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VISIONI / L'INTERVALLO


di Leonardo Di Costanzo / Istituto Luce, 2012


 

Il trionfo di un "canto di sfida"

di Linda De Feo


 

È dentro di noi un fanciullino […].

Egli è quello che alla luce sogna o sembra di sognare,

ricordando cose non vedute mai; quello che parla

alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle;

che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei.

Giovanni Pascoli

 

Con molta difficoltà, a proiezione ultimata, si sfugge all’opprimente e magica penombra della storia delicata e brutale, lieve e sofferta, appassionata e sognante, narrata ne L’intervallo, lungometraggio pluripremiato all’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, presentato nella sezione Orizzonti, e diretto in maniera magistrale da Leonardo Di Costanzo.

Continua a lungo ad agitarsi l’emozione provocata dalla lirica meditazione sull’esistenza criminale di una concezione del mondo che, bloccando ogni spirale del possibile, traccia destini non ignoti nell’angoscioso e rassegnato attendere l’inesorabilità di eventi che tradiscono drammatici difetti di umanità. Lo spettatore stenta ad allontanarsi dalle sensazioni suscitate dal disincanto angelico, sospeso tra verità e desiderio, dei due adolescenti napoletani, Veronica e Salvatore, protagonisti dell’opera, che, per ordine di un capoclan camorristico, per motivi differenti, vengono segregati in un collegio abbandonato e vi restano per un’intera giornata. Un intervallo, dunque, come è suggerito dal titolo, una sospensione coatta, una transitoria e illusoria interruzione della misera ordinarietà che segna le due giovanissime vite tarpate dal sistema, incapaci di eludere l’assurdità di una terribile cattività, come, con istintiva sensibilità e poetico pessimismo, aderente al reale, sembra spiegare l’evocativo incipit del film: “Succede che gli uccelli che vivono in gabbia, anche se apri loro la porta, non fuggono. I cardellini, a volte, dalla rabbia si scagliano contro le sbarre. Anche loro, però, se apri la griglia, non scappano. Se ne stanno lì, in un angolo, a guardare. Forse sono tentati di volare via, ma non trovano il coraggio. […] Tra gli uccelli piccoli il pettirosso è quello più coraggioso, non ha paura di niente. A volte lo senti che canta di notte, per sfidare il buio. Anche l’usignolo canta di notte, ma solo quando è in amore. Allora può succedere che anche un orecchio esperto scambia un canto di sfida per un canto d’amore…”.

Nello spasimo di vita, che pervicacemente tenta di sottrarsi al male del tempo rubato al divertimento della giovinezza, si fa più dolente l’esperienza della realtà, in cui la veglia diventa indistinguibile dal sogno, popolato da anime radiose, attraversato da sonorità melodiche, colorato da tonalità vivide, sullo sfondo di una cupa disperazione, ansiosa di caricare di senso le povere cose, e della toccante tensione dei dignitosi, nobili e disorientanti silenzi dei due personaggi principali. Viene messa a punto una descrizione prodigiosamente istintiva, in grado di cogliere la realtà con uno sguardo vergine, scoprendo in essa aspetti che sfuggono al comune osservatore e un’insita, potenziale poeticità che coniuga purezza lirica e finalità morali. La suggestione estetica della scarna essenzialità dei dialoghi in vernacolo è sortita da una sceneggiatura – firmata dallo stesso regista insieme a Mariangela Barbanente e a Maurizio Braucci –, che sottolinea gli elementi drammaturgici della narrazione e che gioca con le differenze caratteriali dei protagonisti, ma anche con le loro affinità, le risorse tipiche della tenera età, la curiosità, la fantasia, la capacità di inventare illusioni, l’abilità nel raccontare storie e la voglia di ascoltarle.

Gli spazi claustrofobici, che la ricchezza della sapienza simbolica trasforma in luoghi incantati, spingono l’immaginazione dei due fanciulli a librarsi nell’eternità azzurra del cielo partenopeo, sorvolando i giardini nascosti, soffocati dallo squallore di una rovina crescente e dal marciume di cumuli di pattume, per vederli circondati da un alone di stupore che li fa vibrare in un’atmosfera fiabesca. In quell’interludio lungo un giorno, racchiuso in due inquadrature, l’una solare l’altra notturna, di una Napoli evocata senza retorica, dannata e agonizzante, dal volto spietato e dalla bellezza triviale, in quell’estasi senza tempo, pervasa dall’alito fetido della prepotenza delinquente, dell’intollerabile ingiustizia, dei presentimenti di morte, si coglie la meraviglia del vivere, che giunge ad avvertire carezzevoli profumi, a percepire guaiti annuncianti la vita e a contemplare struggenti immagini di gioventù ferocemente spezzate che la ricordano. Questo racconto di un doloroso spaesamento tesse una trama onirica, per poi squarciarla e mostrare senza indugi la zona d’ombra dove il male alligna e resiste, radicandosi con impietosa forza e dispiegandosi, nelle volute della sua crudeltà, tra le mura di un degradato e misterioso non luogo, reale e metaforico, dai tortuosi labirinti, dove si smarrisce l’ancoraggio a ogni logica, si anima la contemplazione di una natura che diventa inesauribile fonte di scoperta e si accende la possibilità fantastica di raggiungere una riva luminosa, sia pure quella televisiva mostrata da un reality show.

L’ampio respiro semantico, declinato nelle possibili implicazioni, è mosso da suoni e colori capaci di rappresentare le più sottili sfumature dei moti dell’anima fanciullesca, armonizzate con empatica delicatezza e messe in scena con intima felicità, nei palpiti gioiosi di analogie arbitrarie, che accostano l’orrore alla bellezza, la felicità al dolore, l’illusione alla realtà. Il ritmo dell’universo, che per quasi tutta la durata dell’opera accompagna il desiderio di trovare segni, sia pur minimi, di insperate libertà, canta il dolore come tremenda verità elementare, che avviluppa le ispirate immagini in una sconsolata paura e ne stempera i contorni in un’astrattezza rassegnata, per concludersi nell’orrida visione del possesso violento.

Il tema dominante rimane quello del sopruso prevaricatore e in quel commovente stupore, in quella penosa malinconia, offerti e diffusi nel film come motivi di riflessione, sembra che il chiarore si rabbui e la ferita inflitta dalla criminalità, intorno a cui l’intera pellicola è strutturata, si inasprisca, scatenando l’urgenza di farlo urlare quel dolore tormentoso, perché sia udito, perché non sia dimenticato. L’attesa affonda là dove muore il giorno, in un canto tragico che trascende la microstoria, per esprimere l’universalità degli inferni quotidiani vissuti in tutte le metropoli del mondo, dove si ha bisogno della finzione per vincere la verità, per sopravvivere, dove il bagliore sublime tenta pertinacemente di insinuarsi, per venire poi irrimediabilmente stemperato in chiazze di oscurità. Nell’indefinibile connubio tra la profondità delle intenzioni del regista e l’intensità della rappresentazione, resa ancor più fervida dalle qualità fortemente evocative della fotografia – diretta da Luca Bigazzi –, tra il rigore della denuncia e la leggerezza dell’espressione, tra la fedeltà documentaristica e la passione della messa in scena, si fa strada l’inafferrabilità di una poesia che invita a essere inseguita in tutti i suoi meandri e catturata nei molteplici accordi, generati, di volta in volta, dal fruscio delle foglie scintillanti al sole, dalla potenza di un candido battito d’ali, dai singulti di un effimero temporale.

Viene in mente l’innocenza del fanciullo nietzscheano e la sua volontà creatrice, che si realizza compiutamente nel significato della parola gioco: “Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo” (Nietzsche, 1968). E si è indotti a ricordare quanto sostiene Eraclito, che, nel frammento 52, sembra evocare una libertà totale, che crea perché gioca, dà vita a inediti valori, costruisce la realtà, schiude mondi nuovi nell’irruzione diveniente, direbbe Nietzsche, del caos dionisiaco con le sue stelle danzanti: “Il tempo è un fanciullo che gioca con le tessere di una scacchiera, di un fanciullo è il regno”. Il fanciullo è svincolato dalle corde del tempo trascorso e si poggia su quelle leggere di tutte le possibilità, è simbolicamente il compimento del superuomo, il quale incarna il principio della creazione, il senso del divenire cosmico, “il senso della terra” (ibidem), della φύσις, in cui gli enti nascono, schiudendosi nell’apparire, è colui che, attraverso un periglioso essere in cammino, va oltre l’uomo esistente che finora ha abitato il mondo, è il modo d’essere di una possibile umanità futura che produce significati, trascendendo l’individuo non vitale, costretto invece a chinare la schiena e a piegare il capo, sottomesso all’autorità, vittima impotente di un deplorevole passato, di un terribile presente e di un insensato avvenire. Giocando il fanciullo realizza il mondo, ne disegna inusitate configurazioni, si fonde con esso in una dimensione cosmologica del fluente divenire, nell’innocenza di una volontà slegata da ogni servitù, libera di essere. “Nuova forza”, “nuovo diritto”, “ruota che corre da sé” (ibidem), il fanciullo è quella volontà coerente con l’innocenza che gioca con il tempo diveniente, nel suo sibilante trascorrere, nell’esplosione di forze disordinate annuncianti una nuova aurora, quell’inesausta volontà che tutto ciò che soffre vuole vivere, quella volontà che supera se stessa, che creando il mondo crea conoscenza, come accade nei felici presagi nietzscheani del turgore della vita che si eleva: “colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola ‘la leggera’” (ibidem). Alla pesantezza dello spirito di gravità si contrappone così la levità della fanciullesca “anima dall’estensione più ampia, che dentro di sé può correre ed errare e vagare nelle più vaste lontananze; […] l’anima che è, e che si immerge nel divenire; l’anima che ha, e che vuole gettarsi nel volere e nel desiderio […], che fugge se stessa, raggiungendosi nell’orbita più vasta” (ibidem).

Le creature ridenti del film vivono quell’intervallo come un gioco, così come lo intende Nietzsche, una ricreazione, appunto, avente in se stessa il proprio senso appagante, dimenticano il turbamento incalzante di un tempo proiettato verso un compimento prossimo, impongono all’universo minimale i propri significati e si dispongono a esperire ogni attimo di quell’intermezzo come coincidenza assoluta di essere e senso. Il loro girovagare nel vuoto di quell’alieno e inquietante spazio dedalico sembra voler insegnare che nel superamento che la vita fa di se stessa, tentando di reinventarsi, “mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole nascoste della vita. [E che] inesaurito e non scoperto è ancora sempre l’uomo” (ibidem).

È nelle oasi, come quella tratteggiata splendidamente da Di Costanzo, di primigenia ingenuità, di inconsapevole “dolore della vicinanza del lontano”, (Heidegger, 1976), di incosciente nostalgia di un’infanzia spazzata via crudelmente, già raggiunta dalle brutture della vita che minacciano di travolgere irremissibilmente le due anime indifese, condannate a non trovare alcun approdo, che ognuno di noi può sentire se stesso. Ed è dal decadere di una realtà fatiscente, dove il giorno traluce come da un velo, dal luogo torbido in cui più fortemente risuonano le note eterne del cosmo, che sembrano voler affidare disperatamente la rinascita del mondo al mondo stesso, è da lì che forse si può risalire verso le sorgenti originarie dell’esistenza, dove la vita può realizzare l’infinito della propria potenza, contraddire la rivelazione di una profezia sconfitta, ormai troppo debole per autoadempiersi, e riconoscere il trionfo di un “canto di sfida” nella grandezza della forza redentrice e della qualità ultima della poesia.

 


 

LETTURE

Heidegger Martin, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, in Saggi e discorsi, a cura di Vattimo Gianni, Mursia, Milano, 1976.
Nietzsche Friedrich, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1968.