Il religioso dopo la religione

di Luc Ferry e Marcel Gauchet,

Ipermedium libri, Napoli, 2005,

pagg. 90

€ 12,50.

 





 
Il religioso dopo la religione
di Luc Ferry e Marcel Gauchet

 

Gran parte delle discussioni sul presente e sul futuro religioso dell’umanità vertono, da un paio di secoli ormai, intorno alla stessa domanda: Dio è veramente morto o il religioso continua a permeare le convinzioni e il mondo della vita degli individui?

E continueremo a sentire assertori convinti di una tesi, così come dell’altra, fin quando non ci si renderà conto che la questione, in questi termini, è mal posta, per il semplice motivo che sono indiscutibilmente veri entrambi i fatti! È persino banale la constatazione della diminuzione «dell’influenza organizzatrice del religioso nella vita delle società» – in senso anche propriamente politico – da un lato, e, allo stesso tempo, la permanenza – se non una vera e propria reviviscenza periodica e congiunturale – della fede, dall’altro lato. È fuor di dubbio che le società tradizionali, quelle autenticamente religiose, a differenza di quelle odierne, percepivano la vita e la loro organizzazione sociale (ecco la dimensione politica) come fondate da principi e leggi esterne all’uomo, da un ordine ricevuto e trascendente al quale si sottomettevano. È questa la caratteristica che può definire l’essenza storica della religione come eteronoma: tutte le regole e le norme che tengono assieme i membri di quelle società vengono dal di fuori e da prima di loro, da un altrove. Laddove l’indipendenza organizzativa dalla religione delle moderne società occidentali, la libertà e l’autonomia dei loro attori sociali sono, allo stesso modo, dati di fatto.

I problemi, nonché il grado di interesse della faccenda, aumentano quando dal piano puramente descrittivo si passa a quello analitico. Ed è su questo che Luc Ferry e Marcel Gauchet, due tra i più raffinati intellettuali francesi contemporanei, la cui fama oltrepassa di gran lunga i confini della loro patria, danno vita a un dibattito che, nel suo complesso, rimette in questione, facendo poi ordine, le categorie e i concetti con i quali si è storicamente guardato ai fenomeni religiosi. Le posizioni di fondo dei due autori sono meno distanti di quanto possa sembrare a prima vista; stante un accordo pressoché totale sui fenomeni osservati, le differenze riguardano soprattutto le interpretazioni fornite e derivano per lo più dai diversi approcci impiegati e dalle prospettive entro cui i due si collocano (più storico-descrittiva quella di Gauchet, più filosofica quella di Ferry).

Allora il problema, come dicevamo, può essere posto in maniera più pertinente nel modo seguente: cosa sussiste della religiosità nell’epoca del declino sociale della religione? Quanto spazio, ma soprattutto quale ruolo, può avere la religione nelle società laicizzate e, weberianamente, ad uno stadio avanzato di de-magizzazione (Entzauberung)? In altre parole, non è tanto rilevante sapere se le persone credano o no in Dio, quanto piuttosto chiedersi quali siano l’origine dei loro altrettanto innegabili slanci verso il trascendente, il sacro, il numinoso e il posto che la loro fede occupa nell’orizzonte del quotidiano, dato che anche il più fervente dei credenti non crede più in un ordine naturale delle cose, in una scaturigine divina delle istituzioni e può essere per ciò considerato laico.

Ferry argomenta un eterno bisogno di religione da parte degli uomini, una sorta di necessità metafisica che può assumere le forme più svariate e manifestarsi attraverso adorazioni di varia natura. Ciò che era trascendente, a suo dire, diventa immanente attraverso una divinizzazione dell’umano e una umanizzazione del divino, rientrando così nell’orizzonte delle esperienze vissute, l’Erlebnis nel senso introdotto soprattutto da Husserl.

Gauchet, dal canto suo, pur rifiutando l’idea secondo la quale l’essere umano tende a divinizzare per una sua inclinazione naturale le forze che lo dominano, essendo la religione «un fatto di istituzione», una scelta umana, una risposta a motivi politici e sociali ben determinati, ammette che «ci deve pur essere qualcosa come un sostrato antropologico a partire dal quale l’esperienza umana può istituirsi e definirsi sotto il segno della religione», qualcosa che somigli a un “dato” immediato della coscienza.

È proprio per queste considerazioni – insieme al fatto che nessuna morale laica è in grado di dare risposte a tutta una serie di domande esistenziali legate alla condizione umana (ad esempio, perché invecchiamo? Come educare i figli? Come gestire un lutto? Come combattere la banalità del quotidiano?) – che il religioso non potrà mai sparire del tutto.

In definitiva, data la personalizzazione e l’individualizzazione dei culti e delle credenze, potremmo dire che Dio non è morto; né tanto meno si è nascosto per capire se c’è chi lo cerchi ancora – come qualcuno ha sostenuto. È stato semplicemente “dislocato”, sottratto alla sfera pubblica e sociale e condotto nel focolare privato di ogni singolo credente – del resto, la sua ubiquità glielo consente!


 

Recensione di Gianpaolo Iannicelli