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LETTURE / LE SORGENTI DEL MALE


di Zygmunt Bauman / Erickson, Trento, 2013 / pp. 112, € 10,00


 

Il lato oscuro esiste

di Adolfo Fattori

A leggere il breve saggio di Zygmunt Bauman sulle fonti della malvagità umana ci si rende conto del perché tanta letteratura e tanto cinema se ne occupino, scaricando in genere su singoli individui il fardello della crudeltà. Perché il Male è ineffabile, irriducibile, incommensurabile. A prima vista incomprensibile.

Specialmente se si riflette sul Novecento e si confrontano le grandi narrazioni moderniste sul progresso della civiltà, del benessere e della ragione con i massacri, le crudeltà e i genocidi che hanno segnato l’intero secolo. Una contraddizione evidente, stridente, definitiva. Che ammutolisce e annichilisce. E marca la percezione di una nostra totale estraneità, un’alienità che rivendichiamo con forza da quegli eventi e da quegli esseri che li hanno provocati, noi, cittadini dei dopoguerra, cresciuti e nutriti dall’idea della pace, della democrazia, della tolleranza, dei diritti umani. Pure, forse, un’eco sorda, appena avvertibile, sussurra alle nostre orecchie: E se mi trovassi anch’io in quella situazione? Se avessi potere di vita e di morte su qualcuno?
E poi, E se ne andasse della mia vita? In fondo non ci poniamo tanti problemi se schiacciamo una zanzara o avveleniamo una blatta. Forse, per gli aguzzini e i boia di massa del XX secolo è stata la stessa cosa…

Bauman fa acutamente notare che dare la colpa delle macellerie collettive dei secoli passati – e del ventesimo in particolare – alla crudeltà di un pugno di psicopatici è rassicurante ma troppo semplicistico, e che la risposta probabilmente, se c’è – e se ce n’è una sola – è altrove.

E accenna a come, per esorcizzare la paura di un abisso che temiamo che in ogni momento della nostra vita possa aprirsi davanti a noi, sedurci e inghiottirci, sia così fertile e seguita la narrativa sull’argomento. Zygmunt Bauman cita cinema e letteratura, noi aggiungiamo le serie TV, i fumetti, i videogiochi, con tutti gli intrecci e i cross-over fra gli uni e gli altri.

Facile liquidare la questione richiamandosi alla morbosità degli spettatori, come è semplice, per spiegare le crudeltà e le tragedie novecentesche, aggrapparsi al sadismo di qualche psicopatico isolato, di qualche serial killer che per contingenza storica ha trovato il modo per soddisfare “legalmente” le sue perversioni.

Il serial killer: l’alieno perfetto. Un’ombra nella notte, il predatore puro, che si muove in silenzio. Appare, colpisce, scompare. E semina terrore, sofferenze e dolore. Privo di sentimenti, estraneo all’empatia. Disumano, Inumano. Irriducibile alle categorie umane. Su cui fioriscono le serie TV, come Criminal Minds (Davis, 2007-2011), e sono stati scritti o girati veri capolavori, come il romanzo di Thomas Harris del 1988, Il silenzio degli innocenti, (Harris, 1991) e il film omonimo di Jonathan Demme del 1991. E Zombie (1996), un piccolo, quasi sconosciuto (e ormai introvabile in italiano) capolavoro di Joyce Carol Oates: una sorta di diario apocrifo scritto cercando di infilarsi direttamente nella mente di uno psicopatico. O ancora It di Stephen King. Tutte narrazioni del lato oscuro.

Noi siamo fatti di narrazioni. La nostra identità è fatta del racconto che continuamente facciamo di noi stessi. Così come narriamo di noi, narriamo anche del mondo che ci sta intorno. Anche dei suoi angoli più bui, oscuri, malsani, fetidi, pericolosi, inquietanti. E ci specchiamo nelle narrazioni della letteratura, del cinema… nella fiction, insomma. Ed è comodo, rassicurante, gratificante trovare nella fiction la malvagità, la crudeltà: il Male. Serve ad allontanarlo da noi, assegnandolo a singoli individui, estranei alla specie umana, in un movimento paradossale che ne opacizza le somiglianze con ognuno di noi, i tratti in comune, le adiacenze, sovraesponendone piuttosto le differenze da noi: I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno, intitolava il suo studio lo psichiatra Robert Simon nel 1997 (sottotitolo Psicopatici stupratori serial killer), sottolineando come questi personaggi estremi mettano in pratica desideri e pulsioni nascoste nella natura di ognuno di noi, facendone lo scheletro della propria vita, della propria identità, mentre noi “normali” ci limitiamo a “sognare” di praticare il male, sfogando così le nostre (naturali) pulsioni meno confessabili – mentre cerchiamo di esorcizzarlo, anzi di dargli senso confinandolo nelle regioni della psicosi, dell’emarginazione, della barbarie in cui ancora si vive in tante parti del mondo, e in cui anche l’Occidente ha vissuto in passato. Basti pensare a quella grande sperimentazione del massacro di massa nel nome di Dio che fu la Guerra dei trent’anni, alle soglie – e a battesimo – della Modernità.

Ma Bauman sa che questo meccanismo di dislocazione (su personaggi sì reali, ma di cui ci facciamo un’immagine fantastica) e rimozione (dei nostri stessi impulsi) non può spiegare i fenomeni che pone al centro del suo lavoro. Perché qui non si tratta delle gesta di predatori che agiscono nel segreto e nell’ombra, attenti a non lasciare e a cancellare le proprie tracce, a stendere e mantenere sulle proprie azioni un senso di mistero e di terrore – anzi, meglio ancora se le loro azioni rimangono del tutto ignote. Il sociologo scrive della pianificazione su larga scala dell’annichilazione di massa, del massacro incondizionato, indiscriminato di intere popolazioni – seriale sì, ma in un senso diverso da quello del singolo killer: qui trattiamo di una dimensione industriale, sistematica, “fordista”.

E se Bauman si concentra in particolare sulla Seconda guerra mondiale – senza risparmiare nessuno, coinvolgendo i nazisti come gli “Alleati” – possiamo aggiungerci il Vietnam, l’Algeria – come dimenticare La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo del 1966 –, l’America Latina, e ancor più prossimi a noi, come luoghi e tempi, i Balcani, (www.quadernidaltritempi.eu/numero17) le varie guerre che insanguinano ancora l’Africa (cfr. Fattori, 2010; Meloni, 2009), oltre a tutti quei conflitti che, svolgendosi nelle estreme periferie del mondo, non interessano nessuno – tranne, naturalmente, mercanti d’armi, agenzie di contractor, imprese specializzate nella ricostruzione: strade, reti di comunicazione, edilizia, servizi di fornitura.

Le testimonianze e la documentazione che da lì provengono mostrano in tutti i casi due aspetti: la pianificazione e la reiteratività delle pratiche di mortificazione, assoggettamento e distruzione di massa; la sedazione – l’annullamento – dei sentimenti e dell’emotività di tutti, carnefici e vittime, torturatori e torturati, persecutori e perseguitati.

Dalle parole dei sopravvissuti alla barbarie filtra la riduzione dei bisogni alla sola, pura sopravvivenza – dormire, mangiare, nascondersi, sopravvivere – e su tutto lo stupore per la metamorfosi dei propri simili, magari vicini di casa fino al giorno prima, in automi insensibili, macchine di distruzione, ingranaggi decerebrati di una tecnologia trascendente. Dalle (sporadiche, spesso renitenti, ma non sempre) testimonianze dei carnefici emerge una sorta di annullamento del senso, un’anestesia all’empatia, la percezione di un’operatività meccanica, deresponsabilizzata, da catena di montaggio… Torna in mente la potente, straordinaria descrizione che Alfred Döblin costruisce del Mattatoio di Berlino in Berlin Alexanderplatz (2008), pubblicato nel 1929, una dettagliata descrizione della meccanica della macellazione, a pochi anni dal dispiegarsi dell’Olocausto in tutta la sua disumana enormità.

Ecco, è esattamente la dimensione di fabbrica del Macello di Berlino che ci dà una traccia. Bauman pone l’accento su un paio di aspetti che possono risultare cruciali nell’analisi dei massacri contemporanei, nuovi rispetto al passato, riferendosi alle due bombe atomiche sganciate sul Giappone, e ancor di più al bombardamento a tappeto di Halberstadt, una cittadina tedesca di nessuna importanza strategica.

Soffermiamoci su quest’ultimo episodio: siamo alla fine della guerra, ormai. La Germania nazista praticamente non esiste più: la guerra è vinta. Perché questo bombardamento? Perché – Bauman cita un’intervista a un alto ufficiale americano dell’epoca – “una volta costruite le bombe, il semplice fatto di lasciare inattivo l’aereo con il suo carico prezioso negli aeroporti dell’Inghilterra orientale sarebbe andato contro ogni sano principio economico” (corsivo nostro). La logica del bombardamento è uno degli esiti – micidiali, in questo caso – dei principi della razionalità capitalistica: la fabbrica di bombe aveva realizzato un prodotto costoso e perfetto. Non si poteva sprecare (“sganciandolo sui monti o in aperta campagna”), e d’altra parte – aggiungiamo – usarlo su una cittadina indifesa garantiva sicuramente un miglior rapporto costi/benefici, per esprimerci in termini più attuali.

La logica del capitale, e della sua riproduzione, quindi, alla base di una delle declinazioni della distruzione di massa: quella più asettica, distante, praticata da lontano, dal cielo e da una “stanza dei bottoni” levigata e silenziosa. La stessa logica, di fatto, applicabile a chi, da un ufficio tranquillo e polveroso decideva per iscritto, con circolari e direttive, della sorte di migliaia di persone, grazie a una catena di comando che dagli uffici del Reich arrivava giù giù fino agli “uomini di mano” che si occupavano di docce e forni nei campi di sterminio, manovalanza “operaia” dell’annichilazione. E costoro, quindi, come considerarli? I carnefici diretti? Che uccidevano in serie (Bauman cita naturalmente uno dei casi letterari degli ultimi anni, Le benevole, di Jonathan Littell, 2007) con un colpo alla nuca, a decine, a centinaia, i poveracci che gli venivano consegnati?

Proviamo a ragionare per implicazione: bombardamenti ormai inutili all’andamento della guerra, scatenati ugualmente in funzione della quadratura dei bilanci d’impresa, nella logica della razionalità capitalistica. La stessa alla base della catena di montaggio, della produzione in serie, dell’alienazione non solo operaia ma di tutti coloro che lavorano nelle società industriali della Modernità realizzata, alienazione che separa il tempo del lavoro dal tempo degli affetti e del desiderio, e ci separa dal lavoro stesso, anche mentre lo svolgiamo. Che annulla la volontà e l’identità. Un meccanismo che anestetizza, seda, annulla il senso di quel che facciamo e la nostra sensazione, che ci fa agire in automatico, senza partecipazione e consapevolezza.

L’unico modo, forse, di sopravvivere e cercare di tenersi lontani dalla follia mentre si mette al lavoro la Morte. A parte gli psicopatici e i sadici, umani come noi, insomma, precipitati in situazioni estreme, disumane, e ridotti essi stessi a una condizione disumana.

Il che, di nuovo, fa sorgere un dubbio e ci conduce alla domanda– ed è questo quello che ci spaventa di più – che sussurra alle orecchie della nostra coscienza e cerchiamo di eludere, di rimuovere, di soffocare, per non farcene soverchiare: Che farei, Io, se mi trovassi nelle stesse condizioni? Abbiamo proprio voglia di sapere la risposta?

Intanto possiamo consolarci pensando che la natura dei fenomeni sociali è versatile e contraddittoria: le guerre, con i compiti che impongono agli uomini che le combattono, sono sempre state un potente motore di sperimentazione e ricerca – e le scoperte e invenzioni nate dalla necessità di sovrastare il nemico, spesso in tempo di pace si sono trasformate in fonti di benessere e progresso.

O che le pratiche di tortura tese a produrre dolore senza uccidere – si pensi all’antica Cina – grazie alla conoscenza del corpo che producevano, hanno condotto anche a immensi progressi nelle pratiche di cura e nelle medicine tradizionali…

Viene in mente il famoso dipinto di Rembrandt Lezione di anatomia del dottor Tulp, e l’uso che ne fa Thomas Harris in Il delitto della terza luna: l’investigatore incaricato di risolvere il caso, tre anni prima era riuscito a catturare Hannibal Lecter (che comparirà anche in Il silenzio degli innocenti) perché, andandolo a consultare come esperto, aveva visto nel suo studio proprio una riproduzione del celebre quadro. A quel punto aveva avuto l’intuizione giusta: proprio Lecter era il serial killer che cercava. Crudeltà, scienza, follia, arte, mescolate insieme in un unico groviglio inestricabile, metafora feroce, impietosa della condizione umana.

Mentre su tutto lo scenario umano e sociale, sui territori che abitiamo, sulle parole che pronunciamo e sulle azioni che compiamo, incombe opprimente, pesante, soffocante, il discorso dei morti, il loro ricordo, il loro monito.

 


 

LETTURE

  Döblin Alfred, Berlin Alexanderplatz, Rizzoli, Milano, 2008.
Fattori Adolfo, Lo “statuto di verità” dell’immagine all’epoca del digitale, Krill 01, Lupo editore, Copertino, gennaio 2010.
Harris Thomas, Il delitto della terza luna, Mondadori, Milano, 1981.
Harris Thomas, Il silenzio degli innocenti, Mondadori, Milano, 1991.
King Stephen, It, Sperling & Kupfer, Milano, 2010.
Littell Jonathan, Le benevole, Einaudi, Torino, 2007.
Meloni Marco, Il popolo di argilla, 2009, http://www.agoravox.it/?page=article&id_article=10538.
Oates Joyce Carol, Zombie, Marco Tropea, Milano, 1996.
Simon Robert, I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Psicopatici, stupratori, serial killer, Raffaello Cortina, Milano, 1997.

 

VISIONI

Davis Jeff, Criminal Minds, Buena Vista Home Entertainment, 2007- 2011.
Demme Jonathan, Il silenzio degli innocenti, 20th Century Fox Home Entertainment, 2008.
Pontecorvo Gillo, La battaglia di Algeri, Cecchi Gori Home Video, 2008.
Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632.