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ASCOLTI / BISH BOSCH


di Scott Walker / 4AD, 2012


 

Musica che cammina nel fantastico

di Cristian Caira

 

È da tempo ormai immemorabile che nella sparuta Élite degli Esteti dilaga con copia la sazietà. Troppi sono i Des Esseintes che si contentano di contemplare il Passato, sfilando con ozio tra gli infiniti corridoi del Museo Immaginario e perdendosi voluttuosamente in un’onanistica reverie nostalgica. Davvero pochi, invece, i temerari ancora disposti a scarpinare in cerca di nuove Shangri-La del Bello. È toccato nuovamente a Scott Walker, l’autore esoterico par excellence, prenderli per mano e introdurli – spettatori privilegiati – nel suo arcano melodramma scandito da paure ancestrali, tormenti amletici, accenti wagneriani, silenzi thrilling, aneliti d’infinito e caleidoscopiche visioni blakeiane. Un canovaccio risaputo certo, almeno da Tilt (1995) in poi, eppure Bish Bosch, edito lo scorso 3 dicembre dalla nobile 4AD, non fatica a conquistarsi una nicchia nella sempiterna categoria delle opere fatali, stregonesche, delle quali subiamo ineluttabilmente la malia. Anche lo specialista più decorato dovrà infatti ammetterlo: sfinge assopita in un Sahara brumoso, il canto di Walker non ha ancora cessato di turbare… Errato sarebbe affidarsi all’erudizione musicale per tracciarne una radiografia. Schematica e approssimativa, suonerebbe pressappoco così: nitore e pienezza dei contorni, flessuosità della modulazione e alterità aristocratica avvicinano il crooning walkeriano al romanticismo iper-stilizzato di Brian Ferry, David Sylvian e David Bowie, tuttavia in esso si coglie un’aura di impalpabilità ancor più luminosa. Attingendo al lirismo più turgido, invece, otterremmo un risultato più soddisfacente: fragile Madame Butterfly impastata di cerone bianco, velata da un pallore etereo, il canto di Scott Walker si staglia in qualche cielo remoto come un’Idea, incorruttibile e irraggiungibile. Indugiare tanto a lungo sul Walker interprete era necessario. Ancora una volta, come in Tilt e The Drift (2006), è il suo manierato braccio da attrice tragica ad agitare il tromp l’oeil di sound effects, è la sua svenevole silhouette ad incarnarne l’ineludibile punctum visivo. Bish Bosch ci destabilizza sin dal titolo (e dal modo in cui esso, sangue anemico, cola sul fondu pece della copertina). “Si riferisce a una mitologica, onnicomprensiva, gigantesca donna artista”, sottolinea lo stesso autore (l’espressione gergale “bish bosh” è da noi traducibile con “lavoro concluso”. Ma bish è anche variazione diffusa di bitch – puttana – e bosh ha un equivalente fonetico in Bosch, Hieronymous naturalmente, il visionario pittore fiammingo del Quattrocento). E gigantesca, in effetti, ci appare la sua opera: lunghi e tesi silenzi e minimi eventi sonori – sibili, fremiti, acuti geyser rumoristici, riff minacciosi, sottili e ondulate linee di synth – si alternano evocando immani paesaggi sorvolati dal soliloquio desolato di Walker; le liriche rigurgitano di personaggi storici (Donald Rumsfeld, Attila, Ronald Reagan, Mikhail Gorbachev, Papa Giulio II), scenari (Danimarca, Alpi, Hawaii, Romania), epoche, rarità linguistiche, metafore dalla scienza medica e dalla biologia molecolare. Il nostro Hi-Fi incomincia a sbavare: non resta che accontentarlo… In See you don’t bump his head una possente impalcatura di percussioni metalliche sorregge ed eleva lo stentoreo crooning di Walker, mentre spuntano, sporadicamente, solenni colonnati di tastiere, chitarre ora ruggenti ora frementi. Nel testo stravaganti associazioni lautreamontiane (“a cobweb melts within a womb”, una ragnatela si scioglie all’interno di un utero) si alternano a mirabolanti miraggi in Cinemascope (“night stop dripping through the stars”, la notte cessa di gocciolare tra le stelle). Walker volteggia leggiadro e traccia sinuosi arabeschi nell’aria silente: è il quieto incipit di Corps de blah? La scena, poi, si colma gradatamente di graffianti stridori, furenti latrati, battiti cupi e fiammate elettriche, che, affollandosi attorno al canto, lo costringono a un’incontrollata deflagrazione patetica. Nel prosieguo della piece la curva drammatica, modulata dal pennello dei sound effects (Foley effects è forse più indicato?), seguiterà a inarcarsi, elastico dorso felino, verso l’alto o verso il basso. Phrasing abbandona gli ombrosi soundscapes precedenti per approdare a una combine painting in cui cinguettii cibernetici, un’enfatica heavy-opera crimsoniana e un euforico samba trovano ricetto sulla medesima tela. E Walker, biologo stressato dalle estenuanti ricerche, vede proteine in ogni dove: “There’s a protein song howling through the meat” (Vi è una canzone proteina che ulula attraverso la carne), afferma in un trascinante verso bebop. Tutti i nostri tentativi di ostentare orgogliosa indifferenza – fin qui, seppur con qualche affanno, condotti in porto – vengono perversamente frustrati da SDSS1416 + 13b (Zercon, A Flagpole Sitter), un imperioso Colosso di Rodi che troneggia al crocevia tra astratto rock orchestrale e lirica wagneriana. Scott si avviluppa nel manto del bardo imperituro, la sua autorevolezza raggiunge ed echeggia – moltiplicata da un prisma – nelle infinite membrane dello spazio. Lo smisurato silenzio si colora di un’incalcolabile dovizia di dettagli. Proprio come in un affresco di Bosch, ci è possibile afferrarne solo una quantità risibile: oscuri ciondolii, stridori abrasivi, poderose rullate, sferzate lancinanti e, sopra tutti, l’inconsolabile lamento del kudu shofar, un contorto corno d’ariete. Il testo – una grandiosa saga fanta-storica – narra di Zercon – buffone della Corte di Attila realmente esistito – e della sua fantasiosa fuga verticale. Volerà in compagnia delle aquile, osserverà da vicino San Simeone (l’asceta siriano che visse per trentasette anni in solitudine su un pilastro), e, in sottofinale, si dedicherà alla pratica del Flagpole-sitting (negli anni Trenta una stramba mania si affermò in America: trascorrere alcuni giorni su una piattaforma allestita sulla sommità di un palo). Il tragico finale vedrà Zercon fondersi con un SDSS1416 + 13b (il più freddo corpo substellare esistente nell’universo, recente scoperta dell’astrofisica) e morire così assiderato. Il singolo Epizootics! (nello slang hipster lo si usava per indicare l’aumento improvviso di contagi durante un’epidemia), con il suo ritmo lunatico – fratture, asimmetrie e accelerazioni ne destabilizzano l’incedere – ma quasi costante, vuole tendere la mano all’ascoltatore spaesato. Nell’ampio cast strumentale trova spazio un’irresistibile guest star: il tubax (un enorme incrocio tra una tuba e un sax dal fumettistico registro grave). Da non perdere il sardonico sketch jazzy a cui dà vita insieme a tom-tom, clapping e campanelli hawaiani. In Dimple, Walker, entità amorfa e traslucida, fluttua in slow-motion nell’etere. Scie luminose di sound effects ne aureolano la danza. Il distico: “Eyes glistening in darkness/ Like freshly crushed flies” (Occhi scintillanti nel buio/Come mosche schiacciate di fresco) lambisce le melmose rive del lirismo burroughsiano. “God creates man and then animals. Bilge! God creates animals and then man” (Dio creò l’uomo e poi gli animali. Sciocchezze! Dio creò gli animali e poi l’uomo): la Bibbia e le sue incoerenze catturano l’attenzione di Scott in Tar. Affilati bagliori di machete piovono sul claudicante e dubbioso sermone. “Non sono particolarmente affascinato dalla brutalità. È vero, talvolta la utilizzo, ma a un livello comico…”, dice Walker. È il caso di Pilgrim, un sarcastico divertissement che dipinge i vivisezionisti come ragazzini che si divertono a torturare gli animali. Un ondeggiante moto percussivo sostiene idiote cantilene come “No ear, two nails, one eye, three toes” (Nessun orecchio, due unghie, un occhio, tre dita). L’opera raggiunge lo zenit drammatico in The day the conducator died, un requiem esangue e scheletrico per Nicolae Ceausescu, giustiziato senza processo il 25 dicembre del 1989 (i dittatori, è ormai chiaro, non lasciano Walker indifferente: Clara The Drift – rievocava la morte di Benito Mussolini e della sua amante Clara Petacci; Joseph Stalin era invece il protagonista di The old man’s back again – Scott 4, 1969). Mutilati accordi rugginosi e lugubri campanelli natalizi incedono sonnambolici, mentre Scott, annichilito dal dolore, si accomiata intonando : “Nobody waited for fire” (Nessuno del plotone, infatti, attese l’ordine – il “fire” – prima di fucilare Ceausescu e sua moglie Elena).

È un finale da applausi a scena aperta. Suggellare degnamente un articolo non è affar da poco, e noi siamo stanchi ormai… Pertanto affidiamo il compito a Oscar Wilde e alla sua irresistibile wit: “Più ascoltiamo Walker, meno ci interessa l’easy-listening”.

 


 

ASCOLTI

  Scott Walker, Tilt, Drag City, 1995.
Scott Walker , The Drift, 4AD, 2006.