ASCOLTI / BACK IN THE DAYS


di Michael Gibbs and the NDR Bigband / Cuneiform Records, 2012


Il tempo ritrovato tra cose sparite

di Gennaro Fucile

 

Un titolo un programma, anzi due. Michael Gibbs ha interrotto un silenzio discografico durato circa undici anni con un album che cuce insieme alcune registrazioni effettuate dal 1995 al 2003 con la NDR Bigband, valente formazione orchestrale tedesca e con due suoi vecchi compagni d’avventura: il vibrafonista Gary Burton e il bassista Steve Swallow. Back in the Days, titolo programmatico, si è detto, perché invita a guardare indietro, al lavoro svolto all’incirca nel lasso di tempo trascorso dalla precedente uscita (Nonsequence, uscito nel 2001), anche se in realtà Gibbs ha continuato a scrivere, eseguire e incidere musica in veste di compositore per il cinema e la televisione, attività intrapresa sin dai primi anni Settanta. Titolo che appare, però, anche un invito a guardare indietro alla carriera di questo compagno di strada della rivoluzione musicale avviata nel Regno Unito a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Una sonora sommossa da cui scaturì l’originale jazz britannico e più in generale un’emancipazione del genere in tutta Europa. Gibbs non si schierò con nessuno, rimase fedele ai suoi studi musicali; dell’eclettismo che caratterizzò quella stagione in particolare ne respirò l’aria e con il suo procedere più ortodosso si distinse per una diversità al rovescio. Fu testimone oculare e partecipe dei lavori di costruzione delle fondamenta di una nuova musica emancipata dai modelli statunitensi, ma rimase un po’ al di qua del confine, mentre dall’altra parte la scena andava in fiamme. Succedeva molti, molti giorni fa e come suggerisce il brano d’apertura dell’album, Time Has Come, è venuto il momento di rivisitare un po’ di cose riguardo a quei tempi per comprendere la vita e le opere di Gibbs; molte cose, se prendiamo alla lettera l’intero passaggio di Lewis Carroll (da Oltre lo specchio) che il musicista ha ritagliato per intitolare la sua composizione: “Time Has Come the Walrus Said To Talk of Many Things”.

Così molti giorni fa, il 25 settembre 1937, a Salisbury, in Rhodesia, nacque Michael Clement Irving Gibbs. Oggi la Rhodesia non esiste più, si chiama Zimbabwe e anche Salisbury non è più indicata sulle carte geografiche, sostituita da Harare, in seguito divenuta capitale dello Zimbabwe. Gibbs lascia presto l’allora Rhodesia per andare a studiare musica poco più che ventenne in Massachusetts, dapprima alla Lenox School of Jazz, dove trova Gunther Schuller, poi al Berklee College of Music (oggi School of Music), al conservatorio, ovvero il Boston University Tanglewood Institute.

La materia di studio di Gibbs alla Berklee era il jazz – composizione, arrangiamento e direzione orchestrale – e il trombone lo strumento al quale si dedicava come solista, mentre il suo maestro (non solo suo) fu Herb Pomeroy, che vantava trascorsi con Charlie Parker e Lionel Hampton. Al baffuto insegnante, soprannominato “The Walrus”, ovvero il tricheco, per via dei suoi baffoni, è dedicato il citato Time Has Come, eseguito per celebrarne i quarant’anni d’attività nel 1996, quando l’anziano professore decise di ritirarsi dalle scene. Ai tempi in cui invece insegnava al giovane e volenteroso Gibbs, questi, in estate, rapito dall’opera di Olivier Messiaen e da quella di Charles Ives, seguiva anche i corsi di Aaron Copland, Iannis Xenasis e Lukas Foss alla Tanglewood (Summer School, appunto) per perfezionare la sua conoscenza della materia musicale tout court.

Gibbs è per la prima volta rintracciabile su disco proprio in una sorta di quaderno di scuola, un album intitolato Jazz in The Classroom Volume IV, pubblicato dallo stesso istituto. Tra gli studenti/componenti dell’orchestra all’opera nel disco alcuni avranno in seguito una carriera di valore, ad esempio il vibrafonista Gary McFarland e il chitarrista Gabor Szabo. Laureatosi nel 1962, Gibbs si trasferì nel 1965 a Londra, ma questa, a sua volta, pur essendo tuttora la capitale della stessa nazione e avendo conservato lo stesso nome, non esiste più. Quella che accolse il giovane Gibbs era la Swingin’ London al culmine della beatlemania e in piena febbre blues, con una covata di promettenti jazzisti che sbarcavano il lunario e si facevano le ossa con i gruppi di Ronnie Scott, Cyril Davis, Alexis Korner e soprattutto di John Mayall. Alcuni incroceranno proprio il promettente neolaureato. Il primo incontro di rilievo in terra inglese Gibbs lo fa con un suo coetaneo e altro ex allievo del Berklee College, anzi il primo artista britannico ad essersi “laureato” nel prestigioso istituto: Graham Collier.

Di quella Londra effervescente Collier ricorda che “era una scena piena di vitalità grazie, in gran parte, alla generosità di Ronnie Scott, che aveva lasciato ai giovani musicisti il locale di Gerrard Street con l’affitto già pagato, allorché si trasferì nella sede di Frith Street. Quel club, poi conosciuto come The Old Place, era una risorsa capitata al momento giusto per la mia generazione di musicisti britannici. Cominciavano a essere coinvolti nella libertà che il jazz offriva. Una volta che Ornette Coleman e Miles Davis, ognuno a modo proprio, ruppero le catene che in molti sensi limitavano il jazz, per noi, come chiunque altro nel mondo, c’era la libertà di trovare un proprio percorso. Nel nostro caso, non come copia degli americani, ma come musicisti inglesi che, avendo assorbito la musica americana insieme a molte altre influenze, erano ansiosi di lasciare un proprio segno sul jazz” (Bonomi, Fucile, 2005). L’intero panorama europeo era in evoluzione, ricorda il pianista Keith Tippett (Quaderni d'Altri Tempi n. 34): “… anche sulla scena jazzistica, non solo in America, ma anche in tutta Europa, nella quale includo la Gran Bretagna, stava succedendo qualcos’altro. C’erano Peter Brötzmann, Han Bennink, Peter Kowald, Fred Van Hove, e qui in Gran Bretagna c’erano Evan Parker, Derek Bailey e John Stevens, solo per fare qualche nome. Tutti questi musicisti stavano facendo qualcosa di veramente radicale, che si andava a fondere con l’energia di band come la Brotherhood of Breath o i Blue Notes, tutti scagliati contro confini da abbattere, tutti pronti a cogliere lo spirito di quel decennio” (Shipton, 2011). Quest’ultimi erano per così dire vicini di casa di Gibbs, poiché arrivavano dal Sudafrica razzista ma al contrario di Gibbs, apolide per natura, raccolsero i frutti migliori proprio perché innestarono le proprie radici nella nuova terra e da quelle radici non si distaccarono mai.

Tornando a Collier, raffinato compositore e arrangiatore a sua volta, questi fu anche il primo jazzista a ottenere una borsa dall’Arts Council per una composizione jazz: Workpoints, segno che le nuove leve iniziavano perlomeno a farsi notare. Nello stesso anno, il 1967, allestisce una piccola formazione orchestrale con cui registra Deep Dark Blue Center, il primo disco a suo nome. L’album è un buon punto d’osservazione da dove seguire il corso di uno degli affluenti che confluiranno in un batter d’occhi in quella originale corrente musicale che per comodità si suole indicare come jazz inglese. Innanzitutto, il combo di Collier era senza confini avendo in formazione il giamaicano Harry Beckett, il canadese Kenny Wheeler, il rhodesiano Gibbs, i gallesi Karl Jenkins e John Marshall, il londinese Phil Lee, Dave Aron che arrivava da Singapore e il leader che proveniva dal nord dell’Inghilterra. Presto saranno proprio gli incroci tra diverse culture musicali a fare la differenza.

In secondo luogo, l’album proponeva solo composizioni originali denotando una crescita di personalità dell’autore così come sarà più o meno in contemporanea per i primi manufatti forgiati da altri compositori che si affacciarono allora sulla scena musicale, in primo luogo Mike Westbrook e Neil Ardley, band leader di pari importanza e valore. Infine, seppure ancora influenzato dagli studi americani, sicuramente all’ombra di Gil Evans (nume tutelare anche per Gibbs), il lavoro di Collier comincia a mettere a fuoco il sound inglese fatto di impasti con il patrimonio folklorico e con le nuove architetture melodiche ideate dai Fab Four.

Anche la nascita del jazz inglese non ha datazione certa, ma la congettura più solida individua nel 1967 l’anno delle prime idee feconde, coincidente con il trapasso dal beat al pop nella sua prima versione psichedelica. È l’anno in cui esordiscono i Pink Floyd con The Piper at the Gates of Dawn, i Beatles sfornano Sergent Pepper’s Lonely Hearts Club Band e dall’altra parte dell’Atlantico Jimi Hendrix apre il fuoco con Are You Experienced? e i Doors escono con l’omonimo album.

Quell’anno il sassofonista John Dankworth, all’epoca già un veterano della scena inglese, polarizza un nugolo di talenti emergenti prima nella realizzazione del suo The $1,000,000 Collection e poi, più o meno con la stessa orchestra, realizza Windmill Tilter, progetto firmato da Wheeler e ispirato al Don Chisciotte. Il trombonista Gibbs è della partita. Ecco qui emergere un altro tratto molto inglese in questa fase della storia: il rimando costante a materiali extra musicali, sempre riferimenti colti, non solo della cultura anglosassone. Il pianista Stan Tracey, ribattezzato “Grandfather of British Jazz”, per il suo Jazz Suite Inspired by Dylan Thomas’ Under Milk Wood (1965) si rifece alle liriche del poeta gallese e poi frequentò Lewis Carroll per Alice in Jazzland (1966), mentre rimandi shakespeariani sono presenti in Seven Ages of Man, album del 1969 che vede presente anche Gibbs; il quintetto capitanato da Don Rendell e Ian Carr (poi inventore dei Nucleus) a sua volta si rifaceva a Thomas Hardy, William B. Yeats e François Villon; Collier manifesterà sin dagli esordi il suo interesse per le arti visive, in particolare per l’astrattismo e anche gli altri due band leader che esordiscono in quel periodo non erano da meno. Neil Ardley con la New Jazz Orchestra (che includeva futuri membri dei Nucleus e dei Colosseum) propose Le Déjeuner Sur l'Herbe (1968), il titolo è quello del celebre quadro di Édouard Manet e l’immagine di copertina ne è un omaggio; l’anno successivo è il turno di The Greek Variations e qui la suggestione arriva direttamente dalla madre della cultura europea, non solo nella suite omonima che occupa la prima facciata, ma anche nei restanti brani, da Persephone’s Jive a Farewell Penelope e Siren’s Song.

L’altro bandleader che avrà al suo servizio il trombonista Gibbs è Mike Westbrook, probabilmente il musicista che meglio riassume tutte le anime del jazz inglese e che meglio le ha espresse. Gibbs lo si può ascoltare in Marching Song Volume 1 & Volume 2 del 1969. Anche riguardo ai richiami letterari, Westbrook non sarà secondo a nessuno, intrecciando un legame con l’opera di William Blake che dura ormai da quarant’anni.

Tutte queste sedute di registrazione vedono quindi Gibbs impegnato al trombone, ma ancora poco fiducioso dei suoi mezzi, della sua capacità di dirigere un ampio organico, della sua spiccata propensione alla difficile arte dell’arrangiamento e della sua scrittura musicale. Non a caso nella selezione affidata alla NDR Bigband, compare un brano intitolato June 15th 1967, scritto allora per un primo quartetto del virtuoso vibrafonista Gary Burton, ma che esce su un disco a suo nome soltanto ora. Quello con Burton fu un incontro decisivo per Gibbs che lo elesse in un certo senso come il suo solista privilegiato e fu anche l’inizio di un’amicizia che dura tuttora. Si conobbero alla Berklee e lo conobbe anche Collier, che iniziò a suonare con lui e lo stesso Gibbs, come prova l’inedito The [Berklee] Barley Mow inserito nell’antologia postuma Relook, pescato da un altro quaderno di scuola: Jazz in the Classroom, Vol. VII. Sempre per Burton furono anche le prime composizioni di Gibbs, tra cui Sweet Rain, divenuta nel tempo un vero e proprio standard, grazie soprattutto alla versione che ne fece nel 1967 Stan Getz. Solo nel finire del 1969, Gibbs compie il grande passo e incide il primo album a suo nome, omonimo, che riporta in scaletta proprio Sweet Rain. È una piccola magia sonora, un suono gioioso, frizzante.

È il preludio a un anno decisivo, quello del passaggio alla giovane maturità del jazz britannico. Saranno alcuni album in particolare a lasciare il segno. Nel gennaio del 1970 “… l’etichetta discografica Vertigo pubblica Elastic Rock, esordio di un gruppo chiamato Nucleus. Copertina nera apribile, ritagliata al centro da cui irrompe un arancio fuoco. Aprendo l’album si scopre che si tratta di lava, di un’eruzione in corso.

Londra, l’anno è sempre il 1970 e nel mercato discografico si accende un’altra fiamma. Nasce la Incus, prima etichetta indipendente dedita alla musica improvvisata, gestita direttamente dagli artisti coinvolti. L’esordio è firmato da due musicisti inglesi e un olandese: il chitarrista Derek Bailey (fondatore dell’etichetta), il sassofonista Evan Parker e il poliedrico Han Bennink. Il disco si intitola The Topography of the Lungs. Caratterizzato da un rigore assoluto, il trio si spinge ad un livello di astrazione inaudito […]. Le grandi case discografiche non stanno a guardare. La Rca allestisce l’etichetta Neon (un’altra luce che si accende) che pubblica il primo lavoro di un collettivo di jazzisti arrivati a più riprese dal Sudafrica […], battezzano Brotherhood of Breath il collettivo e l’album. Integrano nell’organico musicisti inglesi, tra cui John Surman, Mike Osborne e Marc Charig, mescolando sapientemente ritmi e melodie della loro terra e la ruggente improvvisazione praticata dagli europei, creando un’originale blend di kwela e jazz music.

Il 1970 non ha ancora partorito tutto. Un’altra grande casa discografica, la Cbs/Columbia, fa uscire Third dei Soft Machine, doppio album per un quartetto (più ospiti) originato da un trio fino a quel momento innamorato del jazz, ma militante nelle fila della migliore psichedelia britannica. I quattro si chiamano Elton Dean, Hugh Hopper, Mike Ratledge e Robert Wyatt. Inondano di suoni elettrici, reiterazioni e rumorismi, l’assortimento di base del jazz: lo swing e la ballad” (Bonomi, Fucile, 2005). L’anno successivo Gibbs fa uscire Tanglewood ’63, il suo capolavoro, segno dei tempi e ricordo degli anni della scuola. Il sound pop dell’orchestra jazz di Gibbs è esuberante, rigoglioso, scoppiettante. Gibbs sa come creare un’atmosfera e quando scuoterla con lampi elettrici che imprimono un cambio di ritmo, scivolando da atmosfere pastose e avvolgenti a passaggi a tempo di marcia gloriosa. A dargli una mano ci sono un po’ tutti i musicisti frequentati nelle registrazioni sopra descritte, artisti che scivoleranno nel jazz rock creando band come i Colosseum (che inseriranno in repertorio proprio il brano Tanglewood ’63) ad altri più votati al jazz in senso stretto, come Alan Skidmore o John Taylor e gli uomini ovunque Harry Beckett e Kenny Wheeler.

Gibbs resterà ancora qualche anno in Inghilterra incidendo ancora degli album di musica pregiata, presterà manodopera come arrangiatore in contesti diversi, ad esempio nel disco d’esordio del cantautore Bill Fay, altro esempio di micro incrocio tra folk e jazz, oppure in Wonderworld degli Huriah Heep, si ritroverà a comporre per un album dedicato a William Shakespeare (insieme a Ardley, Ian Carr e Tracey), ma soprattutto riprenderà a lavorare con Burton in dischi che segnarono il massimo della sua popolarità: In the Public Interest (firmato a quattro mani) e Seven Songs for Quartet and Chamber Orchestra a nome di Burton, uscito nel 1974, anno in cui Gibbs se ne tornò alla Berklee School in qualità di “compositore residente”. Vi resterà fino al 1983, inanellando una serie di collaborazioni prestigiose e di successo, con la Mahavishnu Orchestra, con Jaco Pastorius, Whitney Houston, Marianne Faithfull (nello splendido Strange Weather) e Peter Gabriel, per citarne alcune. Ritornerà a Londra nel 1985, una Londra profondamente diversa, perché differenti erano gli anni Ottanta “un momento di grande indifferenza, caratterizzati da una società in cui per la prima volta l’avidità è stata considerata accettabile” (Shipton, 2011), riassume alla perfezione Keith Tippett. Nel decennio successivo Gibbs incise solo due album sempre caratterizzati da scintillanti tessuti timbrici e armonici, anche se tutto si è fatto più delicato rispetto al passato e anche un po’ calligrafico, frutto di una professionalità a tratti ingombrante, di troppo mestiere e di un contesto meno stimolante e di una carriera di produttore e fabbricante di colonne sonore necessariamente inchiodate a precisi standard. Se ne (ri)sente il peso anche in questo ultimo lavoro, pur attraversato da sprazzi di antichi fasti, levate di scudi e guizzi dei solisti, ma anche da soluzioni già note come in Jail Blues ripreso dalla serie televisiva Tales from the Darkside (prodotta da George A. Romero) virandola in stile notturno poliziesco, oppure quando come arrangiatore riprende uno standard come Round Midnight in versione pastello.

Così la musica di Gibbs resta in un non luogo come la sua Rhodesia, traccia ambigua di una storia che ha preso una strada imprevedibile e meno sorridente di come apparve all’epoca. Altri tempi sono arrivati e come afferma il tricheco, Time Has Come, ovvero si è fatta ora di chiudere questo viaggio nel tempo.

 


 

ASCOLTI

AA.VV., Will Power – A Shakespeare Birthday Celebration in Music, Vocalion, 2005.

Ardley Neil, The Greek Variations, Universal, 2004.

Burton Gary, Seven Songs for Quartet and Chamber Orchestra, Ecm, 1974.

Collier Graham, Deep Dark Blue Center, BGO, 2008.

Collier Graham, Relook, Jazz Continuum, 2012.

Colosseum, Live, Castle, 1998.

Gibbs Michael, Michael Gibbs/Tanglewood ’63, Vocalion, 2004.

Gibbs Michael, The Only Chrome Waterfall Orchestra, BGO, 1995.

Mike Gibbs Band, Just Ahead, BGO, 2005.

The Mike Gibbs Orchestra, Big Music, Virgin,Venture, 1988.

The Mike Gibbs Orchestra, By the Way, Ah Um, 1995.

The New Jazz Orchestra, Le Déjeuner Sur l'Herbe, Verve, 1968.

Tracey Stan, Jazz Suite Inspired by Dylan Thomas’ Under Milk Wood, Blue Note International, 1993.

Westbrook Mike, Marching Song Volume 1 & Volume 2, Righteous, 2009.

Wheeler Kenny, Windmill Tilter, BGO, 2010.

 

LETTURE

Bonomi Claudio e Fucile Gennaro, Elastic Jazz, Auditorium, Milano, 2005.

Shipton Alyn, Nuova storia del jazz, Einaudi, Torino, 2011.