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ASCOLTI / PUSH THE SKY AWAY


di Nick Cave & The Bad Seeds / Bad Seed Ltd, 2013


 

Il buio che cerca la pace del cielo

di Livio Santoro

“I don’t believe in an interventionist God […]. And I believe in Love”. La grande contraddizione che vive nei versi di apertura di una delle canzoni più osannate di Nick Cave, Into My Arms (The Boatman’s Call, 1998), è la stessa grande contraddizione che sembra connotare l’intera carriera dell’umbratile cantastorie di Melbourne. Sì perché come tutti i grandi cantautori che si rispettino, anche Nick Cave passa attraverso un incedere biografico altalenante, fatto di terribili voragini nei crepacci della disperazione in giovinezza (in cui se non c’è tossicodipendenza c’è alcolismo, conseguente elargizione di stati iracondi, esasperazioni esistenziali prossime all’autonegazione oppure, per i più fortunati, sessuomania) e, in età più matura, di bramate ascese verso le sommità della redenzione in cui il luminoso empireo della salvazione sembra nonostante tutto potersi riflettere pure su questo brutto mondo che sta quaggiù, in cui i corpi marciscono nella torbida fanghiglia di sostanze cattive, di sentimenti perversi, di abitudini malsane e di umanità corrotte. Per quanto tale percorso possa sembrare fin troppo banale per un artista che concretamente ha mosso i primi passi tra la fine dei Settanta e l’albeggiare dei civilmente disastrosi Ottanta (l’anima dei Megadeth Dave Mustanie, per ricordarne soltanto uno, è l’esempio più raccapricciante di un siffatto carattere musicale standardizzato), è proprio questo il sentiero che ha calcato anche Nick Cave: più o meno originale non importa; l’originalità, in certi casi, è preoccupazione stolida, e meglio sarebbe se lasciasse spazio alla pienezza della tipicità, delle cose che sono tali perché così devono essere. D’altronde tutti quanti noi, volenti o nolenti, non siamo altro che personaggi più o meno ben riusciti di un grande romanzo. Così anche Cave, in fin dei conti, è un personaggio tipico dei nostri tempi, soprattutto della nostra musica: un contemporaneo Ossian cupo e triste che ha accompagnato il volgere crepuscolare del secolo XX per affacciarsi con vago rinnovamento sulle prime luci del XXI, ritrovando una sorta di morbida opacità nella scarna albedine della maturità, come a dire che crescendo, e avendo sempre più consapevolezza del mondo, le nubi si diradano e tutto diventa più chiaro, vagamente più puro; probabilmente conservatore, direbbero i meschini.

Ma si vada, seppur brevemente, con ordine. Cave, come detto, nasce a Melbourne e proprio lì, nel mondo più nuovo che si possa immaginare quaggiù, un mondo tuttavia non troppo dissimile da quello vecchio, compone i suoi primi versi e le sue prime musiche affascinato o forse trascinato dall’aria di perdizione che si manifesta nelle più giovani droghe del disagio da sobborgo, negli iniziali grossi cedimenti dell’ideale cortese, fattosi nel frattempo fin troppo marcescibile, delle teorie del vivere gemmate dall’espandersi del capitalismo urbano. Ci troviamo nel passaggio che lega la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta quando Cave lavora in band ancora leggermente acerbe, dal gusto adolescenziale (che non è connotazione negativa, tutt’altro), come prima lo sono i The Next Door Boy e successivamente i Birthday Party. Proprio quest’ultima esperienza, convergendo nell’attuale ensemble Nick Cave & The Bad Seeds (nome recuperato dal titolo di un EP del 1983 degli stessi Birthday Party), segnerà dapprincipio l’incedere artistico dell’oscura voce di Melbourne. Con i Bad Seeds Cave inaugura definitivamente un mood musicale tenebroso, inquietante, che in prima battuta strizza l’occhio alle esperienze del punk del vecchio continente e si lascia trascinare anche dalle sulfuree e disperate intonazioni dei nascenti gotich e dark rock, dando avvio ad una wave che annuncia di voler essere, se possibile, più nera del nero. C’è tutta l’anima cupa della fine del secolo nei primi lavori della band, tutto quel tragico sconforto che nasce dall’implosione del punto in cui il gotico e il punk, di cui si è detto, incontrano le ultime propaggini di una psichedelica oramai claudicante, le più tetre, quelle in cui i colori fluorescenti delle allucinazioni pacifiche della fine dei Sessanta diventano visioni spesso affacciatesi sul crepaccio della morte. In questo miscuglio di umori nient’affatto nivei, il canto di Cave, che di per sé sembra preso dalla parte più profonda della terra (nomen omen?), cementa uno strazio musicale irrequieto ed indisciplinato con un incedere acre, talvolta dissonante, in cui pare a tutti gli effetti che la pace dell’armonico sia miraggio irraggiungibile, probabilmente proprio perché inutile, goffo, inadeguato a raccontare quel mondo suburbano che a poco a poco, nel suo precipitare a valle, trascina con sé anche il bello stile dell’educazione musicale. A questo primo periodo, che grossomodo corrisponde alla prima metà degli anni Ottanta, risalgono album che bene o male in musica hanno fatto storia, come l’esordio devastante che porta il titolo di From Her To Eternity (1984), oppure i successivi The Firstborn Is Dead (1985) e Your Funeral, My Trial (1986). Ed allora si ascolti (si legga) come si presenta la band, nella cupa title track del disco del 1984:

 

Ah wanna tell ya ‘bout a girl

You know, she lives in room 29

Why... Why... that’s the one right up top a mine

Ah start to cry, Ah start to cry

O Ah hear her walkin’

Walkin’barefoot cross the floor-boards

All thru this lonesome night

Ah hear her crying too.

Hot-tears come splashin on down

Leaking thru the cracks,

Down upon my face, Ah catch’em in my mouth!

Ah catch’em in my mouth!

Ah catch’em in my mouth!

Walk’n’cry Walk’n’cry-y!!!

From her to eternity!

From her to eternity!

From her to eternity!

 

Ma è pur vero che in musica, spesso, si tende a cambiare, ed ecco che Cave e compagni si affacciano su un altro immaginario, per la verità già anticipato in Kicking Against The Pricks (1986), in cui il marcio viene rintracciato in musica e in parole all’interno di un nuovo scenario palustre, quello del Sud degli States, dove i numi tutelari della band sembrano essere gli strazi più originali dei blues lacera visceri e le atmosfere faulkneriane che raccontano della materia organica putrescente al sole che batte dalle parti del Mississippi (con vaghi ricordi dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master, 2001). Accompagnati a tale muovo mood ci sono sempre più spesso vaghi richiami al sacro, come per anticipare quell’ascesa di cui sopra si diceva e che tende, con risultati fortunatamente incerti, verso la salvazione. L’atmosfera del whiskey straccia budella e della sconfinata provincia confederata sembra affascinare Cave così tanto al punto di intromettersi anche in ambiti culturali che non sono soltanto la musica. Il cantore australiano, infatti, recuperando il modello di William Faulkner, per esempio quello grottesco e terribile di Mentre morivo (2007), nel 1989 scriverà anche E l’asina vide l’angelo (2002), un lungo romanzo di cui forse gli amanti della letteratura avrebbero tranquillamente fatto a meno (come d’altronde, non ce ne vogliano gli irriducibili “caviani” a tutti i costi, avrebbero fatto a meno dell’ultimo suo lavoro letterario, La morte di Bunny Murno, edito in Italia nel 2009 da Feltrinelli, storiaccia stancamente bukowskiana di un rappresentante di prodotti di bellezza inveterato malato di sesso nel peggiore dei modi).

Questo amore (culturale) per il blues ed il sud degli Usa resisterà nelle narrazioni musicali di Nick Cave & The Bad Seeds toccando il suo apice grossomodo nell’album che forse più di altri ha messo d’accordo la platea degli ascoltatori della musica sulla produzione di Nick Cave, Murder Ballads (1996), una sequenza di ballate, appunto, che raccontano di omicidi, appunto, più o meno raccapriccianti in cui è la morte a farla da padrone (album che racchiude un paio di strafamosi duetti dalla fortissima valenza emozionale e artistica come Hanry Lee, con un’immensa PJ Harvey, e come Where The Wild Roses Grows, con una sorprendente Kylie Minogue, artista che poi sarà anche personaggio inconsapevole del romanzo La morte di Buny Murno di cui s’è già parlato). Tra tutte queste tristi ballate, più o meno truculente, è forse la meno famosa The Kindness Of Strangers a racchiudere in maniera ideale tutto il senso dell’album:

 

They found Mary Bellows cuffed to the bed

With a rag in her mouth and a bullet in her head

O poor Mary Bellows

She’d grown up hungry, she’d grown up poor

She left her home in Arkansas

O poor Mary Bellows

She wanted to see the deep blue sea

She travelled across Tennessee

O poor Mary Bellows

She met a man along the way

He introduced himself as Richard Slade

O poor Mary Bellows.

 

Con l’aprirsi del nuovo secolo, come si diceva in apertura, la maturità sembra voler farsi largo nell’atmosfera tetra di Cave e compagni ricercando con fatica quelle note di salvezza che bene o male chiunque, chi più chi meno, vuole avvicinare quando i capelli cominciano a cadere o ad imbiancarsi. Ecco che nel 2001 la band pubblica No More Shall We Part, album che purtroppo non accoglie il pieno plauso della critica ma che probabilmente può essere considerato, almeno a nostro parere, tra i lavori più riusciti della band. No More Shall We Part nasconde un profondo senso di magro, tra le sue note, quel senso di magro che traccia le sue linee a partire da una malinconia di fondamento e che timidamente si accomoda in un mondo nuovo, una spiaggia sicura su cui approdare e starsene tranquilli, semplicemente, non importa se dall’altra parte del mare ancora è visibile il vecchio mondo che brucia di se stesso. Si ascolti (si legga) per esempio la meravigliosa Sweetheart Come, per intendere ciò che si va dicendo:

 

Come over here, baby

It ain’t that bed

I don’t claim to understand

The troubles that you’ve had

But the dogs you say they fad you too

Lay their muzzles in your lap

And the lions that they lad you too

Lie down and take a nap

The ones you fear are wind and air

And I love you without measure

It seems we can be happy now

Be it better late than never.

 

Il primo decennio degli anni Duemila, tracciato dall’apripista No More Shall We Part, segue poi fasi alterne, e la band pubblica altri tre album non troppo memorabili, di cui uno, Nocturama (2003) davvero di scarso valore (forse l’unico della sua storia).

Fino a quando, e veniamo definitivamente a noi, nel 2013 viene pubblicato Push The Sky Away, disco che restituisce al mondo della musica il triste cantore di Melbourne ed i suoi più fidati compagni (ad eccezione, purtroppo, di Mick Harvey). Nel disco in questione, che di certo non sorprende per eccellenza (più per il passato della band, e per quello che si sa essa ha già fatto), si ritrovano rinnovate ma decisamente diminuite di intensità tutte le questioni aperte nei lavori precedenti e si ritrova quella stessa ansia di salvazione (forse resa un po’ troppo senile) che ha contraddistinto la più recente produzione del gruppo. Ci si ritrovano anche le vecchie atmosfere musicali, quando per esempio in Walter’s Edge si sente l’eco delle Murder Bullads. Tuttavia Push The Sky Away è un disco senza dubbio quieto, che entra di diritto nella produzione degli anni Duemila per come questi erano cominciati. Gli eccessi della prima ora sono oramai dimenticati, pur restando talvolta in filigrana di sottofondo, rendendosi tappeto inquieto come per esempio accade in Higgs Boson Blues. Cave, in questo ultimo lavoro, non alza la voce, non grida, non stona, non innalza lo strazio, e forse proprio per questo rende un tantino inquieti i suoi più nostalgici fan memori soprattutto degli esordi.

In sostanza, nell’ultimo lavoro della band si ritrova lo stesso senso del torbido in cui versa il mondo, un senso che tuttavia, come sembrava in No More Shall We Part, opera che come detto apre proprio gli anni Duemila, dal punto di vista del concetto lascia spazio alla magra salvezza della soggettività innocente. Forse per questo anche la musica stessa si fa più quieta e accorta, forse per questo non si ascolta in prima battuta la voce forte della disperazione. Cave, in questo suo nuovo lavoro, sembra infatti camminare docilmente, come per esempio nella Jubilee Street che dà il titolo alla terza traccia del disco, guardandosi attorno con la consapevolezza che le cose che ci circondano saranno sempre nient’affatto piacevoli. Tuttavia è questo che c’è dato, dunque si vada avanti con lo sguardo gradualmente sempre più distaccato di chi almeno si rende conto dello scenario che gli sta attorno, e che perciò bene o male passa oltre, sebbene non indifferente, alla sofferenza del mondo. Tanto quest’ultima sarà probabilmente sempre un dato costitutivo della nostra contemporaneità (non che nel passato sia stato diverso), quindi non ci resta che trarne la bellezza consolatoria che sta nel verso e nella musica, come nei più genuini blues da cui lo stesso Cave, per gran parte della sua carriera ha preso spunto.

D’altronde i cantastorie tristi non fanno altro che cantare la tristezza (e la tristezza di chi guarda probabilmente nel tempo cambia, matura, si adegua al mondo), magari inneggiando sommessamente a quella salvezza che probabilmente non arriverà mai, oppure volgendo i propri versi a quel dio che non interviene sulle faccende del mondo; un dio, in ogni caso, che per alcuni pur sempre esiste.

 


 

ASCOLTI

  Birthday Party, The Bad Seeds, EP, 4AD, 1983.
Nick Cave & The Bad Seeds, From Her to Eternity, Mute, 1984.
Nick Cave & The Bad Seeds, The Firstborn Is Dead, Mute, 1985.
Nick Cave & The Bad Seeds, Kicking Against the Pricks, Mute, 1986.
Nick Cave & The Bad Seeds, Your Funeral, My Trial, Mute, 1986.
Nick Cave & The Bad Seeds, Murder Ballads, Mute, 1996.
Nick Cave & The Bad Seeds, The Boatman’s call, Mute, 1998.
Nick Cave & The Bad Seeds, No More Shall We Part, Mute, 2001.
Nick Cave & The Bad Seeds, Nocturama, Mute, 2003.

 


 

LETTURE

  Cave Nick, E l’asina vide l’angelo, Mondadori, Milano, 2002.
Cave Nick, La morte di Bunny Murno, Feltrinelli, Milano, 2009.
Lee Master Edgar, Antologia di Spoon River, Mondadori, Milano, 2001.
Faulkner William, Mentre morivo, Adelphi, Milano, 2007.