con cui sopra abbiamo aperto. Come nel caso di Connie Converse, anche le diciannove tracce incise da Molly Drake risalgono agli anni Cinquanta. Come in quel caso, anche le diciannove tracce di Molly Drake lasciano all’ascoltatore un lieve sorriso di una tenerezza un po’ amara, al modo di colui il quale si senta a casa con le luci soffuse, il garbo e la delicatezza di un divano morbido, ma anche un senso leggero che ingrigisce leggermente l’orizzonte.

Per intendere ciò che si va dicendo si prenda per esempio una delle registrazioni di mamma Drake, I remember, dolce storia d’amore vista dagli occhi di lei, che tutto ricorda come in uno splendido quadro mentre lui, invece, non si fa tornare alla mente null’altro che polvere e mosche. Null’altro. Per dire magari che il mondo, anche nel relazionarsi intimo e dolce della coppia, può essere in fin dei conti soltanto solitudine.

 

We strolled the Spanish marketplace at 90 in the shade

With all the fruit and vegetables so temptingly arrayed

And we can share a memory as every lover must

And I remember oranges

I remember oranges

I remember oranges

And you remember dust

 

The autumn leaves are tumbling down and winter’s almost here

But through the spring and summertime we laughed away the year

And now we can be grateful for the gift of memory

For I remember having fun

Two happy hearts that beat as one

When I had thought that we were “we”

But we were “you and me”.

 

Storia di un amore banalmente non corrisposto o non approfondito a dovere dall’anima maschile troppo attenta soltanto alle cose di poco valore? Troppo semplice. Troppo conforme all’immagine della donna delicata degli anni Cinquanta che si avrebbe oggi in una trasmissione da quattro soldi in tivù, della moglie devota con le aspettative per la propria vita al ribasso (che tanto ci saranno i figli a fare ciò che lei non ha potuto, che tanto saranno i figli a fare questo e quello, che tanto saranno i figli a sperimentare la gioia, eccetera, eccetera, eccetera). Non ci piace leggerla in questo modo. Ci piace pensare che l’amore alla fine non c’entra niente in questa storia. Che è solo un dettaglio di quella cosa più grande che è la vita nel suo relazionarsi agli altri. È la storia di chi vive con troppo trasporto il proprio darsi agli altri, di chi s’immalinconisce vedendo la risposta di questi ultimi, pur sempre estranei. La polvere, nel caso cantato da mamma Drake. Il silenzio e la scarsa ricezione nel caso del figlio Nick, come lui stesso cantava in Fruit Tree (l’album è Five Leaves Left, 1969).

 

Fame is but a fruit tree

so very unsound.

It can never flourish

till its stalk is in the ground.

So men of fame

can never find a way

till time has flown

far from their dying day.

Forgotten while you’re here

remembered for a while

A much updated ruin

from a much outdated style.

 

Sembra così che mamma e figlio, in questo gioco non troppo divertente, abbiano dialogato proprio attraverso le tonalità umbratili di una musica fatta per rammentare all’essere umano il suo fondamento di tristezza e solitudine. Questa musica, per mamma e figlio, era probabilmente lessico familiare, parlata riconoscibile. Si prenda l’apertura di Little weaver bird, seconda traccia dell’album di Molly Drake:

 

Little weaver bird

Sitting sadly in the tree

Take my good advice

And forget your misery

Your tears are all in vain

And regret can be absurd

 

Un piccolo uccello intento a tessere la sua tana pendula come fosse il frutto di un albero indifferente. Un albero che probabilmente è la vita. Forse quello stesso albero che per il piccolo uccello tessitore, fatto uomo oltre le parole di mamma Drake, fattosi suo figlio, non avrà mai frutti se non nell’aldilà.

 


 

LETTURE

  Borges Jorge Luis, Discussione, Adelphi, Milano, 2002.

 

ASCOLTI

  Connie Converse, How Sad, How Lovely, Squirrel Thing Records, 2009.
Drake Nick, Five Leaves Left, Island Records, 2004.
Drake Nick, Bryter Layter, Island Records, 2004.
Drake Nick, Pink Moon, Island Records, 2004.