titolo_orientamenti01_q38 di Adolfo Fattori

 

La Morte è l’unico territorio dell’esperienza umana – forse insieme al suo compagno/rivale di sempre, l’Amore – a rimanere refrattario ad una qualsiasi riduzione conoscitiva convincente, almeno per noi moderni. I tentativi di colonizzarne i paesaggi, di ridurla a un qualsiasi “ordine del discorso” sono il riflesso di un’immensa presunzione, e sono inevitabilmente destinati al fallimento. Forse è anche per questo che la Signora con la falce è ospite fissa dei media. Vicende criminali, disastri naturali, conflitti armati ne sono il veicolo, il medium, se si vuole, perché i mezzi di comunicazione ne sgranino imperterriti e meticolosi la contabilità generale.
Contabilità di cui vengono messi in evidenza poi, volta per volta, i vari libri mastri “accesi” alle singole filiere di cui si nutre.

Le morti sul lavoro, ad esempio, che però – come nota Ilvo Diamanti sulla Repubblica del 14 maggio scorso – vanno in scena col dovuto rilievo solo quando sono “di massa”, come nel caso della Thyssen-Krupp di Torino, dimenticando spesso – come fossero fondi “in nero” – la falcidie quotidiana che si compie nei cantieri, nelle fabbriche, dovunque alligna il lavoro, questo sì, “nero”, come appunto, il mantello della Morte. Uno stillicidio che presenta un saldo impressionante. E che forse prima o poi verrà ad esigere il suo credito a chi ne è, in un modo o nell’altro, responsabile. Va da sé che un addensarsi di suicidi in uno stretto periodo di tempo – più apparente che reale, dicono però gli istituti di ricerca – risvegli l’interesse della comunicazione mediale. Proprio perché sono suicidi, tanto più se riguardano una categoria specifica, quella degli imprenditori. Morti legate al lavoro anche queste, quindi. Ma non inaspettate (anzi, progettate), bensì cercate (anche se, forse, indesiderate).
Scelta impenetrabile, il suicidio, come ineffabile ne è l’esito. Uno dei luoghi su cui si sospendono il pensiero e la parola. Tranne che nel giudizio dei moralisti e dei religiosi. E nei tentativi di analisi dei sociologi. Anzi, proprio uno dei padri della sociologia, Émile Durkheim, scrisse uno dei saggi di riferimento – oltre che uno dei classici della sociologia – sull’argomento, e sul suo statuto nella condizione moderna. E con lui, romanzieri come Emanuel Bove, con il suo La coalizione, recentemente pubblicato in italiano: la vicenda di un uomo che da un’agiatezza ampiamente immeritata scivola lento nel bisogno, poi in un’indigenza sempre più assoluta, fino a decidere di affidarsi – di concedersi – alle acque della Senna. Vergogna? Senso di colpa? Né l’uno né l’altro. Piuttosto inconsistenza, infantilismo, deresponsabilizzazione. Molto “moderna” come condizione: uno sguardo sul futuro dell’uomo occidentale.

Più o meno nei decenni fra il saggio di Durkheim e il romanzo di Bove altri scrittori sentivano la crisi del soggetto contemporaneo, ma, a differenza del personaggio di Bove, ne traevano altri frutti. Thomas Mann, Hermann Broch ce l’hanno raccontata nei loro romanzi. E – non è casuale – erano ambedue figli di imprenditori, e impegnati nell’intrapresa di famiglia loro stessi, a subire in pieno la lacerazione che si creò fra loro e la propria impresa sotto i colpi della specializzazione e della separazione dalla direzione del proprio compito – di una parte di se stessi – per l’aumento della complessità del lavoro: alienazione, proprio come per i loro operai. Pur essendo ebrei, e non protestanti, condividevano con questi ultimi, in qualche misura, la dimensione del Beruf.
Niente sensi di colpa, niente vergogna, nella consapevolezza della crisi. Narrazione di sé, attraverso i propri personaggi – e creazione di opere che ancora ci parlano, di loro e di noi stessi, a distanza di quasi un secolo. Come, ne siamo sicuri, né colpa né vergogna hanno provato i sucidi di questi mesi. Forse, un senso di impotenza, soverchiati e schiacciati dalle conseguenze della crisi economica e dalla solitudine: dalla mancanza di sostegno da parte delle istituzioni (politiche, finanziarie, per qualcuno religiose) che pure li avevano illusi con le loro promesse. E senso di responsabilità impossibile da placare, nei confronti delle famiglie, dei dipendenti… Ormai questi nostri simili hanno attraversato una soglia assoluta, inesorabile, esito definitivo della nostra fragilità. Non possiamo, per ora, rivolgergli domande – né vogliamo farlo. Rispettiamone il silenzio. Tanto è un discorso soltanto sospeso.