Il caso Cogne, o la mostra delle atrocità di Marinella Santoro

 

Nel nostro caso, sembra proprio questa la modalità seguita: ogni giorno sono state dedicate una o più pagine sull’argomento, seguito sempre dallo stesso giornalista che descrive il fatto con le relative vicissitudini (giudiziarie, familiari) sotto forma di una sorta di riassunto di quanto è accaduto il giorno precedente e con specifici riferimenti ad appuntamenti futuri “…intanto si attende per domani…”.

Al di là dei primi giorni, in cui semplicemente la notizia veniva riportata in quanto accaduta da poco, i media hanno seguito le indagini passo dopo passo, proponendo quotidianamente le “ultime novità su Cogne”, anche quando queste novità non c’erano affatto. La ricerca di nuovi elementi da dare in pasto al lettore/spettatore ha portato i giornalisti, oltre che a ripetersi, a dare conto anche di dettagli tutto sommato insignificanti, come la nomina del legale di famiglia, o a soffermarsi su particolari privati che non dovrebbero trovare spazio all’interno di un servizio volto ad informare gli spettatori su di un fatto di cronaca, come i funerali, la storia personale dei genitori di Cogne, i loro spostamenti minuto per minuto dopo l’accaduto. E man mano che i particolari di questa raggelante storia venivano resi noti, lentamente, proprio come in un lungo romanzo, e perciò senza lasciarsi mai dimenticare, l’attenzione dei lettori/telespettatori cresceva sempre più. 

Proprio l’utilizzo di questo “stile informativo” ha contribuito a rendere il Giallo di Cogne un mistero sempre più intrigante, la cui difficile soluzione ha appassionato tanto gli italiani. Un vero e proprio giallo al quale non mancano tutti gli elementi narrativi da manuale: la casa isolata tra i boschi, la stanza chiusa, la cerchia ristretta di personaggi, il sospetto che si erge a seconda vittima, l’assenza dell’arma del delitto e del movente.

È vero, la cronaca nera fa audience. Da sempre il delitto nei giornali paga e più la notizia è appetitosa, forte o violenta, più il lettore ne è attratto; è vero che la notizia va condita con il mistero perché una volta trovato l’assassino la storia non funziona più (un altro motivo, questo che contribuisce a mantenere in piedi il serial “Delitto di Cogne”), così come è vero che la televisione, ancor di più, tende a spettacolarizzare gli eventi utilizzando nella gestione della vicenda il format della fiction. Ma forse la vera chiave di volta del “grande successo” riscosso si trova nel perfetto adattamento all’immaginario collettivo piccolo-borghese del “telespettatore medio”, e i risultati di pubblico lo confermano.

Siamo abituati a pensare che fatti di violenza paragonabile accadano spesso – forse solo – nelle periferie degradate, tra tossici e disoccupati che vivono di espedienti. Li riporta la cronaca nera locale, “tengono” per qualche giorno, e via nel dimenticatoio.

Ma la villetta di Cogne ha ben altro valore mediatico: è la rappresentazione immaginifica e  perfetta dell’idea (illusoria) della tranquillità borghese, perbenista e qualunquista.

E il Male che vi ha fatto irruzione ha incrinato proprio questo sistema, introducendo inquietudine e oscurità nei luoghi della luce e del sereno: l’Heimlich che si trasforma in Unheimlich, ancora una volta a marcare il sentiero della paura.

 

 


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